Dal Foglio di sabato
Io non sono un carciofo
Salvatore Crisafulli si è risvegliato tre anni fa su un lettino dell ospedale di Arezzo, respirando con un tubo infilato nel collo, una piaga profonda sei centimetri sul sacrale, le braccia ricostruite in sala operatoria, un coma di quarto grado, un'insufficienza respiratoria, una frattura alla colonna vertebrale, un'emorragia cerebrale e i medici che dicevano di non toccarlo, perché suo figlio è in coma, signora: questo è uno stato vegetativo permanente; lui non può capire, non può sentire non può parlare; se alza la testa, se abbassa le palpebre e se muove gli occhi le assicuro che, purtroppo, sono gesti non volontari. Non lo fa apposta; signora, suo figlio non è cosciente.
“Le marce, i girotondi, le veglie, le fiaccolate siano fatte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la sanità e la ricerca scientifica, per rendere sopportabile la sofferenza, anche quella terminale, non per giustificare i più disperati e soli con il macabro inganno in una morte dolce, dietro a cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo”. (Salvatore Crisafulli, settembre 2006) Oggi meglio. Andare. Fuori. Gelato. Pietà. Piango. Disperato. Bello. Rido. Notte. Basta. Sciopero. Vivo. Contatta. Mare. Catania. Mascara. Stadio. Mandorla. “Mam-ma”. Salvatore sorride scrivendo con gli occhi su un piccolo schermo a cristalli liquidi, sceglie le parole su una tastiera bianca nella sua camera da letto, sfiora con la mandibola un bottone nero poggiato pochi centimetri sopra la spalla e sposta un cursore giallo con un'oscillazione morbida del collo che trasforma in voce scritta il suo corpo immobile: un corpo che tre anni fa doveva essere finito e che oggi respira, tossisce, piange, mangia, russa, sciopera, la domenica va allo stadio, a ferragosto va ad Augusta e ogni tanto balbetta in catanese quando la mamma si avvicina e di nascosto gli passa un goccio di caffè. Salvatore Crisafulli si è risvegliato tre anni fa su un lettino dell'ospedale di Arezzo, respirando con un tubo infilato nel collo, una piaga profonda sei centimetri sul sacrale, le braccia ricostruite in sala operatoria, un coma di quarto grado, un'insufficienza respiratoria, una frattura alla colonna vertebrale, un'emorragia cerebrale e i medici che dicevano di non toccarlo, perché suo figlio è in coma, signora: questo è uno stato vegetativo permanente; lui non può capire, non può sentire non può parlare; se alza la testa, se abbassa le palpebre e se muove gli occhi le assicuro che, purtroppo, sono gesti non volontari. Non lo fa apposta; signora, suo figlio non è cosciente. Salvatore si è risvegliato dopo due anni di coma, dopo due anni di uno stato vegetativo che doveva essere permanente. Oggi vive a Catania con la madre, con due fratelli, con due sorelle, con quattro figli e con una moglie che però si è allontanata. Tre giorni fa ha interrotto uno sciopero della fame cominciato il 15 marzo insieme con altri cinque disabili in stato vegetativo; che in pochi giorni sono diventati 28 e che infine sono diventati poco più di 40. E' stato Salvatore stesso a chiedere lo sciopero; lo ha chiesto al fratello Pietro – “Pe-trù” come provò a sibilare la mattina di un anno fa; l'ha chiesto balbettando sul suo computer a scansione ottica quel comunicato che Petrù ha inviato a tutti gli indirizzi importanti che gli venivano in mente – il presidente della Repubblica, il sindaco di Catania, il presidente del Consiglio, gli assessori comunali, gli assessori regionali, i ministri, i sottosegretari e i candidati premier – per chiedere non di interrompere una sofferenza, non di staccare una spina, non di ricevere il diritto a morire. No. Ha scritto per vivere, Salvatore. Ha