Dal Foglio del 19 aprile

I meglio comunisti

Stefano Di Michele

E adesso, chi a complimentarsi e chi a dolersi – con inevitabile nuovo passo verso un sempre più innocuo modernariato. Dunque: i comunisti, signora mia, i comunisti oddio non ci sono più…


    “Mettetevi in testa che questo non è un Parlamento borghese che i deputati proletari devono combattere…”.
    (Discorso di Palmiro Togliatti ai
    parlamentari del Pci nel dopoguerra).


    E adesso, chi a complimentarsi e chi a dolersi – con inevitabile nuovo passo verso un sempre più innocuo modernariato. Dunque: i comunisti, signora mia, i comunisti oddio non ci sono più… Dissolti tra le urne, con gli operai passati dalla gloria della bandiera rossa alla mestizia del fazzoletto verde, mentre il grottesco si fa sconfortante barricata – “ci siamo occupati troppo di omosessuali e poco di operai”: senti che razza di giustificazioni – e una stramba ultima deriva verso il nulla. E' tutto un lamento – dagli editoriali del Corriere agli opinionisti di Casini – tutto un condolersi. I comunisti che non sono più in Parlamento: mamma, e adesso? Giusto sui siti berlusconiani si trova una certa becera soddisfazione – “Silvio, sei riuscito a fare quello che gli Usa hanno provato a fare per cinquant'anni: fuori i comunisti dal Parlamento italiano”: eroico. Tanta la partecipazione allo strazio politico bertinottiano, tanti i complimenti allo sconfitto, che lo stesso presidente della Camera, mentre il suo partito precipitava dentro il pozzo aperto dalle urne, con un sorriso mesto sottolineava: “Quando uno è defunto riceve molte lodi…”. Del resto, fatica inutile e impegno sprecato. A dirla tutta – e molti lo dicono – i comunisti in quell'aula non c'erano più già da anni e anni. Forse da venti, forse dal tempo della svolta occhettiana, forse da qualche anno dopo e forse persino da più di vent'anni. Ma quelli che erano i deputati del glorioso Pci – l'originale accasato a Botteghe Oscure – quelli “tutti presenti senza eccezione alcuna”, quelli che furono togliattiani e berlingueriani, i severi funzionari e gli appassionati latinisti, quelli scomunicati per davvero, con il pacco dei giornali sottobraccio e l'Unità sopra a tutti, insomma: i comunisti come tradizione e buonsenso volevano, beh, quelli mancano da un pezzo… Il resto è stato per quasi quindici anni divertente parapiglia – il Monte Athos, la quasi rissa ai cessi parlamentari tra un'intelligente trans e una turbata forzista, i fischietti suonanti in aula, le canne minacciate in cortile, i sottosegretari in piazza – forse anarchico socialismo, certo dibattito perenne, comunque e sempre elevata convegnistica. I comunisti delle Frattocchie – quelli che a volte fanno ancora drizzare per la paura l'intero apparato tricologico del Cavaliere – purtroppo erano già via da un bel pezzo.
