Una via per Craxi
Contro la dittatura populista di questi giorni, contro tutte le monetine, mi appello a Beppe Sala
Già in altre occasioni, sempre su queste pagine, ho scritto della mia profonda stima per Beppe Sala, uno che non è semplicemente il sindaco di Milano, ma un sindaco a misura di Milano: perché sa che non siamo un punto fuori dal mondo ma una realtà economica globale, perché protegge le differenze anziché farle sentire isolate, perché valorizza la tradizione culturale di questa città anziché metterla all’indice. Per questo chiedo a Beppe Sala di fare un gesto dimostrativo di prima importanza, un’operazione simbolica di rilevanza storica per premiare lo spirito innovativo e riformista di Milano, al di là del serafico cerchiobottismo che contraddistingue tutti gli amministratori locali del nostro paese: dedicare una via a Bettino Craxi.
L’idea non è nuova, visto che ci hanno già pensato una decina di piccoli comuni italiani, ma stavolta il nome di Craxi meriterebbe di campeggiare su una strada importante nella città che lo ha visto nascere e crescere politicamente. Badate: non basta un qualsiasi nastro d’asfalto che si srotola tra i capannoni di una zona industriale, per uno statista del calibro di Bettino serve una via nel pieno dell’Area C, qualcosa al livello di via Torino.
Non sono il primo a far presente questa grave mancanza: la vicenda politica e personale di Craxi è una pagina di storia repubblicana che pochi vogliono affrontare. Ma forse le cose stanno cominciando, seppur molto lentamente, a cambiare. Da mesi si parla di un film in lavorazione, Hammamet, con Gianni Amelio alla regia e Pierfrancesco Favino nei panni di Bettino, ma non so quanto quest’opera riuscirà a chiudere i conti col passato. Negli anni scorsi in tanti hanno pronunciato dei sentiti mea culpa, da Staino a Rondolino, ammettendo di non aver avuto la lungimiranza necessaria a capire che quel giorno, davanti all’Hotel Raphael, con quello squallido lancio di monetine si stava scrivendo l’inizio della fine. Quel 30 aprile del 1993, mentre giornalisti, attivisti politici (di destra e di sinistra) e semplici curiosi si accalcavano a largo Febo, a due passi da piazza Navona, Craxi usciva dall’albergo, senza sapere che in realtà stava per uscire di scena, definitivamente e incresciosamente, sotto un’infame pioggia di insulti e oggetti di vario tipo.
In una recente intervista, illuminante e ironicamente amara, Stefania Craxi ha ricostruito l’eredità politica di suo padre, ricordando alcune delle sue “eresie” più dirompenti: “Quando ha osato sfidare la cultura comunista e i suoi tabù. Quando ha spiegato che leninismo e libertà non erano compatibili. Quando ha affermato che la ricchezza va prodotta, prima di essere distribuita. Quando ha affermato di avere a cuore, più che la massa, l’individuo, da premiare nei suoi talenti e nei suoi meriti, e da soccorrere nei suoi bisogni”. Di queste “eresie” sentiamo drammaticamente la mancanza, visto che viviamo in un paese in cui le stesse frange conservatrici della sinistra che per anni si sono battute contro le autostrade e la tv a colori, oggi esprimono solidarietà ai gilet gialli o a un patetico dittatore come Maduro. Dopo la caduta del muro, come dice giustamente Stefania Craxi, questa vecchia sinistra “ha fatto finta che una certa storia italiana non sia mai accaduta. E ora quella cultura moralista, giustizialista, è stata ereditata anche dal grillismo”. Non è un caso se si sentano ancora in giro delle voci pronte a sostenere qualsiasi dittatorino purché abbia una falce e martello cucita da qualche parte, poco importa se poi lo stesso dittatorino mette in atto politiche che al confronto Duterte è un moderato.
La sinistra italiana – e quella milanese in particolare – dovrebbe dichiarare a gran voce il suo desiderio di una via Bettino Craxi. Anche perché ormai, più che un desiderio, è un disperato bisogno. Milano ha il dovere, come città e realtà economica e politica, di dichiarare la sua totale e irriducibile estraneità al dibattito nazionale contemporaneo, all’agenda giornalistica delle stronzate che ci vengono propinate come rilevanti: l’Italia non sta annegando nella recessione per colpa dei migranti o perché Sanremo non tiene conto del voto popolare, ma perché non siamo in grado di guardare al futuro. E, come se non bastasse, non siamo nemmeno capaci di trarre qualcosa di buono dal nostro soffocante culto del passato. Se proprio dobbiamo guardarci indietro per trovare esempi e modelli da celebrare, sgomberiamo il campo dall’agiografia giustizialista di Mani Pulite, recuperiamo lo spessore della figura di Craxi e ammettiamo una volta per tutte che il 30 aprile 1993 abbiamo fatto una cazzata immane. Una cazzata di cui, ancora oggi, stiamo pagando le conseguenze.