scritto un appello spostando il cursore sullo schermo a cristalli liquidi – e rischiando di morire per continuare a vivere – solo per reclamare quelle cure che la legge prevede e che Salvatore non riceve; ha scritto per chiedere di rispettare la sua vita; per chiedere di avere il diritto a vivere anche con una disfunzione neurologica irreversibile; per chiedere che il suo corpo fino ieri intubato e oggi paralizzato, non sia trattato come quel carciofo che un giornale pubblicò in prima pagina due anni fa, chiedendo se questa è davvero vita. Salvatore, guardando quella foto sul Manifesto, sorrise involontariamente e poggiando il collo sul pulsante nero scrisse con il cursore la parola “piango”. Crisafulli lavorava in una delle tre Asl di Catania, si occupava di disabili, studiava i piani di recupero per uomini e donne con handicap e lavorava dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 guadagnando poco più di 900 euro al mese. La mattina dell'incidente era un 11 settembre, Salvatore aveva appena visto al tg immagini di repertorio con due torri, due aerei e molte persone che morivano; era uscito dal suo appartamento nel quartiere di San Giorgio, alle 8 e 20, per accompagnare a scuola il figlio di 9 anni, Antonio. Era salito sulla Vespa, aveva superato Porta Garibaldi e poco prima di arrivare a scuola un'Ape che vendeva gelati, tagliando la strada al motorino con una inversione a u, aveva lanciato Salvatore contro il furgoncino. Venne raccolto a terra venti minuti dopo. Aveva braccia, spalle, tibie e femori spezzati. Il figlio era svenuto in mezzo alla strada. Antonio e Salvatore vennero intubati sul posto, furono trasportati in due ospedali diversi, rimasero in clinica il primo 6 e il secondo 53 giorni. Poi il Crisafulli più grande fu trasferito a Messina, tornò a Catania, andò ad Arezzo e sulla cartella clinica il primario continuava a scrivere sempre la stessa cosa, in maiuscolo. “SV”, stato vegetativo. Salvatore si è risvegliato il 25 ottobre del 2005 strozzando un colpo di tosse in un lettino di Arezzo. Si è risvegliato poche settimane dopo aver lasciato quella clinica di Messina dove era stato lasciato immobilizzato per quasi due settimane con un'infezione alla fine della schiena e con una piaga di sangue che gli aveva scavato un foro di 5 centimetri sotto l'osso sacro dentro cui si erano posate le feci degli ultimi giorni. Salvatore aprì gli occhi e cominciò a raccontare. Raccontò che per mesi – lui che non si muoveva e lui che non apriva le palpebre – era in grado di ascoltare, di capire e di ricordare praticamente tutto: i medici, le diagnosi, i fratelli, i figli, la moglie e poi il sogno; il ricordo di un aereo che si schiantava contro quel palazzo che Salvatore credeva fosse proprio quello dove abitava lui. Nel 2005 il primario diagnosticò una sindrome parzialmente assimilabile al Locked-in: una malattia che comporta la paralisi della maggior parte dei muscoli del corpo; che non provoca la perdita delle funzioni cerebrali; e che permette ai pazienti di essere perfettamente vigili e consapevoli della propria condizione. Il paziente non si muove, ma capisce tutto. Oggi Salvatore ha 43 anni, apre gli occhi spontaneamente, segue gli ospiti con lo sguardo, sposta la testa a destra e a sinistra, muove la bocca, parla con una tastiera a scansione, tiene la testa dritta senza sostegni, si alimenta dalla bocca e per dirti sì oppure no gli basta uno sguardo. La mattina, Salvatore si sveglia alle 7 e mezza, fa colazione con i biscotti plasmon, pranza con omogeneizzati alla carne, al pesce o al vitello, ascolta poca musica, guarda molti tg, ama i film western, adora il gelato alla mandorla, a luglio passa le mattine al mare, ad