Che noia, Davigo
Solo lui medesimo è in grado di sopportare il suo essere sempre uguale a se stesso
Ci nasconde qualcosa di sicuro, vedrete. Perché nessuno è così, perché non esiste in natura che un essere umano possa sembrare più scontato di così, più banale di così, identico al se stesso di dieci anni fa così come al se stesso dei prossimi venti. Il magistrato Davigo, all’apparenza, però ci riesce. Egli appare la fotocopia di sempre del se stesso di sempre: una pubblicità dell’olio Dante, dei pavesini, di Ava come lava, dei tortelli Rana. Nessuno, che non sia propriamente un tortello, resisterebbe a una noia simile. Davigo sì. Concede un’intervista, ed è sempre con Barbacetto; parla di giustizia, e avverti il suono del solito arrotino mentre affila la lama; dieci, cento, mille Dreyfus, se fosse per lui; e quand’anche la vecchina travolta sulle strisce vi commuovesse, vi toccherebbe scoprire, grazie all’occhio severo di Davigo, la di lei parentela con qualche pregiudicato: se l’era cercata, la vecchia. Che chissenefrega della cattiveria, alla fine, ma è proprio la noia per se medesimo, la noia in quanto tale, che potrebbe perfino indurre un tipo simile, Dio non voglia, a tirarsi una revolverata. Non succederà: perché quel suo tedio nasconde un lampo. Ve l’ho detto, vedrete. Possibile, col pretesto di una qualche lotta, a una qualsiasi prescrizione, che già domani riconvochi il Barbacetto: senti, ti do uno scoop. Ma magari. Bon, l’ho amato e non mi pento, sono incinto di Fabrizio Corona.