    Diciamo, i meglio comunisti: il classico, il dop e il doc. Tra i compagni oggigiorno accasati nello Slow food si potrebbe dire: come le uova di caviale rispetto a quelle di lombo. Altro tempo, altra vita, altra storia. Per la quale è possibile agevolmente rintracciare qualche struggimento, un po' come lo stupore che prende quando succede di tornare nel proprio paese dopo tanto tempo e dopo aver a lungo cercato di fuggirne. Così erano? Così eravamo? In fondo, mica così male. A Montecitorio, i deputati comunisti erano un'ordinata falange, disciplinatamente votati alla causa. Che magari, per qualche ingenuità linguistica potevano incorrere in curiose gaffe, ma sempre con il chiaro profilo della lotta di classe all'orizzonte. Così, negli anni Sessanta, il compagno onorevole Teodoro Bigi, da Reggio Emilia, invitò con forza il governo a prendere provvedimenti a favore dell'industria dei salumi presente in zona, prima che le contadine stremate fossero costrette ad andare in città “a vendersi il culatello in piazza”. E non meno fervida di prospettive politiche e di equivoci lessicali contingenti – stando al resoconto contenuto in “Scusatemi ho il patè d'animo”, di Guido Quaranta – risultò l'intervento dell'onorevole Teresa Noce, che con durezza denunciò l'insensibilità sociale dei governi democristiani, e in aula preannunciò che il Pci avrebbe “raccolto i bisogni della gente”, li avrebbe sintetizzati politicamente “in una Carta” e “portati a Montecitorio”. Ogni equivoco fu poi chiarito. Il compagno che diventava onorevole – e ne ha dato splendida testimonianza il compagno Peppone diventato senatore nell'apposito film – viveva innanzi tutto un prolungamento della sua militanza. Non a caso, e per decenni, fino all'inizio della dissoluzione degli anni Ottanta, ben più dell'onorevole contava il segretario di federazione, e persino Giorgio Napolitano, quando fu eletto a capo di quella di Napoli, lasciò lo scranno di Montecitorio. L'obbedienza, per il deputato del Pci, era una qualità apprezzata e una virtù richiesta. Miriam Mafai, che di Giancarlo Pajetta fu a lungo compagna, nel suo libro “Botteghe Oscure, addio” ha raccontato quello che successe ad Aldo Natoli, deputato alla sua prima legislatura, nel '56, quando l'Urss invase l'Ungheria: “Venne chiamato da Giancarlo Pajetta che gli chiese di tenere, alla Camera, un discorso a sostegno dell'intervento armato sovietico. Natoli, che aveva intelligenza e carattere, rifiutò. I due stavano discutendo, le voci si sentivano fin nel corridoio. All'improvviso nella stanza arrivò, furibondo, Giorgio Amendola che, rivolgendosi a Natoli, gridò: ‘Sei un traditore! Hai sbagliato partito! Dovevi iscriverti al Partito liberale!'. Natoli uscì sbattendo la porta. E in aula il discorso a difesa dell'intervento sovietico venne pronunciato da Giancarlo Pajetta”.
    La disciplina, virtù per eccellenza rivoluzionaria nel Pci togliattiano, tra i comunisti parlamentari era pratica sacra e indiscutibile. Quando, in qualche pagina interna dell'Unità, come è successo per anni e anni, compariva il piccolo annuncio che tutti i parlamentari, “senza eccezione alcuna”, erano tenuti alla presenza in aula, senza eccezione alcuna quelli si presentavano. Rammenta Emanuele Macaluso, che dell'Unità è stato direttore, del Pci dirigente, deputato dal '63 al '76, senatore dal '76 al '92: “Quando nell'annuncio c'era scritto ‘senza eccezione', significava che tutti i deputati dovevano presentarsi. Quando c'era scritto ‘senza eccezione alcuna', voleva dire che anche i membri della direzione del partito erano convocati”. Non essendo un parlamento borghese da conquistare, né un bivacco per bande rivoluzionarie, i comunisti togliattiani mostrarono subito una considerazione quasi vicino alla sacralità per l'aula parlamentare. “C'era un assoluto rispetto per quelle regole – sostiene Macaluso – Togliatti, da presidente del gruppo, era attentissimo alle forme, vestiva sempre di blu, non transigeva sulla disciplina. Nella sua concezione il Parlamento non era una tribuna di propaganda, ma un luogo di elaborazione politica e legislativa”. Ecco, questa faccenda delle forme, e persino del vestiario, per il capo comunista ebbe da subito la sua importanza. Raccontano che guardasse con un certo disagio la cattivissima ineleganza (look, a quel tempo, era parola che nessuno pronunciava e nemmeno sospettava) di molti compagni appena eletti, subito dopo la guerra. A un importante dirigente, che continuava a ostentare come un cimelio il vecchio cappotto che aveva usato in montagna durante la lotta partigiana, un giorno chiese tra l'ironico e l'irritato: “Facci sapere, compagno, se per caso il partito può fare qualcosa per procurarti un nuovo paltò…”. A quelli che si atteggiavano a rivoluzionari nell'aula di Montecitorio, ripeteva: “Questo è un Parlamento conquistato da tutti, in primo luogo da noi; le distinzioni non valgono”. Molti eletti comunisti, in realtà, alla fine degli anni Quaranta non dovevano sembrare granché al loro capo. Qualcosa magari era migliorato, tanto che Togliatti, osservando alcune delle nuove deputate notò compiaciuto: “Finalmente abbiamo delle compagne che non portano il 41 di scarpe” – ma per il resto una sola desolazione. Fu proprio parlando del suo abbigliamento – blu scuro a pois con un colletto di merletto bianco – e indicandola come modello agli altri parlamentari, che fece il suo primo complimento alla Iotti: “La giovane compagna di Reggio Emilia ha un vestito adeguato. Imparate da lei”. Forse, il modo di portare le cose, più che le cose stesse. “Ricordo – ha rievocato Nilde Iotti – che andavo in giro con una vecchia camicia di flanella di mio padre, rivoltata, ritinta con i coloranti Sutter che usavano allora, ridotta ad abito e portata non so quanti anni”.
