L'arte di vendersi, nobile attività incomprensibilmente bistrattata
Non è poi così male rotolarsi ai piedi dei padroni per conquistare la loro attenzione. Guardate il labrador di Putin
Ciclicamente mi viene rivolta l’accusa di essere “un venduto”. In Italia andiamo pazzi per questa parola e non vediamo l’ora di usarla per sputare su chiunque si permetta di prendere pubblicamente una posizione chiara, soprattutto se non troppo popolare. A me è capitato un sacco di volte, ma soprattutto nel 2014, quando ho sostenuto la campagna dell’Unicef per le vaccinazioni, e nel 2016, quando mi sono apertamente schierato a favore del referendum costituzionale. La prima volta mi hanno accusato di essere stipendiato da Big Pharma, la seconda di “prendere soldi” dal Pd. (Quali?)
Eppure io non ci vedo nulla di male nel vendersi, anzi lo trovo quasi doveroso. Se sul tavolo ci fosse un’offerta valida lavorerei per il governo di Mohammad bin Salman, farei addirittura dei balletti burlesque per la festa di compleanno di Netanyahu. Sarei anche pronto a collaborare con i Russi, ma in quel caso i soldi dovrebbero essere davvero tanti, vista la compagnia.
Per me vendersi non vuol dire sottomettersi al volere di una persona potente. Vuol dire soprattutto esporsi, cosa che i miei colleghi dello spettacolo non fanno quasi mai. Quanto sono noiose le loro interviste, le loro dichiarazioni in cui stanno sempre attenti a non pestare i piedi a nessuno: parlano come se fossero Peng Liyuan, la first lady cinese, come se davvero una loro parola avventata potesse scatenare crisi internazionali. Come se la loro vita privata nel rione Monti fosse troppo interessante e politicamente sensibile per essere esposta al popolo. Sarebbe il caso di avvisarli che viviamo in un’epoca in cui il presidente degli Stati Uniti va con le pornostar e la gente se ne sbatte il cazzo.
Per fortuna il mio punto di vista non è falsato come quello dei miei colleghi. Forse perché mentre loro leggono Elena Ferrante, io traggo ispirazione dal divinamente incoerente e venale mondo dell’arte contemporanea.
Per esempio, non sarebbe liberatorio vendersi come Andrea Fraser? Nel 2004, questa artista americana ha messo in mostra Untitled alla galleria Friedrich Petzel, un’astuta critica ai meccanismi dell’istituzione dell’arte. Si trattava di un video girato l’anno prima, in cui la si vedeva scopare con un collezionista che aveva pagato ben ventimila dollari per essere parte di quest’opera. Lei però è una bellissima donna, mentre io per trovare una persona disposta a fare l’amore con me dovrei vertiginosamente abbassare la base d’asta, e magari uscire dall’istituzione dell’arte per battere direttamente sui cavalcavia fuori Firenze.
Forse potrei prendere spunto dalle mie struggenti delusioni sentimentali e fare come Sophie Calle, che dalla lettera d’addio di un suo amante ha tratto l’opera Take care of yourself (Abbi cura di te), titolo che si rifà proprio all’ultima riga del messaggio con cui veniva scaricata. Calle ha consegnato la lettera a centosette donne perché la leggessero e la interpretassero, con delle performance, a seconda della propria professione. Una psicologa ne ha ricavato un quadro clinico, una disegnatrice l’ha trasformata in un fumetto, una musicista ne ha tratto una composizione, una scrittrice l’ha ribaltata in una storia per bambini, una coreografa ci ha fatto un balletto... E’ stato un progetto molto affascinante con cui Sophie ha rappresentato la Francia alla Biennale di Venezia, ma temo che non sia applicabile alla mia esperienza personale. Le ultime parole con cui di solito gli uomini mi mollano sono molto meno nobili di “Abbi cura di te” e non offrono molti livelli di interpretazione.
