In morte del conflitto di interessi

Giuliano Ferrara

Cinici va bene. Politicanti anche. Ma fino a che punto? Vi sarete accorti che il conflitto di interessi del magnate dei media, inteso come idea guida tormentosa e radicale, come febbrile termometro del carattere e dell'autenticità della democrazia italiana, è scomparso completamente dall'agenda politica e culturale di questo paese. Se ne occupa ormai qualche fissato, qualche Pancho Pardi. Ma i pezzi grossi della politica, della cultura e dell'informazione hanno dimenticato questa epocale battaglia, questo orizzonte intrascendibile di lotta, di mobilitazione, di impegno appassionato. In un attimo.

    Cinici va bene. Politicanti anche. Ma fino a che punto? Vi sarete accorti che il conflitto di interessi del magnate dei media, inteso come idea guida tormentosa e radicale, come febbrile termometro del carattere e dell'autenticità della democrazia italiana, è scomparso completamente dall'agenda politica e culturale di questo paese. Se ne occupa ormai qualche fissato, qualche Pancho Pardi. Ma i pezzi grossi della politica, della cultura e dell'informazione hanno dimenticato questa epocale battaglia, questo orizzonte intrascendibile di lotta, di mobilitazione, di impegno appassionato. In un attimo. E' bastato che il nuovo leader del maggior partito di sinistra, dopo diciotto mesi di governo fallimentare dell'onorevole Prodi, decidesse di cambiare strategia, e di mettere la sordina al fronte unico antiberlusconiano, e zàcchete, il conflitto di interessi è diventato una robina per veterani, qualche battuta rozza di Di Pietro, qualche allusione obliqua di Furio Colombo, una dichiarazioncina di W., e per il resto: fuori dalle balle questa storia.

     

    Noi ne siamo contenti, ovviamente. In solitaria, per anni, avevamo spiegato la nostra idea: il conflitto di interessi c'è, è anzi poderoso, ma è un elemento laterale della democrazia in una società liberale e di mercato. I conflitti di interessi sono potenziali, riguardano tutti, banche, cooperative, soggetti politici, sindacati. Alcuni sono in chiaro, altri meno. Si possono tamponare appena appena con leggi che li sorveglino, che offrano qualche garanzia di correttezza nei casi più evidenti, ma non si possono sradicare se non imponendo un veto incostituzionale ai ricchi o agli editori, vietando a categorie di cittadini l'accesso alle cariche pubbliche, stabilendo norme draconiane e arbitrarie di ineleggibilità o di incompatibilità. Avevamo spiegato anche ai giornalisti della stampa estera, sempre così pronti a salire sul carro del conflitto berlusconiano, che in Italia c'era stata una rivoluzione giudiziaria in seguito alla quale erano scomparsi i tradizionali partiti, e che il sistema si era autoriformato con il consenso dei cittadini alle elezioni promuovendo una nuova classe dirigente portatrice di interessi sociali diretti, diversi da quelli delle tradizionali nomenclature politiche professionali. Insomma, c'era una logica in quanto accadeva. E d'altra parte (avevamo aggiunto) nella città che ospita Wall Street, New York, il sindaco, cioè il capo dell'esecutivo, è l'editore economico di Bloomberg Ltd, Michael Bloomberg, e nessuno gli ha imposto la vendita del patrimonio.

     

    Quanto abbiamo scherzato, e con quanto gusto, per l'ipocrisia ideologica delle vecchie battaglie anticonflitto, comprese quelle dei referendum del '96 che volevano far chiudere baracca e burattini a Mediaset. Quanto ci siamo divertiti, per anni, davanti alle crociatine di zucchero filato, palloccolose e stucchevoli, imbastite intorno agli “uomini Fininvest”, ai giornalisti servi che piegavano la testa di fronte al Caimano, l'editore che vinceva le elezioni grazie alla sua preponderanza in tv. Ma non c'è più di che scherzare, con questa fantastica giravolta che ha escluso dalla lotta politica in Italia ogni serio riferimento all'invadenza mediatica di Berlusconi. Avete più sentito polemiche serie sul Tg5 o su Fede? Avete assistito a scontri sulla gestione della Rai? Niente di niente. Tutto finito. Per cinque anni a sinistra lo psicodramma universale voleva che il ritorno al potere di Berlusconi, nel 2001, fosse stato causato dalla irresponsabile decisione di non escluderlo per legge dalla vita pubblica con un decreto anticonflitto. E in tanti avevano giurato: appena torniamo al governo lo facciamo fuori, il magnate dei media, e per sempre. Il veterano di Montenero di Bisaccia, quel Di Pietro che aveva detto io-a-quello-lo-sfascio, ha provato a mettere in discussione Retequattro, con poca fantasia, e lo hanno subito zittito, proprio all'inizio di questa campagna elettorale sulfurea e in fondo benedetta, in cui i due leader maggiori hanno finto di avere qualcosa da dirsi e da contraddirsi, e si preparano a scambiarsi qualcosa, ottimamente, dopo il voto. Il conflitto di interessi non è nel programma del Partito democratico, dunque non esiste più. Non è un argomento per vincere le elezioni, dunque non esiste più. Non solo non esiste più per il ceto della politica, ma anche per quegli intellettuali, scrittori, militanti dell'impegno che ne avevano fatto il loro grande cavallo di battaglia per anni e anni. Dicevano di muoversi in nome di criteri liberali universalmente validi, e promettevano fuoco e fiamme contro la democrazia adulterata dell'Homo videns, del consumatore televisivo coartato dalla proprietà unica dei media. E ora, fatti oggetto di un secco contrordine dal Loft, ecco che si tacciono.

     

    Segno che come dicevamo noi era un argomento falso, una trovata di propaganda che non ha retto alla prima seria giravolta tattico-strategica. Segno che in Italia non esistono le questioni vere, ma solo le ostilità faziose verso le persone erette a simboli del male per convenienza e presunta destrezza. Basta che il capo della fazione dica: “Conflitto di interessi? Non mi interessa più tanto, va in coda”, e tutti seguono. Segno che il partito dei chierici è un'intendenza che pretende indipendenza di pensiero, e la esercita in apparenza con estrema vanità, ma dispone nel suo vasto cuore di una disciplina politica encomiabile. La democrazia videocratica è un mito ideologico del passato, non conviene più metterla in mostra: è il suggerimento, benedetto e molto pedissequamente seguito, che ha dato il partito.

     

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.