    C'era una preoccupazione: l'onorevole comunista non doveva marcare troppo la sua condizione di compagno economicamente privilegiato. “E' vero che metà dello stipendio andava al partito. Ma chi non era sposato pagava anche di più, fino al 60 per cento – spiega Macaluso –. Una forma di autofinanziamento, ma anche un modo di essere del parlamentare, che non doveva avere una disponibilità di denaro molto superiore a quella del funzionario di partito. Non doveva collocarsi economicamente troppo in alto”. Ricorda ridendo Miriam Mafai: “C'era un deputato siciliano che pose al partito un problema: lui non aveva una famiglia né, ovviamente, a quei tempi, dei figli. Ma aveva un grosso cane. ‘Mangia più di un bambino', tentò di impietosire l'amministrazione del partito. Inutilmente”. I deputati comunisti, soprattutto quelli delle prime legislature, si accampavano in alberghi modesti, due per camera, in case di compagni. “Quando arrivai a Roma – il racconto di Nilde Iotti – il gruppo parlamentare indicò un certo numero di alberghi dove alloggiare. Io, insieme al mio compagno di Reggio Emilia Silvio Fantuzzi, scelsi il Santa Chiara, un vecchio albergo dietro al Pantheon, vicinissimo a Montecitorio”. C'erano poi le case dal partito, ovviamente. Come quelle, famosissime, di via Pavia. Erano riservate a funzionari di un certo grado, e alcuni di loro più tardi diventarono parlamentari, da Fernando Di Giulio a Ruggiero Grieco, da Rita Montagnana a Teresa Noce. “Naturalmente – ha scritto la Mafai – nelle case del partito anche i portieri erano iscritti al partito e, a maggior ragione, lo erano le donne di servizio che, se dovevano lavorare nelle famiglie dei compagni della Direzione o della Segreteria, venivano scelte con particolare oculatezza dalle federazioni di provenienza”. Si capisce: questa edificante vita pubblica nascondeva anche scontri interni, lacerazioni, rapporti conflittuali o magari velati rapporti amorosi, che anche quelli, a quel tempo, dovevano passare per il vaglio del partito, visto che “l'amore è una cosa seria, una conquista che si realizzerà a pieno soltanto con la vittoria del socialismo”, argomentava il compagno Edoardo D'Onofrio: il soffio del partito sotto le lenzuola del del militante. Ovviamente, dirigenti e parlamentari erano molto più elastici (per fortuna), nelle loro relazioni amorose, di quanto venisse insegnato ai compagni di base (per sciagura). Non solo Togliatti e la Iotti, ma anche molti altri, compreso Luigi Longo. E fece scandalo Umberto Terracini che, da presidente dell'Assemblea costituente, si presentò a una cerimonia con la “concubina”, la donna con cui felicemente conviveva.