Oppure, molto più semplicemente, potrei seguire l’esempio di Christian Boltanski che, davanti alla richiesta di un milionario australiano di comprare le sue ceneri postmortem, ha detto no, ma ha avuto la prontezza di riflessi di rilanciare: ha fatto installare quattro telecamere nel suo atelier, dalle quali si farà riprendere ininterrottamente per otto anni. Scaduto questo periodo, i video saranno pagati a carissimo prezzo e diventeranno di proprietà di David Walsh, il ricchissimo collezionista che ha costruito un museo su uno scoglio dimenticato da dio come la Tasmania, un museo che oggi è un’attrazione mondiale (una Disneyland per adulti, come la definisce lui stesso). Per conservare e proiettare i video di Boltanski, Walsh ha creato un altro museo lì accanto, stavolta scavato nella roccia. Purtroppo anche il business plan di Boltanski non è praticabile per me. Davanti alle telecamere ci vivo già, e quel poco che resta della mia privacy non giustificherebbe l’investimento. Sarebbe sufficiente riempire una chiavetta usb con le foto dei miei contatti Grindr e seppellirla in un vaso di basilico.
Sempre attorno alle ceneri ruota The Proposal di Jill Magid, un’opera concettuale nata dalla necessità di accedere all’archivio privato dell’architetto messicano Luis Barragán, morto nel 1988. Da quando il magnate svizzero dell’arredamento Rolf Fehlbaum lo ha donato a Federica Zanco, la sua futura moglie, al posto di (leggenda vuole) un banale anello di fidanzamento, l’archivio è diventato del tutto inaccessibile. Dopo aver inutilmente tentato per mesi di convincere la signora Fehlbaum a mostrarle l’archivio, Jill è ricorsa a delle misure estreme: ha fatto esumare quel che restava di Barragán e lo ha spedito in Svizzera, unico posto al mondo in cui è possibile trasformare le ceneri dei propri cari in un diamante. La pietra così ottenuta è stata montata su un anello che Magid ha personalmente consegnato a una stupefatta signora Fehlbaum, chiedendole in cambio di restituire l’archivio al Messico. La missione è miseramente fallita, ma in compenso The Proposal ha attirato l’attenzione dei critici di tutto il mondo. La mostra che gli è stata dedicata si apre con un anello senza pietra. Il diamante sarà fornito da Magid: dopo la sua morte, se ne ricaverà uno dalle sue ceneri. Il prezzo dell’opera equivale ai costi della copertura sanitaria a vita per Jill e suo figlio (negli Stati Uniti, se non hai soldi, puoi morire per una pedicure andata storta).
Se penso alla fatica e alle rogne legali cui Magid si è esposta, mi vengono i sudori freddi. E’ proprio necessario ammazzarsi di fatica per ottenere quel che si vuole? Io ne farei volentieri a meno e credo che il fatto di essere italiano dovrebbe esimermi da simili livelli di sbattimento. Sono convinto, infatti, che sia legittimo estendere le mie pretese di dorato fancazzismo all’intera nazione. Per quale motivo un paese come il nostro, che altro non è che un tranquillo protettorato americano, non può vedere soddisfatto ogni suo capriccio? All’estero tutti ci dipingono come i cuccioli dell’Impero: carini, caratteristici, innocui, ma ci guadagniamo abbastanza da questa decennale sottomissione?
Se è vero che siamo l’animaletto domestico degli Usa, che decidono la nostra politica dai tempi del Dopoguerra, perché non goderci i vantaggi di questa situazione? Anche il despota più crudele non sa resistere alle richieste del suo cucciolo preferito. Allora perché non ci rotoliamo ai piedi dei nostri padroni per conquistare la loro attenzione, come farebbe il labrador di Putin? Perché non impariamo come i piccoli Shih Tzu cinesi ad alzarci sulle zampette posteriori quando l’imperatore entra nella sala del trono?
Dobbiamo perfezionare le tecniche del guaire e del fare gli occhi dolci, per commuovere e manipolare i nostri padroni. Solo così potremo smetterla di vivere come lagnosi disperati e diventeremo finalmente dei veri privilegiati, come i corgi di Elisabetta Windsor. Vendersi, ricordiamoci, è una forma d’arte che non va presa alla leggera.
Il Foglio sportivo - in corpore sano