Perché oggi possiamo tornare a dire: "Mai alle quattro e mezzo"
Le quattro e mezzo: troppo presto o troppo tardi per qualsiasi cosa, e l’aperitivo non fa eccezione (per l’aperitivo del pranzo: troppo tardi. Per l’aperitivo della sera: mah, solo un anglosassone può risultare credibile con una bevanda alcolica in mano a quell’ora). Inoltre, come insegna il nostro caro amico e ormai (ohimé) quasi ex-collega Marco Ferrante che dopodomani (ohimé) cambia giornale, alle quattro e mezzo non si telefona MAI e poi mai a una donna – è scritto nel primo romanzo del suddetto amico Ferrante: “Mai alle quattro e mezza”, appunto, edito da Fazi nel lontano 1998, ed è ora di ristamparlo (nota per gli editori tutti). Conviene credergli, e anzi estendere la suddetta massima alle telefonate pre-aperitivo donna-uomo, non si sa mai.
Le quattro e mezzo: troppo presto o troppo tardi per qualsiasi cosa, e l’aperitivo non fa eccezione (per l’aperitivo del pranzo: troppo tardi. Per l’aperitivo della sera: mah, solo un anglosassone può risultare credibile con una bevanda alcolica in mano a quell’ora). Inoltre, come insegna il nostro caro amico e ormai (ohimé) quasi ex-collega Marco Ferrante che dopodomani (ohimé) cambia giornale, alle quattro e mezzo non si telefona MAI e poi mai a una donna – è scritto nel primo romanzo del suddetto amico Ferrante: “Mai alle quattro e mezza”, appunto, edito da Fazi nel lontano 1998, ed è ora di ristamparlo (nota per gli editori tutti). Conviene credergli, e anzi estendere la suddetta massima alle telefonate pre-aperitivo donna-uomo, non si sa mai. D’altronde Ferrante è un’autorità aperitivistica di tutto rispetto, prima di tutto perché “Mai alle quattro e mezza”, oltreché per indubbi meriti letterari, sociologici e storici, è apprezzato in società per la presenza, nelle sue pagine, del cocktail perfetto: il Vodka-Campari (da non confondere con il Martini-Vodka, per carità). A proposito, la domanda da rivolgere al barista è: “Si può fare?”.
In secondo luogo, essendo il suddetto amico Ferrante anche un cocktailista discreto – nel senso che sa preparare con eleganza e compostezza un buon daiquiri, quantomeno – si può esser certi che non tradirà mai la fiducia aperitivistica accordatagli da questa rubrica. Senza contare che un lettore di “Mai alle quattro e mezza”, come ovviamente il suo autore, non solo non berrebbe mai qualcosa a quell’ora, ma non potrebbe neppure cadere nell’errore di scegliere per l’aperitivo un bar che ha il nome di un colore. Non si sa perché, infatti, ma i bar che portano il nome di un colore presentano quasi sempre un “di più” di pretenziosità: un arredamento come minimo di design, troppe bottiglie esposte senza motivo apparente e troppi cibi francamente assurdi, anche se non assurdi come i cubetti finger food di gelatina di Negroni assaggiati dall’amico e collega Crippa a Milano. Incomprensibile ai più risulta, infatti, l’ambizione poetica del “White”, locale romano il cui obiettivo è fondere “tutto” (ma cosa?) in “un unico punto di bianco come le ali di un angelo”. Inspiegabile appare anche l’illuminazione horror del “Red”, altro locale capitolino che vuole far fuggire gli aspiranti avventori non dotati di vista undici decimi.
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