L'oriente ci sta cambiando i connotati
Bleflaroplastiche. La Corea del sud e il vizietto (cheap) del bisturi
La vita è sempre una questione di priorità. Le proposte, gli impegni e le possibilità non hanno mai la buona creanza di presentarsi una per volta, ma preferiscono travolgerti come un’orda di malati di shopping aizzata dai saldi di fine stagione. Anche io, per esempio, mi trovo quotidianamente a dover rinunciare (o anche solo a rimandare all’infinito) un sacco di piccole e grandi cose, soprattutto quando la mia agenda comincia a riempirsi a dismisura, costringendomi a cancellare intere pagine di appuntamenti, fino a trasformarle in un’opera di Emilio Isgrò. L’artista definiva le sue cancellature una “forma di distruzione creativa”. Nel mio caso, si tratta più che altro di istinto di sopravvivenza.
Qualche giorno fa, per dirne una, mi sono ritrovato con tre impegni concentrati in una finestra temporale di circa tre ore, tre impegni in tre luoghi molto distanti tra loro. In poche parole, tre impegni che richiedevano come prerequisito fondamentale non tanto la fretta, quanto il dono dell’ubiquità.
Nell’ordine, avrei dovuto:
– registrare un voice over per la prossima puntata di Pechino Express;
– fare una seduta di laser per cancellare una cicatrice;
– passare dall’analista.
Inutile dire che la registrazione per Pechino Express non era rimandabile (la mia etica professionale è talmente ferrea da essere una fonte di imbarazzo tra le mie – sempre più rare – frequentazioni nobili): restava quindi da scegliere tra il laser e la seduta di psicanalisi. Preferivo passare quarantacinque minuti sdraiato su un lettino a farmi bruschettare la pelle da un miliardo di microbruciature o trascorrere un’oretta in poltrona a lamentarmi di questo e di quello per sentirmi rispondere che il segreto della felicità è aprirsi agli altri e imparare a esprimere i propri sentimenti?
Entrambe le alternative sembravano poco allettanti, una Sophie’s choice davanti alla quale la risposta più saggia sarebbe stata – semplicemente – fingersi malati. Ma poiché sono un adulto responsabile, mi sono guardato dentro e mi sono chiesto: “Cosa ti serve di più? Star bene con gli altri ed essere un membro positivo e propositivo della tua cerchia affettiva o cancellare le tracce di un piccolo intervento chirurgico? Psicologia o dermatologia?”. Come in una piccola epifania, la risposta mi si è presentata in un attimo: “Ma si fotta l’analista”. Quella cicatrice doveva sparire.
So che molti di voi giudicheranno male questa mia scelta e che la considereranno l’ennesima dimostrazione della mia sfacciata superficialità, ma credo sia arrivato – soprattutto in questo paese – il momento di piantarla di guardare alla chirurgia estetica come a un vezzo da riccastri annoiati o, peggio ancora, come il sintomo di una personalità debole, ossessionata dall’approvazione degli altri.
Innanzitutto, la chirurgia plastica non ha i costi da capogiro a cui ci siamo abituati crescendo. Il listino prezzi degli anni Ottanta è stato profondamente rivisto, anche perché la richiesta è aumentata e le tecnologie sono diventate mille volte più affidabili. Inoltre, ci sono paesi specializzati in determinati tipi di intervento che per questo motivo sono diventati poli d’attrattiva internazionale, capaci di intercettare e calamitare i flussi estetico-migratori delle ricchissime donne russe, pioniere dell’estetica che girano il mondo alla ricerca del naso perfetto e dello zigomo cesellato. Negli ultimi anni, la meta prediletta di queste signore danarose è diventata la Corea del sud, la nazione con il maggior numero di chirurghi plastici (ben 2.330, afferma Al Jazeera, basandosi su un rilevamento del 2016) e di interventi estetici pro capite. In particolare, a Seoul e dintorni si praticano una marea di blefaroplastiche (spesso abbinate all’ampliamento dell’occhio, ottenuto incidendo gli angoli delle palpebre) e riduzioni della mandibola (cui spesso segue un intervento di accentuazione del mento). Gli interventi alla mandibola sono così frequenti che alcune cliniche hanno deciso di esporre nelle loro lobby, impilate in delle torri di plexiglass, migliaia di schegge ossee asportate ai loro pazienti. Uno stunt pubblicitario, certo, ma anche un ottimo esempio di arte involontaria, talmente potente da spazzare via metà della produzione di Damien Hirst.
Qualcuno potrebbe obiettare che dietro questi interventi agli occhi e alla mandibola si nasconda un insopprimibile desiderio di occidentalizzazione, una forma di colonialismo estetico che i coreani avrebbero interiorizzato fino a sposarlo in pieno. Ma il numero di interventi è talmente alto che, a mio parere, più che a una forma di subalternità diffusa, stiamo assistendo a una rivoluzione somatica che non ha tempo di rispettare i limiti della genetica: i coreani stanno imponendo un nuovo modello estetico nel quale i tratti che noi (da bravi colonialisti) etichettiamo come “occidentalizzati” sono in realtà più vicini all’immaginario manga che non alle fisionomie hollywoodiane. A dirla tutta, siamo noi occidentali che – col passare del tempo – stiamo interiorizzando la nuova estetica asiatica: dal cinema d’animazione giapponese alla musica K-pop, le nazioni dell’oriente ci stanno riscrivendo i connotati, sia culturalmente sia fisicamente.
Insomma, la Corea del sud si sta rifacendo la faccia non per assomigliare a noi gaijin, ma per averne una tutta sua, replicabile solo a colpi di bisturi.
L’evoluzione può attendere. I coreani no.