No alla democrazia dei falsari. Chiacchierata con Matteo Renzi
Il populismo, il modello Jobs act, la crisi delle sinistre, Berlusconi e tutta la verità su Bankitalia (e su Visco). L’intervista con il segretario del Pd alla festa del Foglio
Firenze, festa del Foglio, festa dell’ottimismo, Salone dei cinquecento. Renzi arriva sul palco della festa del Foglio e prima di essere intervistato dal direttore, Claudio Cerasa, indica sul soffitto un punto tra gli affreschi.
Vedete, lì c’è la tartaruga con la vela, che è il simbolo più bello per un politico, tant’è che Cosimo de’ Medici lo immaginava come l’emblema del festina lente: l’affrettarsi con calma, con prudenza. Poi c’è chi fa solo il “festina”, chi fa solo il “lente”, però vabbè. Insomma la tartaruga era l’animale più lento del mondo e la vela era il motore più potente dell’epoca. Firenze è un patrimonio di saggezza, dispensa messaggi importanti anche attraverso queste immagini che riempiono le mura del Salone dei Cinquecento. Qui c’è ad esempio anche la Battaglia di Anghiari: prima o poi ce la faremo a vincere la resistenza delle soprintendenze per andare a vedere se lì sotto c’è davvero il Leonardo perduto. Però so che tanto tu vuoi andare dritto su Banca d’Italia: io sto provando a divagare, potrei stare ore a discutere di arte…
“La bandiera dell’Europa? Non credo che in questo momento il Pd debba avere come urgenza quella di cambiare simbolo”
Secondo me c’è da un lato una verità oggettiva: e cioè che l’Italia deve correre di più. La società globale impone, al nostro paese e all’Europa tutta, un cambio di passo. E dunque chi dice che cresciamo meno delle economie del sud-est asiatico, chi dice che potremmo fare di più, dice cose sacrosante. La competizione è globale ed è profondamente impegnativa. Dall’altro lato c’è però una cultura – che è quella del giornalismo, della politica e dell’accademia – che negli ultimi anni ha prodotto un messaggio distorto rispetto alla realtà del paese. Noi siamo cresciuti con le graduatorie in tv del martedì sera secondo cui l’Italia è al 116° posto come livello di democrazia nel mondo.
Un immagine della Festa del Foglio a Firenze
Il martedì?
Scelta casuale. A volte succedeva anche di giovedì. Ma la musica di sottofondo era assai simile. E la litania pure: “L’Italia è al 172° posto per libertà d’informazione”; “L’Italia è al 186° posto per giustizia e diritti”. E poi magari scorri l’elenco dei 185 paesi che ci precedono e trovi delle dittature. Io ricordo di aver visto una graduatoria in base alla quale come livello di democraticità noi eravamo dietro a El Salvador, in cui le elezioni si erano tenute per la prima volta nel 2015. Ora, la roboante democrazia salvadoregna non si offenderà se affermiamo che tutto ciò è forse leggermente esagerato. Così come un tantino esagerata è anche la notizia della morte dell’economia e della democrazia italiane. In definitiva, tornando alla domanda: sono vere tutte e due le cose. E cioè sì, noi dobbiamo correre di più, e però c’è un racconto ricorrente secondo cui nel nostro paese va sempre tutto male. Noi non ci rendiamo conto delle positività, delle opportunità e della forza che l’Italia ha e dell’eco di bellezza che continua a far risuonare in tutto il mondo. È un errore clamoroso che fa del male ai nostri figli.
“Bankitalia? E’ la prima volta che una mozione parlamentare, approvata col parere favorevole del governo, viene giudicata eversiva”
La sinistra ha senz’altro le sue responsabilità. Ma anche quell’altro, quello che ti ha dato bidone stamattina (Silvio Berlusconi, ndr), non è che abbia scherzato. Vorrei che fosse chiaro: questa visione unilaterale va respinta. Ad esempio, è vero che noi della sinistra abbiamo sbagliato nel considerare l’Europa il luogo nel quale andare a fare la guerra a Berlusconi. Ma questa idea di affidare all’Ue la battaglia interna è un errore drammatico sia quando lo commette la sinistra, sia quando a farlo sono altri. Io ho ancora nelle orecchie i cori dei Cinque stelle che urlavano “mafia, mafia, mafia” mentre tenevo il mio discorso d’esordio per il semestre europeo. I parlamentari italiani che siedono a Strasburgo rappresentano in primo luogo il nostro paese, e devono difenderlo, non possono mettersi a strillare contro il loro presidente del Consiglio degli slogan ingiuriosi. D’altro canto, però, anche l’uomo che stamattina ti ha tirato il bidone – lo descrivo apposta così, almeno ti faccio arrabbiare…
Se Berlusconi se fosse stato alla festa dell’ottimismo, cosa avrebbe detto?
