Contro il moralismo progressista, che finisce sempre per diventare censura
Madre Teresa, Michael Jackson e quelli che rovinano lo show
La bellezza, come il diavolo, si nasconde nei dettagli. Come può quindi una società cresciuta imparando a fare distinzioni nette, tutto bianco o tutto nero, apprezzare un vero artista quando le si para davanti?
Per compensare questa miopia culturale, alcune personalità di spicco del nostro recente passato sono state costrette ad attraversare il XX secolo (e questo scorcio di XXI in cui noi stessi viviamo) sotto mentite spoglie. Anziché presentarsi al pubblico per i grandi artisti che erano, sono stati costretti a mettere in scena un severo dumbing down del loro potenziale, ad abbassare cioè il profilo delle loro performance pur di essere capiti e amati come meritavano.
Prendiamo per esempio una delle più grandi body artist di sempre: Madre Teresa di Calcutta. Quando questa si permise di enunciare senza freni inibitori il manifesto ideologico della sua creazione artistica, il mondo credente si sciolse in lacrime, i laici storsero il naso e gli atei si scandalizzarono.
Cosa disse di così divisivo la santa? Ebbe il coraggio (o l’ingenuità, che poi sono spesso la stessa cosa) di dire quello che pensava davvero: “C’è qualcosa di bello nel vedere i poveri accettare il loro destino… vederli soffrire la passione di Cristo. Penso che il mondo tragga molto giovamento dalla sofferenza della povera gente”. Lei, abituata a passeggiare lungo interminabili camerate di moribondi, con lo stesso ieratico distacco con cui una nobildonna inglese avanza tra siepi di lavanda, aveva capito che assistere alla morte di un povero era come ammirare un quadro: essere testimoni di quel trapasso voleva dire rubare un fotogramma dello spettacolo del divino. Uno spettacolo che, con il suo grande lavoro di organizzatrice, aveva contribuito a mettere in piedi: lo show del dolore.
I poveri, nella sua visione, diventavano estensione del corpo di Cristo e osservare la loro sofferenza era il modo più efficace per rivivere lo scandalo della croce. Mentre migliaia di indiani morivano come mosche, ai suoi occhi il peso dell’eterna condanna che grava sul mondo si faceva per un attimo più leggero: nel preciso istante in cui loro esalavano l’ultimo respiro, il resto del genere umano tirava un sospiro di sollievo.
I credenti non hanno mai interpretato così la sua missione: hanno sempre considerato Madre Teresa una santa curatrice, dimenticando che nei suoi lazzaretti non si guarivano i malati, ma – nella stragrande maggioranza dei casi – li si accompagnava alla morte. Nemmeno i suoi devotissimi fedeli hanno colto il senso più profondo e artisticamente incredibile della sua opera. Si sono limitati a vedere in lei una brava donnina minuta e rugosa, tutta dedita agli altri. Una gira mezzo mondo per raccogliere, catalogare e immergersi nei più travolgenti esempi di disagio umano e i suoi fan, anziché spingere perché le fosse assegnata una cattedra al Sarah Lawrence College (la stessa scuola dove ha studiato – tra gli altri – Yoko Ono), la povera Teresa si è dovuta accontentare di vedere la sua faccia stampata su piatti, magliette e santini.
Qualcuno potrebbe obiettare che le è andata bene, che la sua vita e il suo operato avrebbero meritato un’analisi più spietata. E’ risaputo che, mentre nei suoi lazzaretti non si praticava la terapia del dolore, per far fronte ai suoi malanni la santa era solita volare nelle cliniche californiane per imbottirsi di antidolorifici.
E c’è chi, come Christopher Hitchens, questa analisi spietata l’ha anche fatta, sostenendo che più che curare le malattie e arginare la povertà, Madre Teresa abbia fatto l’esatto opposto: avrebbe glorificato la povertà e visto nella malattia una fonte di salvezza. Non entro nello specifico delle critiche che le sono state mosse sulla gestione economica del suo impero di beneficenza: sono questioni che non mi interessano. Ma al di là di tutte queste critiche legittime, va detto che né i cattolici che l’hanno glorificata né gli atei che l’hanno dipinta come un’aguzzina sono stati in grado di cogliere il vero valore di questa artista inarrivabile, capace di sintetizzare nella sua opera la componente alchemico-organica di Ana Mendieta e lo straniamento estatico delle architetture luminose di James Turrell.
Davanti a personaggi come lei, viene fuori tutta la pochezza di chi, non sapendo osservare, preferisce giudicare. Anziché tentare una lettura shakespeariana della realtà – un’analisi capace di coglierne le mille sfumature – ci si accontenta troppo spesso di interpretare tutto come in una favoletta in cui i buoni e i cattivi vivono in mondi nettamente separati, una storiella in cui alla fine ci verrà servita una morale rassicurante e definitiva.
