Leoluca Orlando spiegato a Grillo
Il quinto mandato da sindaco di Palermo e una storia di vent'anni fa
Era il 1986, con Leoluca Orlando si era amici, per quanto fosse possibile: “Vieni ad Amburgo con me? Quattro giorni, dai”. Prima sindacatura a Palermo. Ci andai. Gli onori di un Capo di Stato: l’inno, la città mito della Lega anseatica blindata come nemmeno di questi tempi, autorità al completo. E inchini. Lui, nelle vesti del morituro per mano di mafia, maneggiava il tedesco con esemplare disinvoltura grazie a qualche studio dalle parti di Heildelberg raccontato con alcune reticenze, come seppi in seguito.
Nell’emiciclo della facoltà di Architettura, duemila studenti e artisti, pazzi d’amore per il lutto incombente sull’eroe, pigiati, vestiti di nero. Inutile dirvi le passioni di quel profondo nord, l’idolatria per l’eroe solitario, il disincanto di lui a tu per tu col supremo sacrificio, la fronte sempre alta, però, quasi a sfida di una sentenza già scandita dai picciotti. Tutto molto romantico. Struggente. Molto esotico: laggiù la Sicilia, dove il sole sempre spacca e la Mafia, in effetti, imperversava. Quassù Amburgo, nuvolosa, che dovreste davvero visitarla. Un’oasi gigantesca di ville liberty, candide, e di musica soffusa, e allora di marchi, una puttanona bionda pingue di container e di traffici marini, marittimi, se così volete chiamarli, matematicamente ineluttabili, gonfi, cadenzati, impressionanti per automatismi e per gru a cavaliere quasi più che Anversa. Tanto Leoluca è scuro, occhi svelti cerchiati di nero, nervoso, quanto borgomastro e signora, assessori e signore, oltre la crème borghese e selezionatissima della città, la tenutaria del porto, appaiono placidi, rilassati, paffuti di chèque e imperturbati. Anzi, imperturbabili.
La cena si tiene nella grande villa del Borgomastro sul declivio dolce della collina. Il sindaco di Palermo scivola via leggero da un capannello all’altro, riceve cento ohhh!, Bismarck non sarebbe stato tanto ammirato. Finché ci si siede. Lui prende la parola. Ringrazia. Poi si fa serissimo: forse voi non sapete, amici miei, forse voi non sapete. Il brusio si spegne, l’attenzione è corda tesa. Cosa, non sappiamo, cosa, o nobile cavaliere? “La Stidda, signori, il vostro porto è nelle mani della Stidda”. Nemmeno di Cosa Nostra, della Stidda, che di quest’ultima costituiva la corrente in assoluto più micidiale e malandrina. E giù: la Stidda dominava le loro banchine, la Stidda controllava le calate in accordo con la mafia russa, aveva riempito i loro docks di armi e di droga, la Stidda. Kalashnikov tra i baccalà, bombe a mano nei salsicciotti, eroina nelle casse. E loro, loro nulla sapevano di quella Spectre che si stava sbranando mille anni di agi e di concerti. L’hanno scoperta a cena.
La tavolata è impallidita. Ti guardavi intorno, solo smarrimento. Qualcuno si è nutrito, nessuno ha mangiato. Che puttanate hai raccontato, Luca? gli ho dovuto dire in macchina. “Lascia fare, lascia fare”. Era soddisfatto. Molto soddisfatto. Sarebbe stato invitato più volte, ad Amburgo. E ogni volta un dettaglio. Inventato. Ogni volta un retroscena. Infarcito di balle. Finché finì. Mai visto un attore così grande. Un carisma tanto riconosciuto. Un futuro da capo preso in così seria considerazione oltre confine.
Per dire, caro Grillo, quanto sia dura la vita, in Italia, se si coltivano ambizioni di leadership nazionale. Qualche numero Orlando l’aveva. Al massimo della carriera, non è andato oltre la sindacatura di Palermo. Cinque volte. Un ergastolo. Lei, se le andrà bene, per venti volte il sindaco di Frabosa di Sotto. Forza, dunque. Poi, sempre che il professor Diamanti sia d’accordo, magari se ne riparla.
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