Questo non chiederlo a me. Io so che lui ha parlato di un milione di posti di lavoro, che però siamo stati noi a creare. Voleva rimuovere l’articolo 18, e l’abbiamo fatto noi. E così pure l’imu sulla prima casa. Io sono sempre terrorizzato quando Berlusconi apre bocca, perché lui le spara grosse, le promesse, e a noi tocca poi realizzarle. C’è Bonifazi che da giorni mi dice: “Ehi, quella del bollo sulla prima auto è carina”. E io che gli rispondo: “Aspetta, Francesco, bisogna prima vedere quanto costa”. Ma insomma funziona così: lui le dice, noi poi dobbiamo farle. Ma al di là delle battute, gli eccessi della positività dello storytelling berlusconiano hanno senz’altro influito nel distorcere il racconto della realtà italiana. Se ti trovi di fronte alla più grande crisi finanziaria, occupazionale ed economica degli ultimi decenni, tu non puoi dire che in Italia i ristoranti sono pieni e pensare di poter commentare così il crollo di Lehman Brothers. Detto questo, parliamo di futuro. Quello dell’Italia è legato all’ottimismo oppure no? Io ci credo. E ottimismo non è la generica speranza che le cose vadano meglio, ma è il desiderio di non lasciare il futuro agli avversari. In questo credo fortemente.
“Io non torno rottamatore, non si possono mandare indietro le lancette della storia, ma non tradirò mai gli ideali della mia giovinezza”
E’ una provocazione intelligente. Ma non credo che in questo momento il Pd debba avere come urgenza da inserire all’ordine del giorno quella di cambiare simbolo. Io la prendo nel modo più positivo, la vostra proposta, e la prendo terribilmente sul serio. Fare del Pd il partito europeista, oggi, vuol dire cambiare le regole del gioco a Bruxelles affermando la nostra ferma adesione ai valori europei. Riflettiamo: abbiamo da un lato Salvini che chiede il referendum per uscire dall’euro – che peraltro non si può fare, ma evitiamo di dirglielo: anche perché ultimamente, per quanto mi riguarda, se se ne fa qualcuno in meno, di referendum, io sono più contento – dall’altro Di Maio e i Cinque stelle. Capisco il silenzio glaciale che è appena calato, ma ci sono: esiste davvero questo movimento di falsari, che cioè si caratterizza per la raccolta di firme false a Palermo, per i sondaggi falsi in Sicilia, per le coperture false del bilancio a Torino, per le false notizie diffuse ogni giorno – al punto che, con invidiabile coerenza, Beppe Grillo intitola il suo spettacolo Fake – e dunque non di cinque stelle, parliamo, ma di costanti, ripetute falsità. Ecco, in uno scenario simile, mi sembra chiaro che o lo facciamo noi del Pd, il partito europeista, o non lo fa nessun altro. Non lo fanno i populisti di destra e non lo fanno i populisti grillini. Ed è giusto ragionare su come procedere in questo senso: ma, secondo me, non credo che il Pd possa mettersi a discutere ora di come cambiare il simbolo. Poi ovviamente qualcuno presenterà immediatamente una mozione per proporre di cambiare la bandiera, non fosse altro che per il fatto che io ho detto il contrario. Però, obiettivamente, non mi sembra il caso: il Pd ha il suo simbolo, per ora non cambiamolo. Facciamo invece una battaglia europeista vera, e facciamola sui contenuti.
Su cosa, esattamente?
Il deficit al 2,9 per cento.
Ma è una battaglia possibile? Molti osservatori la considerano una sfida fuori dal mondo. Impossibile. Forse persino senza senso.
Se elabori contestualmente sia una misura sul debito, sia una misura sul deficit, non è fuori dal mondo. Se abbassi il debito con un’operazione one shot che noi chiamiamo Operazione Capricorn, e contemporaneamente dai un po’ di respiro al bilancio, torni a Maastricht. A me spiace dirlo nel tempio dell’austerity, e cioè alla Festa del Foglio (giornale che su questo tema ha lanciato campagna sacrosante: talvolta del tutto condivisibili e talvolta semplicemente rispettabili), ma col fiscal compact non si va avanti. L’Europa muore se continua ad avere la visione tecnocratica che una certa cultura tedesca ci ha imposto in questi ultimi anni. E l’atteggiamento di una parte del mondo politico italiano, che si è genuflesso di fronte alla tecnocrazia tedesca confondendo il “ce lo chiede l’Europa” col “ce lo chiedono la Germania e gli altri paesi del nord”, ha costituito un errore. Io so che quanto dico non viene accolto in modo troppo positivo da molti di voi, ma proprio per questo vengo a dirvelo con libertà intellettuale e rispetto profondo. Noi non possiamo andare avanti con il totem del pareggio di bilancio, perché in questa fase della storia è impossibile. Bisogna disporre di uno spazio di crescita maggiore, che io individuo nella flessibilità bis, vale a dire nell’operazione Maastricht: deficit al tre per cento, crescita al due per cento, inflazione al due per cento e misura per ridurre il debito. Se continuiamo con la filosofia del taglio-taglio-taglio, l’operazione riuscirà perfettamente ma nel frattempo il paziente sarà morto.
A proposito di pazienti morti. Ce n’è uno che non se la passa molto bene in tutto il mondo: la sinistra.
E infatti è appena arrivato l’esito delle elezioni in Repubblica Ceca. Bel risultato della sinistra: abbiamo fatto il sette per cento.
“Qual è la vera differenza tra la sinistra modello Pd e le altre sinistre? Una su tutte: il Jobs Act. Il vero partito del lavoro siamo noi”
E’ in media con quanto fatto in Francia e in Olanda. Però da noi si fanno polemiche perché il Pd è al 26 anziché al 27 per cento.
