L'homo italicus si crede eterno, per questo ha abbandonato la scienza
Tutti contro la Tav e ogni opera che potrebbe cambiarci la vita
A diciassette chilometri da Abu Dhabi sorge una città a emissioni zero, alimentata da pannelli fotovoltaici e pale eoliche, un centro in cui le strade sono rinfrescate da una rilettura moderna delle torri del vento, strutture che risalgono all’antica Persia e che da secoli fungono da sistemi di climatizzazione nei luoghi più torridi del mondo.
Si chiama Masdar City (“Città sorgente”) ed è il primo esempio di città completamente fondata su un sistema misto di energie rinnovabili. Qui le auto non hanno tubi di scappamento e non hanno bisogno di guidatore: sono dei piccoli van automatizzati, con rotte preimpostate che permettono agli abitanti di raggiungere ogni angolo di Masdar e le più vicine vie di collegamento al resto del mondo (stazioni, porti e aeroporti).
Masdar non è uno dei tanti deliri cementizi che abbondano negli Emirati. Non è una follia pacchiana come le World Island, l’arcipelago artificiale che – visto dall’alto – ricalca il planisfero terrestre, ma una cittadella ideale voluta dal governo centrale, disegnata da uno studio architettonico inglese e abitata prevalentemente da enti internazionali che si occupano di energie rinnovabili.
Riusciremo mai qui da noi, in Italia, magari in uno dei tantissimi borghi ormai completamente disabitati dell’entroterra, a realizzare qualcosa di simile?
La vedo dura, quindi proviamo ad abbassare le aspettative: riusciremo mai, in una città come Roma, a costruire dei grattacieli di monolocali e piccoli appartamenti iperaccessoriati come quelli che spuntano come funghi in Asia (l’Aestiq di Bangkok, per citarne uno)? Non si tratta di soluzioni abitative permanenti vere e proprie, ma di punti d’appoggio per chi viaggia per lavoro, molto più comodi e (alla lunga) economici rispetto ai soliti hotel.
Personalmente, ne dubito: in Italia non riusciremo mai a costruire con la fiera sfacciataggine che troviamo negli Emirati o in molte altre zone dell’Asia. E la cosa più insopportabile è che – almeno in questo caso – non si può dare la colpa ai politici, perché è proprio l’elettorato a dimostrarsi sempre ottusamente compatto ogni volta che si osa proporre una grande opera: mentre in Cina sommergono interi villaggi per poter creare il bacino di una centrale idroelettrica che da sola soddisfa il due per cento del fabbisogno energetico di quasi un miliardo e mezzo di persone, i veneziani continuano a camminare su delle passerelle ogni volta che c’è l’acqua alta, perché il Mose e le altre opere a lui collegate – di questo passo – non si faranno mai.
In Italia l’avversione nei confronti degli interventi sul territorio è assolutamente bipartisan: dal tree hugger di sinistra al fascista coccola-ruderi, tutto l’arco costituzionale è sempre compatto contro il cemento e le nuove vie di trasporto. Ma quali sono le ragioni di questa ottusità? Perché vogliono convincerci che il paesaggio italiano deve restare perfettamente immacolato come la beata vergine Maria? Ci sono davvero delle ragioni ambientaliste dietro queste posizioni così conservatrici?
A mio parere, no. Le motivazioni di questo morboso attaccamento all’immutabilità hanno delle radici eminentemente filosofico-religiose, radici che sono state ben spiegate (e rappresentate) dal pensiero di un filosofo italiano, Emanuele Severino. Nel corso della sua lunga carriera, Severino è spesso tornato su un punto nodale della sua ricerca: la filosofia collassa e si rifugia nella scienza perché l’uomo guarda erroneamente all’essere come realtà finita e, anziché considerarlo eterno, vede in ogni suo superficiale mutamento il primo passo verso la fine di tutto e, di conseguenza, verso la propria morte.
