La pancia del genocidio culturale
Dalla città indiana dello Himachal Pradesh, dove risiede il governo tibetano in esilio, il Dalai Lama ha denunciato il “genocidio culturale” in corso da parte della Cina. Nel 1995 la filosofa dell'illuminismo Elisabeth Badinter, legata al Mouvement de libération des femmes, lanciò l'allarme sul grande genocidio culturale in corso in Cina e Tibet: la guerra contro l'utero femminile. “Non andiamo a Pechino” disse Badinter contro la Conferenza mondiale dell'Onu sulle donne e le “pratiche barbare cui dà luogo la politica del figlio unico, come sterilizzazioni e aborti forzati, anche negli ultimi mesi di gravidanza, casi di donne incinte legate e trasportate come bestiame negli ospedali per subirvi un aborto”.
Roma. Dalla città indiana dello Himachal Pradesh, dove risiede il governo tibetano in esilio, il Dalai Lama ha denunciato il “genocidio culturale” in corso da parte della Cina. Nel 1995 la filosofa dell'illuminismo Elisabeth Badinter, legata al Mouvement de libération des femmes, lanciò l'allarme sul grande genocidio culturale in corso in Cina e Tibet: la guerra contro l'utero femminile. “Non andiamo a Pechino” disse Badinter contro la Conferenza mondiale dell'Onu sulle donne e le “pratiche barbare cui dà luogo la politica del figlio unico, come sterilizzazioni e aborti forzati, anche negli ultimi mesi di gravidanza, casi di donne incinte legate e trasportate come bestiame negli ospedali per subirvi un aborto”. La scrittrice francese fece eco alla studiosa dei diritti umani Mary Ann Glendon, neombasciatrice americana presso la Santa Sede, fra le prime a scrivere contro “i programmi obbligatori di controllo delle nascite, le sterilizzazioni forzate, le pressioni ad abortire, la preselezione dei sessi e la conseguente distruzione dei feti femminili”. Pochi giorni fa il segretario delle Nazioni Unite, Ban ki-Moon, alla Commissione sullo status delle donne ha detto che “attraverso la pratica della selezione sessuale prenatale, un numero imprecisato di donne non ha neppure diritto alla vita”.
Il Tibet è sventrato dal dispotismo demografico cinese. Ufficialmente la politica del figlio unico si applica soltanto a nazionalità di dieci milioni e il Tibet è considerato minoranza che esula dal protocollo draconiano. Nei fatti, l'aborto forzato e la sterilizzazione sono i metodi più usati per realizzare quel genocidio di cui parlava la Badinter. L'articolo 49 della Costituzione cinese obbliga le coppie alla pianificazione familiare. Figli unici, figli maschi, figli sani. Molte testimonianze sul Tibet provengono dalla International Physicians for Human Rights, come i tanti racconti su unità mobili di medici cinesi che setacciano il territorio in cerca di donne incinte e i monaci che hanno assistito alla deportazione delle donne in gravidanza. Nell'aprile del 1994 a Nuova Delhi ci fu una grande manifestazione tibetana contro gli aborti forzati. Il Dipartimento di stato americano accusa da anni la Cina di praticare aborti forzati in Tibet.
Stando alle cifre incredibili diffuse dalla Tibetan Women's Association, “il venti per cento delle donne tibetane non è più in grado di dare la vita a causa delle sterilizzazioni”. L'occidente ha grandi colpe. Nafis Sadik, direttore dell'Unfpa, l'agenzia dell'Onu sulla demografia, disse nel 1991 che i cinesi devono essere “orgogliosi” della politica del figlio unico e che l'Onu “avrebbe propagato le esperienze della Cina nel controllo della popolazione”. Quando in Asia le donne rivendicano “libertà riproduttiva”, intendono la libertà di accogliere la vita e la liberazione dal cancro abortista. Per le donne cinesi, tibetane e indiane, “libertà riproduttiva” non è un eufemismo per profumare la cultura della morte. E' un inno alla libertà.
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