Ho scoperto la doppia morale degli egiziani grazie a un portachiavi con Saddam
Cronache da un weekend in Egitto
Quando, come in questi giorni, l’Italia passa dalla sua perenne fase di transizione a un completo e noiosissimo stallo, è meglio cambiare aria. In casi come questo, basta un giretto all’estero per ricordarti che l’erba del vicino è sempre più verde. Nello specifico, anche la sabbia, come è successo a me in un recente weekend in Egitto.
Ho volato su un aereo che non veniva revisionato da tempo, tant’è che nei braccioli erano ancora installati i posacenere e, dal mio posto sulla corsia d’emergenza, si sentiva un evidente spiffero. Ma questi piccoli inquietanti indizi sono scomparsi sullo sfondo all’arrivo.
Appena atterrato all’aeroporto internazionale del Cairo, sono stato percorso da una piacevolissima sensazione che non provavo da tempo, la stessa gioia dei pensionati che vanno a rifarsi i denti in Croazia: “Finalmente un posto in cui i miei soldi valgono qualcosa!”.
Ho preso una camera in un hotel dall’eleganza fané (un posto che in Italia mi sarebbe costato una bestemmia), ho pranzato in un buon ristorante e ho trascorso la serata in un locale in cui si raduna la versione egiziana dei pariolini. Qui i nuovi ricchi e i figli dei colonnelli ascoltano l’equivalente della musica tanto amata dai loro colleghi romani. Eppure, nonostante l’asticella sia piuttosto bassa, il loro sound è decisamente migliore.
La situazione, invece, è decisamente peggiore sul versante alcolico. A causa della crisi della valuta nazionale, la gente è costretta ad accontentarsi degli alcolici locali, che di solito sono qualcosa di molto simile alla benzina, ma meno nutriente. Trovare qualcosa di meglio è possibile, ma bisogna essere chiari con i baristi e far intendere loro che si è disposti a pagare di più.
Egitto, la festività di Sham el-Nessim nella capitale Il Cairo (foto LaPresse)
La cosa mi ha un po’ distratto dal mio amore per l’Egitto, che però è ritornato d’assalto non appena, chiacchierando col tassista che mi ha riportato in albergo, mi è stato chiarito che qui si può fumare dappertutto.
Si fuma al ristorante, come in qualsiasi altro locale pubblico.
“Ma mi scusi”, ho chiesto rapito al tassista, “si può fumare anche negli ospedali?”. “Of course!”, mi ha risposto lui, quasi insultato da una domanda così ingenua. E per confermare che mi trovavo in Paradiso, mi ha anche offerto una sigaretta Cleopatra. Quando ho cortesemente declinato, si è visibilmente risentito. L’orrida cultura no smoking americana, asfaltatrice di poesia e creatività, non ha ancora raggiunto l’Egitto. E’ una cosa splendida, ma io fumo solo quelle giapponesi al mentolo.
Il giorno dopo, anziché alzarmi con la solita dose di odio verso il mondo, mi sono svegliato con un inspiegabile desiderio di stimoli culturali. E’ bastato passarmi una mano sulla schiena per capire il perché di quell’entusiasmo: il caldo secco del Cairo mi ha fatto passare tutti gli acciacchi. Se non fosse che in estate le temperature sfiorano i 46 gradi, l’Egitto sarebbe un Eden a sole quattro ore di volo da Milano.
Rinfrancato nel corpo e nello spirito, mi sono diretto al Museo egizio, che come tutti sanno è uno dei posti in cui sono conservati alcuni dei manufatti più importanti e iconici del pianeta, a partire dal tesoro di Tutankhamon e dalla sua celebre maschera funeraria. Eppure, nonostante questo, il museo è in pessime condizioni. I reperti sembrano ammucchiati a caso e la polvere regna ovunque. Pochi turisti, i tempi delle code sono finiti con gli anni Ottanta. C’è però una comunità radical chic egiziana che sostiene che lo stato di abbandono in cui versa il museo sia proprio il segreto del suo eterno charme. Al confronto di questi pionieri della sinistra multiculturalista, Gad Lerner sembra Kellyanne Conway.
Di solito i dittatori hanno come primo obiettivo quello di mitizzare il glorioso passato della nazione, ma non mi pare sia il caso di al Sisi che, mentre io ero a spasso per il Cairo, si preparava a vincere con delle percentuali da colpo di stato le elezioni che si erano tenute dal 26 al 28 di marzo.
Al Museo dell’arte islamica di Doha in Qatar, voluto dalla sorella dell’emiro Tamim bin Hamad al Thani, non hanno un centesimo delle meraviglie custodite al Cairo, eppure l’edificio disegnato da I. M. Pei è un tripudio di teche e luci zenitali, il tutto per custodire due cocci e quel che resta di qualche coltellino spuntato. Il museo del Cairo, invece, sembra essere reduce da cinquant’anni di amministrazione Raggi.