Ma perché in questo momento in tutto il mondo ci sono pochissimi paesi in cui governa una forza di sinistra o di centrosinistra? C’è il Portogallo, che è un caso strano, c’è la Grecia di Tsipras, c’è l’Italia e pochi altri in giro per l’Europa, e poi c’è il Canada. Altrove, dappertutto la crisi ha spazzato via la sinistra. Perché? E che differenza c’è tra la sinistra che governa in questo momento l’Italia e le altre sinistre che si osservano nel resto d’Europa?
Non so dare una risposta compiuta perché la situazione della sinistra a livello globale è veramente complicata. A mio parere se la sinistra non cambia è finita: e in alcuni paesi è invece proprio la sinistra ad essere diventata il baluardo del sistema. Si è messa a difendere ciò che c’era, è diventata conservatrice. E questo ha portato i populismi e un certo centrodestra a vincere in carrozza. E’ accaduto in tante parti del mondo, e nell’unico luogo dove c’è stato un avvicendamento di schieramenti al governo da destra a sinistra, vale a dire in Portogallo, è accaduto comunque dopo un risultato elettorale negativo. Si è affidato l’esecutivo a una coalizione di sinistra, è vero, ma il primo partito uscito vincitore dalle urne era comunque quello dei popolari. Poi in Portogallo c’è un bravissimo premier, Antonio Costa, che è venuto peraltro in questa meravigliosa città come sindaco di Lisbona nel 2011, e che ebbi pertanto la fortuna di conoscere già allora. Penso che la sinistra debba cambiare, debba essere innovatrice e innovativa, debba avere curiosità per il futuro. E non possa avere paura: perché se è giochi la carta della paura è fisiologico che poi vinca la destra.
Che vuol dire cambiare?
Vuol dire avere il coraggio di dire che il futuro non è il nostro principale nemico. Esempio banale: se tu vai a dire che di fronte all’innovazione tecnologica tutti noi perderemo posti di lavoro e si stava meglio quando si stava peggio, ti poni in posizione conservatrice. Giochi, appunto, la carta della paura. Io non vi sto dicendo che ho la certezza che il futuro sarà meraviglioso. Ma so che se sei una forza progressista, l’innovazione tecnologica la consideri una possibilità per le giovani generazioni che vogliono mettersi in gioco. E dunque la racconti come una storia bela, quella della Silicon Valley, dove ragazzi figli di nessuno con una borsa di studio crescono e trovano la loro strada. E racconti come una storia bella anche quella di chi, mettendo in campo il suo talento, può avere le sue opportunità. E insomma non racconti che va tutto male, che tutto è un’incognita e che tutto è un problema. Quando la sinistra si mette a teorizzare il reddito di cittadinanza, i sussidi e l’assistenzialismo, quella sinistra è morta. Se c’è un paese in Europa dove la sinistra ha ancora una chance è l’Italia, perché in Italia c’è il Partito democratico. Se noi fossimo rimasti alla vecchia sinistra, come ci sono rimaste la Francia, l’Olanda, la Slovacchia e la Germania, noi oggi saremmo spazzati via dalla storia. Ecco perché bisogna avere il coraggio di dire che il futuro non è un tabù. E non vivere di ideologia, come invece una parte della sinistra continua a fare.
“Il premier farà la sua scelta e avrà sempre il mio rispetto. Ma non ditemi che in Italia le banche sono state il pezzo forte del sistema”
Ha ragione D’Alema, ovviamente!
Appunto. Ma qual è, invece, la prima differenza che ti viene in mente?
Il Jobs Act. Perché il Jobs Act ha tolto l’articolo 18 ma ha reintrodotto la norma sulle dimissioni in bianco. Perché il Jobs Act ha tolto l’articolo 18 ma ha portato 978 mila posti di lavoro. Perché essere di sinistra non significa fare i convegni sul lavoro, ma significa creare lavoro: che è una bella differenza. Essere il partito del lavoro non significa riempirsi la bocca con frasi del tipo “noi seguiamo ciò che dice il sindacato”, significa creare tutele nuove per una nuova generazione di lavoratori. Per me il Jobs Act è di sinistra. Così come gli 80 euro, che qualcuno ha definito una mancia elettorale. Ebbene, gli 80 euro sono la più grande forma di redistribuzione del reddito al ceto medio: tutti quelli che guadagnano meno di 1500 euro prendono più soldi rispetto a prima. Vuol dire togliere a chi ha di più e dare a chi ha di meno, ma non attraverso slogan elettorali. Poi è chiaro che c’è qualcuno che pensa che la sinistra debba essere quella dell’“anche i ricchi piangano”. O quella del fare più tasse. In Italia: dove di tasse ce ne sono già troppe, e perciò essere di sinistra significa semmai abbassarle, non metterne di nuove. Ma questa è una differenza che credo sia evidente e sotto gli occhi di tutti. Io vorrei discutere di questi temi con le donne e gli uomini che credono all’idea che il centrosinistra abbia ancora un futuro.
978 mila posti di lavoro (forse) meno uno, che è quello del governatore di Banca d’Italia.
