In questo mondo spaventoso c'è anche chi è capace di rivalutare l'expertise
Storia di Mark Eitzel. Piccoli accenni di rivoluzione, dalla musica all'arte
In troppe attività, ormai, si assiste impotenti alla morte dell’expertise, un fenomeno preoccupante, ben rappresentato dalla celebre vignetta del New Yorker in cui un uomo a bordo di un volo di linea arringa i suoi compagni di viaggio al grido di: “Questi piloti presuntuosi non hanno più alcun contatto con i normali passeggeri come noi. Chi pensa che l’aereo dovrei guidarlo io?”.
Eppure, in qualche settore, la professionalità sta tornando di moda. Peccato che, al momento, questa piccola rivoluzione non abbia ancora toccato campi determinanti per il vivere civile come la politica o la pasticceria, due arti ormai avvelenate dalla fuffosa logica dell’apparenza e delle gare di popolarità. Questi sparuti, ma incoraggianti, segnali di speranza arrivano soprattutto dalla moda (come abbiamo visto nella scorsa rubrica), dalla musica e dall’arte d’avanguardia. In musica, infatti, si sta riscoprendo il cantautorato suonato come si deve, dal classico Neil Young al più giovane Damien Jurado, ma anche personaggi complessi ed eclettici come il quasi sessantenne Mark Eitzel che, in quasi quarant’anni di carriera, ha spaziato dal punk al jazz, dall’elettronica sperimentale alle colonne sonore (tra cui spicca quella del documentario dedicato all’imperatore degli hairstylist, Vidal Sassoon).
Figlio di militari e omosessuale dichiarato, è cresciuto in giro per il mondo, al seguito della famiglia, dalla California al Giappone, da Taiwan al Regno Unito, per poi ristabilirsi nel ’79 negli Stati Uniti. Eitzel si è sempre cimentato con stili diversi, sfornando dischi apparentemente inconciliabili, ma tutti di altissimo livello. La costante, a prescindere dal genere che sceglie di affrontare, è quella di tirare dritto per la sua strada, ignorando le influenze kitsch che – in particolare nell’era post-internet – dominano la scena rock e fregandosene dei favori del pubblico.
In poche parole, Eitzel è un Mario Monti della musica. Lascia ben sperare anche il recupero di Victor Burgin e di tutta la corrente concettuale inglese degli anni Settanta. La fusione tra scrittura e fotografia (e, più in generale, tra parola e immagine) operata da questi artisti prendeva la lezione surrealista di Andrè Breton e Francis Picabia e le riflessioni sociologiche di Michel Foucault e Roland Barthes per proiettarle nel terzo millennio, anticipando di qualche decennio il sogno di una comunità sovranazionale e multimediale. Un sogno che, purtroppo, è degenerato nell’incubo reazionario e allarmista dei social.
A questo proposito, un altro sintomo della rinascita dell’expertise arriva dall’artista americano Trevor Paglen che, dopo un esordio all’insegna di un giornalismo d’inchiesta un po’ sensazionalista e facilone (le sue prime opere, sull’onda dell’inasprimento della sorveglianza post 9/11, erano ancora in odore di Michael Moore), ha incredibilmente raffinato la sua tecnica e ora conduce delle ricerche sull’anonimato online (Autonomycube, 2014, un Wi-fi spot che permette di collegarsi a una rete che consente un livello inaudito di privacy), la geografia delle zone a rischio (Trinity cube, 2015, un assemblaggio di detriti provenienti dalle aree più radioattive del pianeta) e sulla cartografia del controllo (Deep Web Dive, 2016, riprese subacquee di cavi internet controllati dall’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti). Chissà quando questa promettente spinta evolutiva che viene dalle frange più illuminate dell’arte e della musica contagerà anche lo spaventoso scenario della politica internazionale. Attendiamo fiduciosi.