Pepys e i suoi giorni
Il più sincero e sfacciato diario del ’600 inglese. Con pagine sulla peste che a Londra fece centomila morti
"Non ho mai vissuto più allegramente e non ho mai guadagnato tanto danaro come in questo tempo di epidemia”. L’annotazione nel diario ha la data del 31 gennaio 1665, il senza vergogna si chiama Samuel Pepys (“pips”, se lo volete pronunciare). Sappiamo a quanto ammonta l’aumento di capitale: da 1.400 a 4.400 sterline. Ne conosciamo i motivi: “Devo questo risultato alla mia diligenza, al mio zelo e alla mia recente nomina di Sovrintendente al Vettovagliamento”. Il più sincero e sfacciato diario del Seicento inglese – difficilmente superabile da altri secoli e altre letterature – non delude mai.
A differenza di Daniel Defoe, che al tempo della pestilenza aveva sei anni – il suo “Diario dell’anno della peste”, per quanto ben documentato, va nello scaffale dei romanzi con “Robinson Crusoe” e “Moll Flanders” – Samuel Pepys era adulto. E in grado di raccontare la vita a Londra tra il 1665 e il 1666, quando la peste fece quasi centomila morti, più di un abitante su cinque. La sua vita, soprattutto, almeno per quanto riguarda i dettagli gustosi.
Troviamo i pettegolezzi di corte: “Il duca di York è sempre più istupidito dietro la sua amante Lady Dunham e va a visitarla anche di giorno con il suo seguito” (ricordate i croissant mattutini di François Hollande? ecco). E un funzionario dell’Ammiragliato che, fatti i conti a cui ognuno di noi cede in presenza di un grosso spavento, ne ricava un quadretto non esemplare: “Mi accorgo che colloco il mio piacere personale al di sopra di ogni altra cosa. Non mi riesce di rinunciare al vino e alle donne”.
Samuel Pepys aveva cominciato il suo “Diario” alla fine del 1659, in ottimo stato di salute. Smetterà nel maggio del 1669. Aveva 39 anni, stava perdendo la vista e la scrittura avrebbe peggiorato il malanno. L’umore tendeva al nero, come non era mai stato neppure nell’anno della peste: “È un po' come se vedessi il mio cadavere scendere nella tomba” (morirà settantenne nel 1703).
L’annuncio dei primi casi nella City, proprio in casa di un suo vicino e conoscente – finché l’epidemia impazzava nei sobborghi, né lui né la sua cerchia si preoccupavano – spinge Mr Pepys a chiudere le pratiche in corso, mettere in ordine le sue cose, fare testamento. Pochi giorni prima, in un turbolento approccio extraconiugale – non l’unico registrato nel “Diario”, in un misto di latino maccheronico, spagnolo e francese per non farsi scoprire dalla moglie – si era fatto male all’indice della mano destra. La consorte era alle terme “con la sua dama di compagnia, per bagnarsi dopo esser vissuta per molto tempo nel sudiciume” (lo stesso sudiciume che Jonathan Swift descriverà nel poemetto satirico “Lo spogliatoio della signora”).
La contrizione dura pochissimo. Samuel Pepys indossa il suo “abito di seta a bottoni d’oro con belle guarnizioni di pizzo ai polsi”. È solo un po' preoccupato per la parrucca nuova, comprata a Westminster quando già c’era la peste. Immagina che la moda cambierà, dopo l’epidemia: il rischio – scrive – è che i capelli vengano dalle teste degli appestati. Annota che i negozi chiudono, che il carattere dei vicini peggiora, ma sulla strada da Londra a Greenwich (ci andava da sfollato) compra “qualche barile di ostriche, dal solito fornitore”. Doverosa precisazione: “La bella al banco è ancora al suo posto malgrado l’epidemia. Capita ormai di fare tal genere di constatazioni a proposito di conoscenti”.
La vita continua. Il barcaiolo solito si ammala. Il suocero si ammala. Basta una settimana perché Samuel Pepys metta al bando i pensieri tristi: “Ho cenato con un bella tinca, poi mi sono messo a letto”. Riferisce però le disgrazie altrui, che con il senno di poi suonano di leggenda metropolitana: “Pare che un vicino sia inciampato in un cadavere, tornando a casa; l’ha raccontato alla moglie incinta e lei è morta per lo spavento”. La storia dice che dopo la peste arrivò il Grande Incendio (poi Londra conoscerà la Grande Puzza, nel 1858). Samuel Pepys è tormentato dal sospetto che la moglie abbia una tresca con il maestro di ballo, e sia andata a lezione senza mutande.