Un manifesto antipauperista
Contro la politica che si rifiuta di scommettere sulla bellezza del lusso
Da oggi, ogni settimana, il Foglio ospiterà il “Manuale di resistenza glamour” di Costantino della Gherardesca
La parola d’ordine che da sempre mette d’accordo tutto il nostro star system politico è “valorizzare le eccellenze”. E’ uno di quei mantra ripetuti così spesso da aver perso ogni significato. Altrimenti non si spiega perché su Instagram ci sono dei ragazzini che fanno lo scrub con lo champagne, mentre io scrivo sul Foglio per pagarmi un quarto d’ora di fisioterapia.
La mia vita è l’eterna dimostrazione che, nonostante il coro di lodi alla meritocrazia da tutto l’arco costituzionale, nessuno ha in programma di valorizzare qualche meritevole disperato come il sottoscritto e investirlo del ruolo che gli spetta: quello di volto del preserale di RaiUno e voce della diretta tv della Via Crucis in Vaticano. Perché non sono ancora una di quelle statue di cera tanto amate dal popolo? Perché i miei colleghi non mi temono? Se non sei oggetto di rosicamento, non sei glamourous, avrebbe detto John Berger. E fino a quando il mondo dello spettacolo non mi considererà unanimemente “uno stronzo”, io non sarò ahimè nessuno.
L’ostacolo alla mia legittima ascesa sociale è la nostra classe dirigente, così poco incline a riconoscere e incentivare il glamour. Come possiamo sperare di veder brillare il lato migliore di questo paese, se i nostri politici ebbri di pauperismo inorridiscono al passaggio di una Bugatti Veyron e fanno carte false per farsi fotografare a bordo dei mezzi pubblici?
Che fiducia possiamo dare a dei parlamentari che fanno a gara a chi guadagna meno? E’ a queste persone che vogliamo affidare le sorti del nostro paese? Quando li sentite parlare dei loro progetti per sostenere l’“artigianato di qualità” e le “nuove tecnologie”, non fatevi illusioni: non stanno pensando a migliorare le rifiniture in pelle dei jet privati Gulfstream G650, ma a farvi intrecciare cesti di vimini. E non possiamo neanche stupirci della loro scarsa immaginazione: i punti di forza del nostro paese non sono qualcosa di cui oggigiorno i politici possono farsi ambasciatori.
Perché se andiamo a vederle, queste eccellenze italiane, la lista che ci si para davanti non contempla beni che ispirano grande senso civico come pannelli solari, dissalatori e impianti di compostaggio. Si tratta piuttosto di abiti pregiati, automobili per emiri e divanetti costosissimi. Le nostre eccellenze non sono in grado di dare energia, acqua e nutrimento a una comune fruttariana, ma possono rendere più sopportabile la routine di persone che meritano tutta la nostra invidia e ammirazione: i plutocrati della decadenza internazionale.
E allora, che fare? Cambiare eccellenze o cambiare la nostra visione del potere?
Fino a quando non avremo una classe politica libera di comprendere, incarnare e trasmettere la dissolutezza che da sempre caratterizza l’immagine dell’Italia nel mondo, non avremo mai la forza per risollevarci. Le nostre eccellenze sono troppo glamourous per essere valorizzate da un Di Maio.
Proviamo una volta tanto a guardarci intorno e ad allungare il collo oltre il gossip giudiziario e le messe funebri del nostro giornalismo italocentrico. Superati i confini nazionali, non serve andare tanto lontano per imbattersi in esempi virtuosi. Prendiamo un tiranno sofisticatissimo come Putin. Lui sì che ha davvero valorizzato le eccellenze del suo paese. Come? Le ha fuse in un’unica opera: la sua nuova auto presidenziale, una simil Rolls-Royce che lui stesso ha contribuito a disegnare. Putin non l’ha solo richiesta, ma ne ha seguito personalmente la realizzazione, obbligando i suoi ingegneri e progettisti a collaborare con le migliori aziende del paese. Ogni ingranaggio è orgogliosamente made in Russia e quando la vettura sarà rivelata al pubblico, a maggio di quest’anno, ci si aspetta una generale ondata di orgoglio patriottico. Se da noi Gentiloni si facesse fare una bicicletta su misura dall’officina sotto casa, il giorno dopo ci sarebbe la rivolta dei Forconi. In questa radiosa fiaba sovietica c’è però un piccolo dettaglio che mi ha profondamente depresso. L’auto di Putin è fatta in casa solo al 99 per cento: i freni, infatti, sono stati affidati a un’azienda della provincia di Bergamo, leader mondiale del settore. Motore russo, ma freni italiani. Una struggente metafora del nostro immobilismo.