L’equazione cambiamento=morte è una fobia tutta italiana. In realtà laiche come il Regno Unito, il pensiero filosofico è stato filtrato da pensatori analitici come Bertrand Russell, che hanno permesso alla filosofia di virare verso la scienza senza troppi traumi. Una virata che – secondo Severino – è stata fatale per la filosofia, perché ha riunito sotto un unico cappello quello che il pensiero post parmenideo aveva diviso in due discipline distinte: da una parte c’è chi si trastulla col fenomenico (i tecnici), dall’altra chi si occupa dell’essere eterno (i filosofi). In poche parole, dice Severino, ricucire la netta separazione tra tecnica e filosofia è un’operazione che glorifica la tecnica e danneggia irreparabilmente la filosofia.
Questa visione delle cose, però, non tiene conto che in gran parte del pensiero occidentale l’essere ha perso il suo connotato di eternità, quindi la paura della morte è diventata una conditio sine qua non per il fiorire del pensiero tecnico e scientifico: se ci ricordiamo che anche noi, come gli yogurt, abbiamo una data di scadenza, questa consapevolezza ci spingerà a ingegnarci e a fare il possibile perché quel giorno arrivi il più tardi possibile; se invece ci convinciamo che esiste un’eternità cui la scienza secolare è subalterna (quasi un capriccio dell’essere umano), continuerà a esserci sfiducia nei confronti del progresso e del cambiamento.
Questa diffidenza verso il pensiero scientifico è una specificità del pensiero italiano, sostiene Severino, dovuta in gran parte al fatto che la nostra classe dirigente (come, del resto, gran parte dell’opinione pubblica) si è formata contemporaneamente all’ombra del Vaticano e del più grande Partito comunista dell’occidente.
Siamo il paese in cui i torinesi sono costretti a scendere in piazza per chiedere di portare a termine i lavori della Tav, la nazione in cui un gruppetto di sette donne orgogliosamente borghesi si sono viste obbligate a riscoprirsi pasionarie e a mettere in piedi una manifestazione che ha portato quasi quarantamila persone in piazza Castello, il tutto senza uno scontro né uno slogan sopra le righe né una bandiera con simboli discutibili.
Siamo arrivati al punto in cui in questo paese l’unica opposizione credibile non passa più per le classi disagiate, che hanno interamente delegato il loro sdegno a movimenti populisti e drammaticamente reazionari, ma per le mani di sette signore che avrebbero ben altro da fare: Simonetta Carbone (pubbliche relazioni), Roberta Castellina (architetto), Donatella Cinzano (copywriter), Roberta Dri (art director), Patrizia Ghiazza (head hunter), Giovanna Giordano (informatica) e Adele Olivero (avvocato).
Ho adorato in particolare Patrizia Ghiazza che, quando la divina Lilli Gruber le ha chiesto se lei e le sue sei compagne avevano in programma altre manifestazioni, ha risposto – senza nascondere un filo di preoccupazione – che sperava proprio di no, visto che ha già un lavoro molto impegnativo. E’ sempre una bella notizia quando sotto i riflettori ci finiscono persone che non desiderano altro che tornare in penombra per poter rimettersi a lavorare in pace.
Ma temo che la signora Ghiazza e le sue sei colleghe dovranno rispolverare molto presto megafoni e striscioni, perché il cammino della Tav è disseminato di ostacoli. Quel treno ad alta velocità è ancora considerato da troppe persone un simbolo di prevaricazione nei confronti della sacra immutabilità della natura, dell’immobilismo zen della nostra povera nazione. E, del resto, in tutta onestà, devo ammettere che anche dentro di me si annida una piccola vocina ambientalista e pre-scientifica. A consolarmi, c’è la consapevolezza che ci sarà sempre un dettaglio a distinguermi nettamente da un primitivista No Tav. Se è vero che né io né lui siamo degli scienziati del Mit, è anche vero che per me, a differenza del No Tav, lo scienziato del Mit non è il diavolo.