Pensate a quel matto di Al Hubbard: mettete dei fiori nei vostri algoritmi
Antenati psichedelici dell’intelligenza artificiale
Quando i media affrontano una delle questioni più formidabili e oscure della contemporaneità, cioè l’avvento dell’èra dell’algoritmo, ne discutono oscillando tra la necessità di una nuova politica della privacy e timori, più che giustificati, sull’utilizzo di questa tecnologia per la propaganda politica. Noi di 2666 riteniamo però che in gioco ci sia qualcosa di più grande ancora: un salto ontologico, un cambio di paradigma, uno scenario fantascientifico che si sta realizzando e che potrebbe portare alla dissoluzione del mondo così come lo conosciamo e lo viviamo. La macchina algoritmica è teoricamente in grado, raccogliendo informazioni su ciascuno di noi sul web e sui social network, di conoscerci meglio di chiunque altro e – indirizzando contenuti personalizzati capaci di riprogrammare le nostre emozioni e le nostre paure – di prevederci e di determinare i nostri comportamenti fino a farci diventare strumenti al suo servizio; servitori inconsapevoli della nuova specie dominante del Pianeta, una nostra creatura: l’intelligenza artificiale.
L’origine di questa creatura è però luminosa e dionisiaca e si basa su premesse opposte a ciò che in seguito si è realizzato. È necessario tornare a quegli inizi, per provare a liberare possibilità e potenzialità che non si sono ancora espresse. La macchina algoritmica ha antenati psichedelici e un misterioso signore di nome Al Hubbard, nato poverissimo sulle colline del Kentucky nel 1901, è una delle figure chiave di questa storia. Hubbard era un uomo con la terza elementare ma con un grande talento nell’elettronica, il fascicolo dell’Fbi su di lui lo descrive alto un metro e ottanta anche se nelle fotografie sembra basso e tarchiato; lavorò sempre in una zona grigia: a Seattle fece il taxista durante gli anni del proibizionismo e sulla sua automobile aveva installato un radiotelefono per aiutare i contrabbandieri; finì in prigione e quando ne uscì fu invischiato in una storia di armamenti spediti in Gran Bretagna prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale; si racconta poi che fu assoldato dalla Cia, ma su questo aspetto il fascicolo dell’Fbi è comprensibilmente reticente; quello che è certo è che divenne cittadino canadese e mise in piedi un’attività per il noleggio di imbarcazioni che lo rese miliardario. Nel 1951 ebbe la visione di un angelo che gli disse che presto sarebbe avvenuto qualcosa d’importante per l’umanità e che lui avrebbe contribuito a questo disegno. Pochi mesi dopo incontrò la Lsd e Hubbard capì allora che cosa intendesse l’angelo. Da quel momento in poi, dando fondo alla sua ricchezza e sfruttando tutte le conoscenze politiche, militari e imprenditoriali di cui disponeva, Al Hubbard strinse un accordo con la Sandoz, la casa farmaceutica che produceva la Lsd, e le sue scorte divennero infinite: Hubbard voleva inondare gli Stati Uniti di Lsd e cambiare il mondo.
Intorno alla metà degli anni Cinquanta, Hubbard arrivò anche in una valle, tra fattorie e frutteti, piuttosto addormentata e che solo nel 1971 – ovviamente grazie al suo passaggio – prese il nome di Silicon Valley. Qui incontrò Myron Stolaroff, ingegnere elettronico dell’unica azienda tecnologica della zona, la Ampex, specializzata nello sviluppo di nastri magnetici su bobina aperta. In meno di dieci anni, l’entusiasmo e la Lsd fecero il resto; Stolaroff dichiarò: “La Lsd è la più grande scoperta mai fatta dagli esseri umani” e la Ampex divenne, nelle parole dello stesso Hubbard, “la prima impresa psichedelica del mondo”. Da quel momento in poi, la Lsd non abbandonò più la Silicon Valley: molti docenti dell’università di Stanford e di Berkeley ne divennero entusiasti apostoli e gli ingegneri informatici sempre più accorrevano nella Bay Area per abbeverarsi alla boccetta di questa Parola. La Lsd, dicevano, dava a loro la possibilità di visualizzare in tre dimensioni la complessità di un circuito integrato e nel 1968, a San Francisco, si tenne quella che ancora oggi viene definita dagli storici dei computer come la Urmutter di tutte le presentazioni tecnologiche; sotto l’effetto della Lsd, l’ingegnere Doug Engelbart diede dimostrazione di alcune sue invenzioni che in breve tempo divennero l’ambiente della Macchina in cui ancora oggi ci muoviamo: il mouse, l’interfaccia grafica per computer, l’email e le video conferenze.
Negli stessi anni, negli stessi luoghi e con la stessa Lsd di Hubbard, nacque – e sono parole di Steve Jobs – “una specie di Google in formato cartaceo, trentacinque anni prima che ci fosse Google”: venne alla luce il Whole Earth Catalog e il suo creatore si chiamava Stewart Brand, un altro nome imprescindibile di questa storia, colui che coniò il termine “personal computer”.
Il Whole Earth Catalog era internet prima di internet. Uscì per la prima volta nel 1969: era un catalogo cartaceo ipertestuale, un network di collaborazioni in cui i lettori potevano scambiarsi informazioni, comprare oggetti e attrezzi di tutto il mondo, trovare e condividere idee in modo totalmente libero. Il ricavato delle vendite finiva alla Point Foundation dello stesso Brand che aveva come obiettivo quello di creare una rete di computer collegati tra di loro aperta al contributo di tutti. L’ultimo numero cartaceo uscì nel 1974. Nell’ultima pagina, si leggeva una frase, “Stay hungry, Stay foolish”, che divenne non solo il motto di Steve Jobs, ma forse l’espressione di una premessa che oggi non è ancora stata svolta del tutto quando si ragiona della tecnologia algoritmica che ci sta governando.
L’idea di Brand era piuttosto eccitante: se la Lsd aveva aiutato a trasmettere la creatività umana a dei computer messi in rete, ora era arrivato il momento che i computer progredissero da soli; dovevano diventare dei calcolatori lisergici. Bisogna essere foolish e visionari per pensarlo, ma il compito è ancora questo: come la Lsd di Hubbard contribuì a inventare la controcultura libertaria americana cambiando il mondo, ora occorre liberare la macchina algoritmica dal suo grigio orizzonte oppressivo. Mettiamo un fiore dentro la sua profilazione.