Bolla esistenziale
L’illusione che un viaggio in India ci possa fare uscire dal meccanismo autoreferenziale in cui tutti finiamo
Le informazioni girano. Male, ma girano. E per quanto tu voglia sottrarti a questo discutibile flusso di notizie, prima o poi arriva anche alle tue orecchie. Leggi un articolo che parla delle sue quotatissime gallerie d’arte, ti giunge qualche voce sulla sua incredibile rinascita cosmopolita e allora ti dici: “Tutti parlano di Calcutta”. Uno come me, che dell’India conserva ricordi materni Sixties (cioè di quando era un lazzaretto a cielo aperto) e personali targati anni Novanta (quando non era poi tanto meglio), sulle prime non si fa prendere dall’hype, ma quanto si può resistere?
Come la vecchia moglie annoiata di un architetto londinese che si lascia infoiare dall’ultimo trend dei giovani su Twitter, anche io non posso resistere ai continui assalti del mondo che mi circonda. E se intorno a me si continua a vociferare che Calcutta è diventata una meta obbligata per chiunque ne capisca qualcosa di arte, io mi sento costretto ad andarci.
Prima di partire mi confortava il fatto che, arrivato lì, mi sarei sentito istantaneamente un po’ meglio. Il confronto con l’India avrebbe permesso all’Italia di guadagnare punti e di colpo la mia depressione si sarebbe fatta più lieve. Un boost all’autostima serve, soprattutto se, come me, prima di arrivare a Calcutta hai fatto scalo in una Dubai tappezzata di pubblicità per l’Expo 2020. C’erano proiezioni di palme e padiglioni computerizzati ovunque e, davanti a quell’estasiante trionfo di cieco entusiasmo capitalista, sono stato assalito dalla stessa sensazione di quando, qualche mese prima, sollevandomi in volo da Hong Kong, avevo visto il titanico ponte che la collega a Macao: una profonda angoscia, un senso di inferiorità che mi taglia le gambe ogni volta che mi ritrovo in paesi infinitamente più avanzati del mio.
Calcutta non è poi così male
Arrivato a Calcutta, quella condizione di inadeguatezza si scioglie. È vero, l’India ha fatto dei grandi passi avanti. Non quanto Indonesia, Malesia e Thailandia, ma oggi l’India è una nazione più ricca, più moderna, più internazionale. A Calcutta i cattivi odori sono diminuiti (grazie a una campagna di sensibilizzazione delle Nazioni Unite che ha invitato la gente a non defecare per strada), ma in confronto a Dubai qui mi sento Linda Evangelista.
Allora mi butto tra la gente, per le strade, con i loro ritmi e le loro abitudini. Ho resistito due giorni. Al terzo, per il prezzo di un panino con la mortadella, mi sono preso un’auto blu con autista in guanti bianchi.
Al netto della ressa costante, le persone qui a Calcutta mi piacciono: non sono concentrate sul passato, non covano troppi rancori per gli inglesi (o almeno non lo danno a vedere) e hanno un buon rapporto con i simboli monumentali che l’impero britannico si è lasciato alle spalle. Sarà che a Calcutta sanno custodire con cura quello che la storia ha dimenticato, come dimostra una curiosità piccola quanto rivelatrice. Nel 1947 l’India diventa indipendente e nel 1948 nasce lo stato di Israele: due eventi che spinsero all’esodo la consistente comunità ebraica di Calcutta. Oggi, infatti, su cinque milioni di abitanti appena una ventina sono ebrei. Lasciata la città, le tre sinagoghe rimasero abbandonate. Sulle prime avrebbero dovuto essere convertite in luoghi di culto per gli induisti, ma gli induisti le lasciarono a dei musulmani che tuttora le custodiscono senza averle snaturate, tenendole integre come capsule del tempo.
Calcutta, le celebrazioni in onore di Shiva per il nuovo anno bengalese
Faccio un giro dei musei, ma si rivela piuttosto monotono. Comincio a sospettare che tutta questa attenzione sull’arte a Calcutta in realtà sia l’invenzione di qualche giornalista del Guardian roso da un senso di colpa postcolonialista. La stampa britannica sta facendo di tutto per rivalutare Calcutta e renderla chic, ma la realtà è ben diversa.
La scena artistica è una specie di bolla speculativa fondata su uno spin percettivo di estrema eleganza: alcuni degli artisti più quotati al mondo scelgono di farsi rappresentare da gallerie indiane perché fa più chic. Come Naeem Mohaiemen, artista residente a New York ma cresciuto in Bangladesh, che per radicalness ha preferito farsi rappresentare dall’unica eccellente galleria di Calcutta, Experimenter. Naeem tratta principalmente il tema di utopie comuniste fallite, schiacciate dall’Imperialismo o per altri motivi, che siano i golpe nel suo Bangladesh, l’Armata Rossa giapponese o il Cile di Allende.
Devo ammetterlo, in città la cultura si sente eccome. Se entri nelle sale da tè, ti accorgi che sono piene di gente che fa adda, chiacchiericcio intellettuale su un libro o un film o chissà che altro. Non sembrano preoccupati, sentono di star bene e di potersi dedicare ad attività del tutto velleitarie. Poi, a un tratto, ti giri attorno e ti rendi conto che sono quasi un miliardo e mezzo di persone, quasi quindici milioni solo qui a Calcutta e nella sua area metropolitana. Qualsiasi cosa succeda qui può contare su una cassa di risonanza capace di renderla rilevante. Può essere anche una piccola cineteca di 60 metri quadri che proietta pellicole su tematiche transgender: con numeri simili, il ciclo delle informazioni può essere condizionato al limite dello stravolgimento.
Sono venuto qui per tirarmi su il morale e vedere cose nuove, inaspettate, per uscire dalla mia bolla e dal meccanismo autoreferenziale in cui tutti finiamo. E invece niente, non c’è modo di scappare. Sono solo l’ennesima vittima della moda.