Abbiamo preso un cane, maschio, cucciolo, due mesi. Stiamo in campagna per pura viltà diffusa. Si è già mangiato: le zampe di una madia eredità del Fanfani anti-latifondo, quattro cuscini disegno cachemire, il bracciolo di una panchetta falso-antica, stracciato due mutande mie, recenti, tre di Franca, non saprei quante calze, l’unico pullover che mi sfinava, ha sbranato un accappatoio sul beige, ingoiato legnetti, pezzetti di carbone, plastica di ogni foggia, culo ha voluto poi che di bauxite in casa non se ne trovasse granché. Fa molta cacca, non precisamente marmorea. Sembra goderne. E pipì. A damigiane. Liquida, ma questo si sapeva. Il prato davanti casa non spazia come Versailles. Però gli piace, ci corre volentieri. In specie per uscirne a alleggerirsi. Un nido era per noi la seconda casa. Per lui, un cesso. Centomila euri, magari esagero, spesi in segatura e tappetini. Appositi. “Pesto” si chiama Il cucciolo (non costa niente il cuore a noi genovesi) e fa le sue cose dove gli appositi non proteggono più. Mai. Oltrepassa sadicamente gli angoli. Vogliamo provare a educarlo? domando di tanto in tanto a Franca che è più brava, intelligente e più paziente di me: “Consulta prima Draghi”, risponde lei.
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