Capisco ora che di tutte le domande che mi hai fatto fin qui in realtà non te ne fregava assolutamente niente. Era un diversivo.
“Credo fermamente nel popolo del Sì, nel popolo del 40 per cento. E anche per questo, rispetto alle prossime elezioni, sono ottimista”
Bankitalia ha una funzione rilevantissima, anche se ovviamente diversa e minore rispetto a quella che aveva prima dell’inizio del percorso dell’unione bancaria e dell’istituzione della Banca centrale europea. E però il suo ruolo è di grande importanza, e va riconosciuto da tutti noi come un elemento fondamentale della tenuta istituzionale del paese. Quindi io ritengo che Bankitalia sia una struttura molto importante. Aggiungo poi che chi, come me, nel leggere i discorsi che voi del Foglio pubblicate nel vostro inserto del sabato, ha ritagliato in particolare quello di Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia nel 1945, riconosce a Via Nazionale anche una funzione importante di selezione della classe dirigente del paese. Io sono uno che viene da Rignano sull’Arno, per cui Banca d’Italia per me è un luogo di assoluto prestigio: il centro studi di Palazzo Koch è, nella mia visione, un laico vangelo.
Troppo poco ottimista?
Non è questo il punto. Il punto è invece che noi stiamo facendo una polemica che io definisco surreale. E non so neppure se qualcuno abbia avuto davvero la voglia di seguirla fino in fondo, dato che tutti i giornali dedicano cinque pagine a una mozione parlamentare.
Sono usciti tantissimi retroscena, spesso di segno opposto. Ci spieghi tu, allora, cos’è accaduto?
Io ti dico quello che ho capito io, di quanto è successo. È successo che si è fatta una mozione parlamentare, proposta dai Cinque stelle, che la presidenza della Camera ha giudicato ammissibile. Non so se abbia fatto bene o male, ma così ha deciso. E le regole basilari del diritto parlamentare prevedono che quando un partito fa una mozione, gli altri facciano delle contro-mozioni. Chi si stupisce vive su Marte.
Gli altri partiti però potrebbero anche semplicemente votare contro.
Sì, ma di solito poi comunque si presenta una contro-mozione. Del resto, non è che una mozione sia un atto così rilevante: non credo di aver mai visto tanta attenzione per una mozione negli ultimi vent’anni. Veniamo al dunque, pero. Qualcuno, innanzitutto, ha posto un tema di metodo, affermando che non si possa parlare di Banca d’Italia in Parlamento. Al che verrebbe da chiedersi come mai allora Mario Draghi e Danièle Nouy ogni tre mesi vanno nella competente commissione di Bruxelles a riferire e ad essere interrogati dai commissari. Questo nessuno lo dice, ma è proprio così che funziona: Roberto Gualtieri, presidente della commissione per i Problemi economici e monetari, ogni tre mesi convoca i vertici della Banca centrale europea. Evidentemente secondo la filosofia della Bce è normale che il Parlamento, espressione della volontà democratica, dialoghi con le istituzioni bancarie. In Italia non si deve fare? Va bene, basta dirlo. Se invece si fa, e si rende ammissibile una mozione come quella di M5s, si deve rendere atto che i partiti hanno il diritto di esprimere le loro valutazioni. C’è chi dice: “non si può mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza della Banca”. Giusto. Segnalo però che si è cambiata la legge nel 2005, e si è affermato il potere del governo di nominare il governatore attraverso una serie di passaggi. Questo per ciò che riguarda il metodo. Qualcuno ha definito la nostra scelta in un modo che ora non ricordo bene…
Eversiva.
Chi lo ha detto?
L’ex direttore del Corriere della Sera: Ferruccio de Bortoli.
Be’, è la prima volta che una mozione parlamentare, approvata col parere favorevole del governo, viene giudicata eversiva. Io sono stupefatto dal livello qualitativo della discussione. La mozione parlamentare è un atto d’indirizzo che può piacere o meno, ma che non è così rilevante: tant’è che si dice che una mozione non si nega a nessuno. Tornando ai fatti, in ogni caso, il presidente del Consiglio mi ha chiesto di modificare alcune espressioni contenute nella mozione che il Pd aveva preparato. Confesso che io non la avevo neppure letta, quella mozione: ho chiesto comunque di procedere perché non ci fossero screzi tra il gruppo del Pd e il governo. E spero che così si possa concludere tutta la discussione sul metodo, ora che abbiamo fatto sfogare coloro che definiscono il nostro atteggiamento come eversivo e che non ricordano il tenore del dibattito che si svolse nel 2005 su Banca d’Italia, con gli stessi toni ma su giornali di segno totalmente opposto. Bene, archiviata questa discussione, vorrei fare io una domanda: fermo restando che la scelta del governatore spetta al presidente del Consiglio e che io sarò al suo fianco perché da segretario del partito mai mi permetterò di criticare il suo operato, vi sembra che sulle banche in Italia sia andato tutto bene? Vi sembra che i problemi bancari, in questo paese, li abbia creati il governo che ha fatto la riforma delle popolari e che ha salvato centinaia di migliaia di correntisti dalle regole del bail-in sciaguratamente volute dal governo precedente, ovvero quello di Mario Monti?
Bankitalia dice che dal 2014 in poi le scelte sono state condivise con il governo.