Superato lo choc per l’infausta sorte di Tutankhamon, mi sono spostato alla galleria Gypsum, che espone le opere di Mahmoud Khaled. Attraverso la sua ultima mostra personale (“A New Commission for an Old State”), Khaled racconta come il presidente Nasser avesse convertito le ex prigioni del re Farouk I in moderni compound turistici sul Mediterraneo, e abbina le foto di quel che resta di queste strutture ai terribili resoconti delle torture che insanguinarono quei luoghi fino al crollo della monarchia.
A quanto pare, lo stato dell’arte contemporanea in Egitto è molto più confortante di quello italiano, e la conferma mi è arrivata poco dopo, grazie a una visita nella sede provvisoria della Townhouse Gallery, una struttura pubblica, dove ho l’occasione di importunare una giovane artista sulla quale i tedeschi – i più attenti del giro – hanno già puntato gli occhi. Si chiama Malak Yacout e si trovava alla Townhouse con la sua curatrice (guai chiamarla “gallerista”, fa pensare subito ai libri contabili) per fare dei sopralluoghi in vista della sua prossima esibizione che inaugurerà l’apertura della sede permanente della galleria. Con un po’ di insistenza, sono riuscito a farmi mostrare i progetti a cui sta lavorando: blocchi di cemento realizzati traducendo in masse architettoniche alcuni suoni e concetti chiave del Corano.
Inutile dire che l’idea mi ha entusiasmato e ho fatto il possibile per far capire che ero interessato ad acquistare qualcosa, ma in questi casi parlare di soldi è un faux pas rischiosissimo quanto atterrare in deltaplano sul Pentagono. Mi sono limitato a parlare di artisti che ammiro (senza ammettere che possedevo già alcune loro opere, cosa che mi avrebbe fatto passare per un hoarder capitalista). Ho dovuto abbattere mille muri di diffidenza. Fossi stato in una galleria di Londra, mi avrebbero mandato un pdf con il tariffario prima ancora di aprir bocca.
La sera, stanco di cultura, mi sono infilato con un amico in una festa che – a quanto ci avevano promesso – sarebbe stata epocale. Dopo mille giri per recuperare due inviti, ci ritroviamo in un posto sperduto, protetto da un cancello dietro al quale ringhiavano cani rabbiosi. Se fossi davvero il damerino che faccio finta di essere, sarei scappato all’istante. E invece ho superato la torma di cani rognosi e ci siamo ritrovati in due stanzoni male illuminati, con gente riversa sul pavimento e uno che serviva da bere (la solita benzina) seduto su un cesso. La cosa più assurda è che la musica che mandavano in quello squat era trasmessa in diretta streaming in un locale fighetto di Londra: musica dal cuore del disagio egiziano trasmessa in tempo reale a giovani ricchi britannici in cerca di emozioni forti. Una roba di un colonialismo pazzesco.
La serata si è conclusa in un contesto molto più signorile e rilassante: al Cairo Jazz Club, dove ho visto un’esibizione di Islam Chipsy e del dj Sadat, esponente di punta del Mahraganat, la divina musica elettronica popolare egiziana.
Il giorno dopo, fatta una visita d’obbligo alle piramidi, torniamo in albergo per prepararci a partire e mi accorgo di aver perso le chiavi. Nulla di grave, se non fosse che sul mio portachiavi c’è la faccia di Saddam Hussein e di conseguenza mi viene subito il panico da incidente diplomatico. Ma la mia paura si dissolve grazie allo sguardo del concierge che le ritrova e me le porge divertito.
Gli egiziani sono abituati a vivere nell’ombra di una doppia morale. Si ritrovano un dittatore al potere, ma non lo degnano di attenzione e accolgono con un “chi se ne frega” generale la sua ridicola vittoria alle urne. Non è un caso che centinaia di migliaia di egiziani abbiano votato Salah: un calciatore idolatrato in Egitto che non era nemmeno sulla scheda.
Il potere censura l’arte e la musica, ma di solito la polizia avverte locali e gallerie “a rischio” qualche ora prima di fare dei raid fasulli, ma necessari a mantenere le apparenze.
Gli omosessuali non possono radunarsi pubblicamente (quindi io e altri due amici che parliamo di moda saremmo un attacco alla Costituzione), ma le app di incontri come Grindr sono accessibili. Tutta questa doppiezza rende gli egiziani sensibili alle sfumature e, forse proprio per questo, molto più spiritosi.
Tornato a Milano, nel mio mondo in bianco e nero, trovo ad attendermi la pioggia e il freddo. Il mal di schiena si rifà vivo prima ancora di entrare nella Zona a traffico limitato.
Arrivato a casa, trovo mille messaggi arretrati e la lettera di un paio di amici che hanno deciso di sposarsi in Toscana. Fisso la pioggia che disegna sulla finestra un fedele grafico della mia depressione e nella mia mente si forma un solo pensiero: “Meglio solo al Cairo senza mal di schiena e con Grindr operativo, piuttosto che qui a Milano in compagnia di cinquanta finocchi che pianificano un matrimonio nel Chiantishire”.