E invece personaggi come lei costringono noi spettatori a guardare oltre, a superare divergenze storiche come quella tra credenti e atei, tra creduloni e dietrologi. Per esempio, prendiamo Michael Jackson. Anche lui un personaggio di dimensioni planetarie, entrato nell’immaginario comune con un’immagine a metà: da una parte il tenero divo pop eterno bambino, dall’altro il subdolo molestatore pedofilo. Inutile dire che nessuna delle due rappresentazione rende giustizia a quest’uomo venuto dal futuro. Showman, musicista e ballerino di inumano talento, Jackson aveva vissuto tutta la sua vita sotto i riflettori: fin dalla più tenera età, ogni aspetto della sua esistenza era destinato a diventare di dominio pubblico. In poche parole, Jackson è stato tra i primi a vivere nell’era dei social media, trent’anni prima che nascesse il World wide web. Per quanto si sforzasse di vivere da recluso, Jackson era sempre sulla bocca di tutti e ogni sua azione finiva sotto lo scrutinio di una giuria composta dall’intera popolazione del pianeta Terra.
Jackson ha vissuto e incarnato anche il concetto di società post-razziale e post-gender molto prima che qualcuno si azzardasse a teorizzarlo. Lo testimoniano non solo la sua sessualità fumosa e la tanto discussa scelta di schiarire il colore della sua pelle (vista da molti afroamericani come un tradimento delle proprie origini culturali), ma anche il celebre video di Black or White, nel quale grazie al morphing – un effetto speciale per l’epoca stupefacente – il volto di una comparsa si trasformava in quello di uomini e donne di ogni paese. Nel 1991, l’opinione pubblica mondiale interpretò Black or White come un manifesto ecumenico, un vòlemose bene collettivo e transnazionale. Il pezzo ebbe un successo travolgente e il video (grazie alla trovata del morphing) entrò nella storia: peccato che tutto ciò sia avvenuto per le ragioni sbagliate. Se allora avessimo colto il genio avanguardista di Michael Jackson, anziché limitarci a dire: “Ma che cazzo è sta roba?”, oggi vivremmo in un mondo migliore.
Anche nel privato, Jackson era in grado di mescolare le carte. Ipocondriaco e germofobo convinto, famoso per i suoi avvistamenti in sedia a rotella e mascherina, nel segreto della sua casa Jacko era un consumatore di droghe di qualsiasi tipo. Quando, dopo la sua morte, gli agenti hanno perquisito le sue stanze, hanno ritrovato ogni ben di dio. Petidina, eroina, sedativi e siringhe ovunque. Si faceva le pere anche nelle dita e tutti sapevano tutto. Eccetto una cosa. Ravanando in mezzo a tutte le droghe, infatti, gli agenti hanno scoperto un segreto, una cosa di cui lui si vergognava profondamente. Se ne vergognava così tanto che, mentre le tracce di tutti i suoi stravizi erano state lasciate in bella vista, questa era stata nascosta con molta attenzione, sepolta in un cassetto: si trattava di due pacchetti di sigarette.
Lui, idolo del pop più sorridente e positivo che si possa immaginare, consumava dieci volte più eroina di tutti gli eroi maledetti del Rock ‘n’ Roll, ma si vergognava di essere un fumatore. Come si possono cogliere queste sfumature di grandezza se si guarda al mondo con gli occhi di un moralista?
Il moralismo, sia da destra sia da sinistra, si evolve sempre in censura. E’ dagli ambienti progressisti, infatti, che sono arrivati negli anni attacchi a registi come David Cronenberg, Ken Russell e Paul Verhoeven. Ed è sempre da gruppi di benintenzionati censori progressisti che, a metà degli anni Ottanta, arrivò la proposta di monitorare i testi delle canzoni pop. A creare il Parents Music Resource Center, il comitato a cui si deve l’introduzione dell’adesivo “Parental Advisory” sulle copertine dei dischi, non fu una mormona di Salt Lake City, ma la moglie di Al Gore.
Il moralismo non è solo un freno evolutivo che rimanda il futuro, ma non ci permette di vivere bene nemmeno il nostro presente, perché offusca la nostra possibilità di capire l’arte, di cogliere il valore e il senso della rappresentazione in cui siamo immersi. Anche quando al centro di quella rappresentazione ci sono degli assi come Madre Teresa o Michael Jackson.
Molta gente si è convinta che puntare il dito e trinciare giudizi categorici su qualsiasi cosa si posi il proprio sguardo sia quasi una forma di eroismo civile. Per me non è affatto così. Io sono consapevole di trovarmi all’interno di una grande rappresentazione e se qualcuno vicino a me comincia a fare il censore io non lo considero un eroe, ma solo uno stronzo che urla dal pubblico rovinando lo spettacolo a tutti.