Le scelte politiche sono state condivise, non c’è ombra di dubbio. Quella delle banche popolari è una riforma sacrosanta che ha fatto il mio governo. Le scelte gestionali delle banche commissariate, i commissari, il management, la vigilanza, spettano invece in a Banca d’Italia, che decide in maniera autonoma e indipendente. Esprimere un giudizio di merito, allora, non è lesa maestà, è prendere atto che in Italia si può valutare l’operato di chiunque. Perché altrimenti si arriva al paradosso per cui qualcuno è intoccabile, inviolabile, e i politici sono sempre colpevoli. Difendo la dignità della politica rispetto a questa visione allucinante. Dopodiché in tutta libertà il presidente del Consiglio farà la sua scelta e avrà sempre il mio rispetto, la mia stima e la mia amicizia. Ma non venite a raccontarmi che in Italia, in questi anni, le banche sono state il pezzo forte del sistema.
C’è però un dato che non può sfuggire: il segretario del Pd, che è l’azionista di maggioranza di questo governo, dice una cosa, e i presidenti del Consiglio e della Repubblica, che quello stesso segretario ha fortemente contribuito a designare, invece forse ne faranno un’altra. Forse c’è un problema, no? E poi, entrando nel merito: per quale motivo il governatore Visco non dovrebbe essere riconfermato?
Innanzitutto: voi davvero credete che chi ha avuto un ruolo nel designare alcune persone a certi incarichi pretenda poi che quelle persone facciano ciò che vuole lui? Io soffro di una ricostruzione per la quale sarei stato quello che ha messo nei posti chiave soltanto i fedelissimi, i componenti del cosiddetto Giglio magico – ché poi, se del giglio fiorentino si parlasse con un po’ più di rispetto, sarebbe cosa assai gradita. E invece noi abbiamo fatto delle scelte oneste, e poi le persone che vengono indicate per servire il paese fanno le loro valutazioni. Nessuno può immaginare che esista un filo di collegamento diretto, in questo senso. Così si finisce col mettere in dubbio persino l’autonomia del presidente della Repubblica, la cui funzione è sacra e intoccabile. E farlo sarebbe inaccettabile. Le valutazione che il capo dello stato fa meritano il riconoscimento di tutto il paese. E questo è il rispetto delle regole del gioco, questo è il senso delle istituzioni, questo l’atteggiamento serio di chi, servendo la patria, fa le sue battaglie, afferma i suoi valori, ma poi accetta le scelte dei soggetti che devono decidere. Ci hanno chiamati eversivi perché abbiamo presentato una mozione parlamentare, mentre noi siamo quelli che fanno le battaglie a viso aperto, in libertà, con grande coraggio e con grande dignità, e poi lasciano che chi deve decidere lo faccia. Io non ho mai preteso da nessuno né fedeltà, né lealtà, né riconoscenza. E devo dire che qualche persona, in questi anni, l’abbiamo pure nominata: dagli alti vertici di Bruxelles fino ai sindaci di tante città. Ebbene, non ce n’è una che possa dire di aver ricevuto una telefonata da me fatta per esercitare pressioni di alcun genere. Noi siamo persone serie. Il punto è che tutte le discussioni di queste ore vogliono deviare l’argomento, e cioè: ma a voi sembra che sulle banche sia andato tutto bene? Sono mesi che si fa credere che l’unico problema degli istituti di credito di questo paese sia stato ad Arezzo. Ma viviamo su Marte o vogliamo ricordarcelo che c’era qualcuno che proponeva che Banca Etruria fosse comprata dalla Popolare di Vicenza? E poi: vogliamo discutere o no del fatto che il sistema bancario non dipende, per quanto riguarda la vigilanza, dal consiglio dei ministri? Dopodiché, siccome noi sappiamo sorridere e siamo anche autoironici, io vi garantisco che in ventuno tappe fatte col Treno Pd non ho incontrato una sola persona che mi abbia chiesto qualcosa a riguardo della Banca d’Italia. Mi hanno parlato semmai delle difficoltà nel vedersi concedere un mutuo, ma non della mozione parlamentare. Ecco, io non ho paura a stare qui altre due ore a discutere di Banca d’Italia, se è questo ciò che volete. Ma il paese reale è da un’altra parte. E prima ce ne rendiamo conto e meglio è: per l’Italia e per la dignità della politica.
Come può essere un rottamatore un politico che ha governato il paese per tre anni? E soprattutto: può ancora esistere una rottamazione in questa fase politica? In un contesto in cui agiscono forze antisistema e decliniste forse bisognerebbe rispondere con messaggi e con toni completamente opposti. O no?