Augusta, a 47 chilometri da Catania, e la domenica, quando è possibile, Pietro e Marcello portano il fratello in tribuna, allo stadio Massimino, dove Salvatore impazzisce per quel folletto di Giuseppe Mascara. Dalla regione, dallo stato e dalla Asl, Salvatore dovrebbe ricevere un'assistenza domiciliare integrata da 18 ore al giorno; dovrebbe ricevere 2 ore quotidiane di fisioterapia; un'ora al giorno di logopedia; un nutrizionista, un neurologo e uno specialista una volta alla settimana. Il giorno in cui ha cominciato lo sciopero della fame, Salvatore riceveva la visita di un infermiere due volte al dì: tre quarti d'ora la mattina, tre quarti d'ora il pomeriggio. L'infermiere misurava la pressione, puliva Salvatore, lo girava da un lato e poi dall'altro, parlava un po' con lui, firmava un paio di moduli e andava via. L'ultima volta che Salvatore ha visto una logopedista, un nutrizionista, un neurologo, un ortopedico e uno specialista è stato due anni e mezzo fa. La fisioterapia, gli esercizi con lo spazzolino sulla lingua per stimolare le corde vocali e la ginnastica per le gambe ricostruite in ospedale, Salvatore le fa con i fratelli e le sorelle. A parte una pensione da 800 euro, Salvatore non riceve nient'altro. L'apparecchio a scansione ottica, quel computer che gli permette di scrivere sullo schermo selezionando le lettere con il movimento della pupilla – e con cui, come dice Pietro, quando lo usa Totò “agghiurna” – lo riceve dalla regione una volta ogni 15 giorni. Alla Asl, i fratelli Crisafulli hanno già scritto 6 telegrammi, uno ogni 6 mesi, chiedendo di ripristinare i servizi che Salvatore aveva ricevuto solo nei mesi in cui si interessò al caso l'ex ministro della Salute Francesco Storace (nel 2005). Chiede di vivere, Salvatore. Chiede le stesse cose che chiedeva piangendo un anno e mezzo fa: quando Piero Welby scriveva al presidente della Repubblica, chiedendo di morire, e quando il presidente della Repubblica faceva quello che per Salvatore non ha ancora fatto: rispondere. In quelle settimane, Welby e Crisafulli si misero in contatto. Salvatore scrisse a Welby questa lettera: “Sono come te, Piero. Sono Salvatore Crisafulli e sono stato in coma e in stato vegetativo permanente per tanto tempo, per mesi ho vissuto in un incubo, vivevo nell'orrore, i medici dicevano che non capivo nulla ma invece sentivo e capivo tutto. Oggi sono come te, non posso muovermi, parlo attraverso un computer, la mia condizione è sempre gravissima, sono imprigionato nel mio stesso corpo, mi sento come murato vivo, e vivo in un abisso, ma voglio vivere. Caro Welby rispetto la tua volontà, ma vorrei che tu cambiassi idea, decidendo di lottare fino alla fine, non chiedere la morte ma combatti per la vita. Sto soffrendo tantissimo per te, ma ti supplico di cambiare idea, perché la vita è un bene prezioso, anche se si soffre. Non chiedere l'eutanasia, unisciti a noi per vivere meglio. Se avessimo un'assistenza adeguata ad hoc, ed alleviando le sofferenze nostre e dei nostri familiari, sono convinto che nessuno chiederebbe di morire. Ti supplico di non chiedere la morte, ma di combattere per la vita”. La situazione di Salvatore oggi non è semplice: lo sciopero della fame è stato sospeso, dopo la lettera inviata a questo giornale dal ministro Livia Turco, ieri i fratelli Crisafulli hanno concordato con la Asl un nuovo progetto sanitario. Ieri, prima di pranzare, Salvatore ha scritto questo messaggio sul suo computer. “Vivo angoscia. Vivo infinito incubo. Disperazione. Non credo stato. Credo scienza. Invito stato pietà noi. Rinchiuso in gabbia infernale. Oggi felice. Infelice società. Però aggrappo a vita. Ciao”.
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