Ci innamoriamo della politica solo quando parla alla nostra pancia
Populismi globali: dal grilloleghismo alla furia antiraniana di Trump
La più grande responsabilità dei movimenti populisti che stanno attraversando l’occidente è la radicalizzazione di chi avrebbe davvero poco di cui lamentarsi. Lo vediamo ogni giorno, soprattutto in Italia, quando politici di destra (di tutti i movimenti e partiti di destra) ingolfano i social di messaggi allarmistici e del tutto fuorvianti al solo scopo di far leva sulle frustrazioni di quella vasta parte di popolazione che – senza apparente motivo – è convinta di meritarsi molto più di quello che ha.
Non sono certo delle cime né tantomeno dei luminari, ma in compenso sono tanti, tantissimi. Per capire di quanta gente stiamo parlando, basta sommare le percentuali di Lega e M5s. In questo caso, per quanto mi riguarda, il dato elettorale vale più di un censimento.
Ma chi sono queste persone? Uomini e donne molto confusi, facili da sedurre perché si sentono così tagliati fuori da tutto da essere pronti ad accettare le avances più grossolane dai seduttori più scadenti. Non è un caso che i politici capaci di attirare i voti di questa gente hanno mediamente lo stesso charme di un istruttore di aquagym per la terza età, uno che conquista le vecchie facendo l’elicottero con l’uccello a ritmo di Despacito.
Queste persone sentono di aver ricevuto meno di quanto spettasse loro di diritto. Sentono di aver perso il controllo del proprio territorio, come dei vecchi cani ormai troppo stanchi per alzare la zampa e pisciare sui muri. Per questa gente, gli stranieri sono degli ignoranti, dei perdigiorno, dei poco di buono. Dei fannulloni dotati, a quanto si dice, di poteri magici, visto che – nonostante non abbiano voglia di far nulla – sono incredibilmente in grado di rubarci il lavoro, versare i contributi e pagare una parte delle nostre pensioni. Una parte che, anno dopo anno, cresce.
I politici che sanno intercettare questa voglia di banalità parlano di invasione, di rischio terroristico, di massacro delle identità nazionali… e in nome di queste stronzate senza alcun fondamento raccolgono consensi, consensi che si trasformano in potere, e potere che si traduce in ruoli istituzionali: ruoli che – grazie a questo circolo vizioso – legittimano le stronzate che hanno detto al solo scopo di farsi eleggere.
La cosa peggiore, però, è avere un quadro molto chiaro di tutto ciò e non poter denunciare apertamente la cosa. Gli stessi tizi che raccattano consensi sputando offese razziste, infatti, sono i primi a piagnucolare e a pretendere rispetto ogni volta che qualcuno si azzarda a chiamarli col loro nome: razzisti. La sinistra americana, per esempio, ha creato una situazione paradossale in cui siamo impossibilitati dal descrivere Ivanka Trump senza essere accusati di misoginia, antisemitismo e slut-shaming.
Ma perché si è arrivati a questa situazione? E’ presto detto: ci innamoriamo della politica solo quando parla alla nostra pancia, quando liquida problemi complessi a suon di slogan sempliciotti e quando sostituisce ogni riflessione con un campionario standard di emozioni forti. Eppure, da decenni a questa parte, abbiamo visto quanto poco siano stati in grado di fare i grandi leader emozionali che hanno guidato l’occidente, fossero essi di destra o di sinistra.
Prendiamo invece l’esempio di un politico che parla solo alla testa degli elettori. E che, proprio per questa ragione, è abituato a perdere: l’americano John Kerry. Laureato a Yale, veterano pluridecorato e senatore democratico di lungo corso, Kerry è principalmente ricordato per aver sposato (in seconde nozze) la ricchissima vedova Heinz – la regina del ketchup – e per aver perso le elezioni presidenziali del 2004 contro George W. Bush.
In tempi più recenti, invece, il suo nome era balzato agli onori della cronaca per aver giocato un ruolo cruciale – in veste di segretario di stato dell’Amministrazione Obama – nell’accordo siglato nel 2015 a Vienna, un patto volto a limitare drasticamente le applicazioni militari del nucleare in Iran, in cambio della sospensione di brutali sanzioni economiche che per anni avevano messo in ginocchio Teheran.
Kerry la guerra l’ha vista di persona. Ha combattuto per quasi tre anni in Vietnam, guadagnandosi un bel po’ di medaglie tra cui dei Purple Heart (tre: uno per ogni ferita subita in combattimento). E’ comprensibile, quindi, che non abbia tutta questa fretta di assistere a un conflitto atomico su scala mondiale. Lo stesso si può dire del suo omologo iraniano, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, che con Kerry ha sottoscritto l’accordo.
Zarif è un uomo colto, laureato negli Stati Uniti, dove ha vissuto a lungo insieme a sua moglie e dove sono nati i suoi due figli. E’ un esperto di diritto e relazioni internazionali e parla perfettamente l’inglese.
E non è un caso che questo accordo, salutato universalmente come un passo avanti verso l’equilibrio mondiale, sia messo al rischio dai capricci di Donald Trump, che non ha mai nascosto il suo disprezzo per l’operato di Kerry, al punto da dichiararsi pronto a rimangiarsi il patto, cosa che ha messo in allerta i leader di mezzo mondo, incluso il nostro Gentiloni.
Il distacco intellettuale tra Zarif e Trump è abissale, pertanto non c’è da stupirsi se il bovino biondo sta utilizzando lo spauracchio dell’atomica iraniana per riguadagnare il consenso della sua base. In questo, più che a Zarif, Trump somiglia a Mahmoud Ahmadinejad: un presidente corrotto, incapace di diplomazia, passato alla storia per le sue affermazioni razziste. L’unica cosa su cui i due sono in netta in contrapposizione è il loro rapporto con i soldi: mentre Trump è un bancarottaro che si finge ricchissimo, Ahmadinejad ha sempre messo sotto i riflettori la sua vita apparentemente monastica, mentre di nascosto faceva affari miliardari approfittando della sua posizione. Ma in un certo senso, anche questa differenza li rende uguali: se c’è questa sfumatura a dividerli, è solo perché si stanno rivolgendo a due pubblici diversi. Mentre gli americani adorano l’ostentazione, in media gli iraniani se ne vergognano un po’.
L’Iran, che con Ahmadinejad ha bevuto l’amaro calice del populismo, oggi non ha più tempo per le sue stronzate. Oggi, da un punto di vista politico, l’ex presidente è un paria, tenuto a distanza non solo dall’elettorato (che invece adora il tocco internazionale di Zarif, il cui indice di gradimento è in costante crescita), ma anche dall’ayatollah Khamenei, che nel 2017 gli ha addirittura ordinato di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali “per il bene del paese”. Le sue posizioni populiste e ultrareazionarie, però, gli hanno garantito un posto da opinionista televisivo. La sua presenza, infatti, garantisce grandi ascolti, perché con le sue sparate non fa altro che rinfocolare gli odi e le fobie della gente più povera e meno scolarizzata: gli Usa e Israele.
Per fortuna, al momento, le cazzate di Ahmadinejad non hanno alcuna presa sulla stragrande maggioranza dell’elettorato. Speriamo che gli inserzionisti pubblicitari iraniani e i capricci nucleari di Trump non lo facciano risorgere.