La fase della rottamazione non può essere riprodotta, è vero. Ma non puoi pensare che io diventi il paladino di un sistema che non è quello per cui ho iniziato a fare politica. La sinistra, tornando a quanto già detto prima, non può essere quella che si scalda per la difesa del ruolo del governatore di Banca d’Italia e non dice una parola su risparmiatori e correntisti. La sinistra non può essere quel soggetto politico che fa passare un discorso falso degli ultimi anni. Perché noi sulle banche siamo intervenuti per salvare i risparmiatori e per evitare che le numerose magagne che abbiamo trovato affogassero l’intero sistema. Il mio obiettivo non è quello di tornare a fare il rottamatore; e però, caro direttore, non accetterò mai di tradire un ideale semplicemente per tornare ad avere un ruolo o un incarico. Il massimo rapporto che ho avuto con le banche sono stati i due mutui che ho accesso presso la Cassa di risparmio di Firenze. Non abbiamo mai messo bocca in una nomina, se non in quella della fondazione della stessa cassa di risparmio di Firenze. Non c’è un solo uomo politico che possa dire di aver ricevuto pressioni da me per nominare un certo banchiere. E forse per qualcuno questo è un errore: ma sfido chiunque a confessare di aver ricevuto da me una telefonata in cui chiedevo un posto o un incarico. E siccome non credo di essere in una numerosa compagnia, da questo punto di vista, vi dico che sul tema delle banche c’è un gap tra ciò che è realmente accaduto e ciò che viene raccontato. Io sono sorpreso dalla reazione di tutti i principali commentatori di questo paese. Non c’è nessuno che stia valutando davvero se il sistema della vigilanza sia stato efficace o meno; se i commissari pagati profumatamente per andare a sistemare gli istituti di credito in crisi abbiano svolto il loro ruolo oppure no; se ci sia stato un eccesso di attenzione verso alcune realtà importanti. Tanti se di cui nessuno parla. E allora se, per tornare ad essere apprezzato dal sistema, io devo tradire me stesso, non ci sto. C’è una bellissima massima che invita a non dimenticare mai gli ideali della propria giovinezza. Ecco, lo dico a Palazzo Vecchio: io non torno rottamatore, non si possono mandare indietro le lancette della storia, ma non tradirò mai gli ideali della mia giovinezza. E dunque questa visione politica della gestione delle banche va liquidata perché è inaccettabile. E adesso, per piacere, smettiamola con Banca d’Italia perché altrimenti la platea si addormenta.
E Renzi dove immagina di essere tra quattro anni?
Ho già fallito un primo pronostico dicendo che se avessi perso il referendum sarei andato a casa. Cosa che avrei voluto tanto fare.
E perché Renzi lo ha fatto?
Perché a un certo punto mi sono fatto convincere che una persona non può abbandonare la comunità che ha contribuito a creare semplicemente per un atto d’orgoglio personale. Ed è stata una scelta che mi è costata molto, dal punto di vista umano, e che chi non conosce la mia indole e la mia persona non può capire. Io avrei fatto di tutto anziché rimangiarmi quella promessa. Ma 26 mila email mi hanno reso consapevole che quell’esperienza non mi apparteneva al punto di poter decidere d’interromperla dalla sera alla mattina perché avevo perso il referendum.
E se Renzi avesse mollato tutto, cosa avrebbe fatto?
Di tutto. A un certo punto, dopo aver fatto per tre anni il presidente del Consiglio e per cinque anni il sindaco di Firenze, una persona può anche legittimamente pensare di dedicare un po’ di tempo a sé stesso, agli studi, alla vita. Dopodiché non ho niente da rimproverarmi, ho scelto di rimettermi in gioco e due milioni di persone sono andati a votare alle primarie: persone vere, in carne e ossa, altroché 30 mila clic. Sono orgoglioso del popolo del Pd, che è la più grande comunità democratica d’Europa, presa in giro da tanta gente, ma fatta di donne e uomini.
E’ importante per Renzi pensare di poter essere un giorno ancora a Palazzo Chigi? Ci crede davvero?
Per molti aspetti sì, è ovvio: come si può negarlo? Perché ti rendi conto che da lì riesci ad incidere in modo molto più forte che non stando altrove. Però non sono così desideroso di tornare a Palazzo Chigi da sacrificare le idee i valori per i quali ho iniziato a fare politica. Se per tornare a Palazzo Chigi devo dire che sulle banche in questi anni è andato tutto bene perché sennò il sistema si arrabbia, allora perdonatemi, ma non affermerò mai una cosa nella quale non credo.
Quale sarà il tema chiave della campagna elettorale?
Non so dirlo con sicurezza perché, innanzitutto, non so quali saranno le regole della legge elettorale.
Ci sono ancora dei dubbi sulla definitiva approvazione del Rosatellum al Senato?
Tra una settimana avrò maggiori certezze. Però finché non passa a Palazzo Madama...
Renzi non starà sereno?
Lasciamo stare quell’espressione. Ormai non posso dire “stai sereno” a nessuno, altrimenti rischio una querela.
A Gentiloni Renzi ha già detto stai sereno, su Visco?
Ma quando mai. Sono dieci mesi che scommettete sulla lite tra me e il premier e sono dieci mesi che io e il premier continuiamo a lavorare bene insieme. E non c’è stato un solo momento in cui, pur avendo noi idee diverse, queste divergenze sono state rese note. Mai. Gioco di squadra straordinario. Quanto al tema che permetterà di vincere le elezioni, invece, non lo so. Se la legge elettorale contribuirà a definire uno schieramento con quattro contendenti – centrosinistra, centrodestra, M5s e sinistra radicale – io penso che il ruolo del centrosinistra sarà quello di rappresentare l’alternativa al populismo. Però non può essere una definizione in negativo a farti vincere le elezioni. E dunque bisognerà scommettere su alcune proposte concrete, vere, in particolare sui figli, sugli anziani, sulla gestione della vita quotidiana. C’è fame di concretezza, in Italia: poso garantirvelo, dopo ventuno tappe fatte in treno che mi hanno permesso di incontrare le realtà più varie. E poi però c’è anche tanta fame di valori. D’altronde, quali sono gli argomenti che rendono grande l’Italia, quali sono le cose che ci fanno stare insieme? Da questo punto di vista credo che non abbiamo ancora trovato il giusto mix tra concretezza e valori: abbiamo qualche mese per farlo. E comunque vincerà le elezioni, a mio avviso, chi prenderà il 40 per cento. Ora, capite che per me questa cifra è un po’ una maledizione: quaranta per cento alle Europee, ed è stato un trionfo; quaranta per cento al referendum, ed è stato un tonfo. Ma se prendiamo il 40 per cento col Rosatellum governiamo da soli. Perciò mi piacerebbe dire che non c’è due senza tre, ma so che è una partita complicata e difficile che richiede la capacità di mobilitarsi del popolo del centrosinistra. E poi, dall’altro lato, ci sarà anche qualcuno nel popolo del centrodestra che dovrà scegliere, che ha visto ciò che noi in questi anni, a differenza dei governi di Silvio Berlusconi, abbiamo fatto, che si ritroverà a chiedersi se preferisce una coalizione a trazione leghista con quello statista di Matteo Salvini o un centrosinistra riformista. E quindi la mia sfida consiste nel voler portare via al centrodestra quell’uno o due per cento che, collegio per collegio, risulterà decisivo per vincere le elezioni. Credo fermamente nel popolo del Sì, nel popolo del 40 per cento, nel fatto di riuscire a convincere da un lato gente che in passato ha votato il centrodestra, da un lato chi non vuole consegnare il paese a Grillo o alla Lega e quindi, nella logica del voto utile, non voterà la sinistra radicale. Insomma, direttore, io sono ottimista sulle prossime elezioni. Tiè. E poi, quando torneremo al governo, ci toccherà togliere il bollo sulla prima auto. E speriamo che Berlusconi non ne tiri fuori altre durante la campagna elettorale, sennò sarà un problema. Non è che si fanno le larghe intese, dopo. Funziona che lui fa le proposte prima, e poi a noi ci tocca inseguirlo.
Quindi possiamo dire che siete pronti ad accettare le proposte del centrodestra?!
Direi con uno slogan: fatto! Un milione di posti di lavoro: fatto! Giù l’irap sul costo del lavoro: fatto!
Che cosa fa paura a Renzi della democrazia del clic?
Secondo me il clic ormai non riguarda più solo la democrazia, ma le relazioni personali. Io vedo quanto tempo i miei figli trascorrono su Instagram, mi capita di discuterne in famiglia. La società del clic è comunque quella in cui, da qui ai prossimi cinque anni, sarà fisiologico pagare tutto attraverso lo smartphone. Il clic insomma è ormai ovunque, e non torniamo indietro. Non dobbiamo, cioè, vederlo come un pericolo. Quello che però sì che mi fa paura è la logica del fake. Un esempio: io vado in tutte queste città in treno, arrivo nelle stazioni e ci sono centinaia di persone ad accoglierci. E poi ce ne sono tre o quattro che, armati di telefonino, cominciano a urlare: e non contemplano che io mi avvicini per chiedergli conto delle loro lamentele, tant’è che quando io lo faccio loro vanno in crisi e non sanno più che dire. E però queste poche persone fanno un video, secondo quanto sono state istruite a fare, lo mettono sui social, un meccanismo di algoritmi vari attraverso fake, trolls e altro lo rilancia, e il titolo è immancabilmente: “Guarda cosa non ti fanno vedere i tg omologati”. Ovvero un tale che urla e che, mettendosi intorno tre o quattro persone, costruisce l’immagine de “il popolo non vuole”. Immaginiamo cosa possa essere questo meccanismo delle fake news in mano a paesi stranieri. E non è un argomento di mia invenzione: ma un tema che ha investito le elezioni degli Stati Uniti, della Germania, della Francia. In definitiva a me fa paura la mancanza di senso critico: ecco perché penso che si debba investire in educazione. Bisogna spiegare ai ragazzi che i 140 caratteri sono un bene, perché aiutano, ma non sono il Vangelo. E bisogna avere la forza, il coraggio e l’intelligenza di educare le persone a essere curiose, a chiedersi, come ci insegnano i nostri padri latini, il cur delle cose, a non accontentarsi della prima verità di comodo che viene data.
Ma la democrazia del clic può portare a una deriva pericolosa per la democrazia rappresentativa?
Tutto è un pericolo e però niente è un pericolo se la cittadinanza è decisamente consapevole. Tutto è un pericolo perché, nel momento in cui astrattamente spieghi che la democrazia del clic mette in discussione le regole del gioco, diventa evidente che ci sono rischi seri. Ma io non sono terrorizzato da questo, quanto piuttosto dal fatto che non si dia rilievo all’importanza della cultura e dell’educazione. La riforma più importante che io ho fatto non è il Jobs Act, non è l’imu, non è l’irap, non è l’abbassamento delle tasse, non è l’Expo, non è quella costituzionale che poi non è passata a causa del referendum: la riforma più importante è stata quella che ha stabilito, nella legge di bilancio, che per ogni euro speso in sicurezza si sarebbe dovuto spendere un euro in cultura. Il che vuol dire che, per essere un cittadino attivo, non hai bisogno soltanto di un carabiniere e di un soldato che ti proteggono in periferia o nei dintorni di una stazione, ma hai bisogno di poter godere di un investimento educativo serio. E’ questo che ti permette di essere cittadino e non un mero numerino. E’ questo che per me è fondamentale: e se c’è questo non sono preoccupato per la democrazie del clic. Se però, viceversa, noi continuiamo a dire che la cultura non sia altro che un appendice, una cosa insignificante, allora siamo finiti. Insomma, direttore, io non ho paura del fatto che ci sia un movimento basato su una società privata che lega gli eletti a vincoli di sanzione economica con una srl, che è di proprietà di un certo signor Grillo, del nipote e del commercialista di quel certo signor Grillo, che è chiaramente impostato su una gestione privatistica della democrazia. Io non ho paura di quel movimento lì: io ho paura che non ci siano anticorpi sufficienti affinché i politici e i partiti tradizionali capiscano l’importanza degli investimenti in cultura. Quindi non dipende dai Cinque stelle, che in fondo fanno la loro parte nell’inventarsi la democrazia del clic, ma dipende da noi. In un paese civile, all’indomani delle primarie pentastellate di Genova, quando si è stabilito che bisognasse rifare la consultazione perché i risultati non erano quelli sperati dai vertici di M5s, ci sarebbero dovute essere decine di editoriali indignati contro la deriva autoritaria ed eversiva. E invece danno a noi degli eversivi per una mozione parlamentare. Ma io vivo questa fase con un gigantesco sorriso stampato in viso, perché mi sto divertendo da matti. Nonostante tutti ci attacchino, nonostante ciò che accade sul fronte giudiziario: sì, continuo a divertirmi perché credo che in questo paese ci siano intelligenze e qualità ben più forti delle storture della democrazia del clic e della furbizia di chi inventa falsità su falsità per cercare di cancellare la realtà. Io credo nell’Italia, sono disperatamente ottimista sul futuro del paese, credo che questo nostro meraviglioso insieme di talenti non possa essere disperso o lasciato nelle mani di chi sa soltanto lamentarsi e inventare falsità.
Come parleranno del caso Consip i libri di storia tra dieci anni? Cosa ricorderanno?
I libri di storia non si occuperanno di queste cose, fortunatamente per l’Italia. La ricostruzione della cronaca, invece, chiamerà questa vicenda non “caso Consip” ma “caso Cpl-Concordia”. E chi ha orecchie per intendere, intenda.
Per una città come Firenze, l’Unesco è sicuramente importante perché questa città ha ottenuto importanti riconoscimenti. Ora, Trump ha scelto di far fare un passo di lato agli Stati Uniti, alla luce di come l’organizzazione della cultura dell’Onu ha trattato Israele in questi anni. Se volessimo verificare se davvero esiste un pregiudizio dell’Unesco contro Israele, la battaglia giusta non sarebbe quella di trasformare Israele in un patrimonio dell’umanità?
Con l’allora ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, negli scorsi anni abbiamo deciso di cambiare linea rispetto a queste mozioni che ciclicamente vengono riproposte in sede Unesco contro Israele perché sono semplicemente assurde. E quindi abbiamo preso le distanze da certe scelte dell’Unione europea. Detto questo, non sono d’accordo con la scelta di Donald Trump, la considero un clamoroso errore: perché gli Stati Uniti hanno un senso e una potenza nel momento in cui stanno dentro le istituzioni internazionali, non quando se ne chiamano fuori. Non credo che Israele possa essere banalmente definito patrimonio dell’Unesco. Israele è Israele. Parlando alla Knesset ho dichiarato che Israele non ha il diritto di esistere, come dicono tutti, ma quel paese, quella straordinaria democrazia, ha il dovere di esistere. L’ho detto raccontando alcune storie di Firenze, l’ho detto citando alcune personalità del mondo politico israeliano che con questa città si sono in qualche modo confrontate, e l’ho detto esordendo con un riferimento al salmo 122, quello che recita: “Domandate pace per Gerusalemme”. Il che significa non soltanto affrontare una crisi geopolitica, ma significa essere coerenti alla straordinaria e drammatica storia di questi secoli. Noi siamo molto debitori ai nostri fratelli maggiori ebrei dal punto di vista religioso, ma non di una semplice lettura religiosa possiamo accontentarci. Qui c’è una questione istituzionale: Israele è la democrazia principale, quasi l’unica, in quella zona. Israele svolge una funzione straordinaria. Israele è una smart nation, anzi una star-up nation, come Shimon Peres ebbe a definirla. Quando qualcuno propone alle università italiane di fare boicottaggio nei confronti degli atenei israeliani, sappia che sta segando le proprie gambe, si sta negando il futuro, perché noi abbiamo tutto da imparare da molte delle realtà che Israele esprime. Detto questo, , ma come si può davvero pensare di uscire dall’Unesco? ‘un esco, per dirla alla fiorentina.