    Ma alla fine, il campo specifico di lotta del deputato comunista era l'aula parlamentare. Appunto sacrale, secondo gli insegnamenti togliattiani – e di tutti quelli a seguire – ma che pure vide momenti di forte scontro, contrapposizione, ostruzionismo: come al tempo del Patto atlantico o della “legge truffa” o, infine, della battaglia sul taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi. Liti memorabili come quella del giugno '48, quando il comunista Fausto Gullo attaccava gli elettori democristiani (“beghine”, “suore sepolte vive”, “paralitici”) e i democristiani, nella persona dell'onorevole Tomba, replicavano sullo stesso tono (“pregiudicato”, “sgualdrina”). Le cronache dicono dell'onorevole Tomba finito in infermeria e di due deputati comunisti soccorsi con il Lysoform. Ma un parapiglia come al tempo della “legge truffa” non si vide mai più in seguito. Pietro Secchia voleva che i deputati comunisti abbandonassero l'aula, Togliatti si oppose. Si trattò, secondo Pietro Ingrao, di un “misurato ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e Camera) per circa un lungo semestre” che “appare assurdo e insensato, se non si afferrano il suo combinarsi e prolungarsi nel territorio”. Però in Parlamento. “Il Parlamento stava nel nostro cammino proprio perché cercavamo, tentavamo di costruire luoghi e forme di potere pubblico, aperti alla volontà delle masse e capaci di incidere sull'agire dello stato”. E proprio il deputato Ingrao, nell'aula di Montecitorio, fu protagonista del gesto che divenne simbolo di quei mesi di lotta. Mentre la Camera discuteva, lui uscì per via del Tritone. C'erano scontri tra la polizia e i manifestanti comunisti. Ingrao interviene in difesa di un gruppo di dimostranti. “A domanda, tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla mia testa”. Torna a Montecitorio. “In aula stava parlando un compagno: aspettai in Transatlantico che finisse (…) Poi entrai in aula con quel fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in quella cupa notte romana”. Così, “il dramma parlamentare accendeva nuovamente gli animi nel paese”.
    Ma in generale, per fortuna, era tutto più calmo e ordinato. Dai deputati comunisti, rammenta Enzo Roggi, giornalista parlamentare dell'Unità negli anni Sessanta, veniva “un attento grigiore”, la noia dello studio di tutti i trucchi parlamentari, “come si può conoscere la strada di casa”, un “impegno quasi pedagogico” che al peggio poteva produrre interventi in aula come questo, riportato nel libro di Quaranta: “Da un punto di vista concretamente organico, cioè da un punto di vista organicamente concreto, cioè guardando le cose con organica concretezza…”: se non moriva prima di noia, magari la causa del socialismo faceva pure qualche passo avanti. Ma l'onorevole comunista non doveva mai abbassare la guardia. In aula, allora: lì il pubblico confronto, la prova di forza, la possibilità di assestare un colpo (politico) all'avversario. Naturalmente, qualcuno doveva curare, ordinare, tenere d'occhio la faccenda. La questione fu a lungo nelle mani di un parlamentare che è diventato col tempo un vero e proprio mito: il compagno Mario Pochetti da Palombara Sabina, segretario d'aula del gruppo. Un gran tipo, il compagno Pochetti. Così esperto di strategia parlamentare, di trucchi e di regolamenti che una volta, all'inzio degli anni Settanta, Sandro Pertini, presidente della Camera, di fronte a un'aggrovigliata faccenda regolamentare sbottò: “Vediamo di chiedere a Pochetti, che se ne intende di più…”. Nella funzione che il parlamentare svolgeva nel Pci, il ruolo di Pochetti era centrale, come del resto quello di una sua altrettanto risoluta collega della Dc, ricorda Macaluso, “e i democristiani temevano più lei che De Gasperi e Fanfani”. Tra l'aula e il Transatlantico, in certi frangenti, la funzione di Pochetti superava quella del segretario. Una volta fece venire a votare Enrico Berlinguer con la febbre, appena tornato da una viaggio da Mosca. Dopo un lieve ritardo pubblicamente osò una ramanzina al mitico segretario del Pci: “Tu qui dentro sei un deputato come tutti gli altri, e un ritardo va giustificato” – e con il dito gli indicò seccamente l'ingresso dell'aula. Raccontano che ad Alfredo Reichlin, splendido retore ma forse non accanito frequentatore di Montecitorio, disse un giorno: “Compagno, tu sei come Severino Gazzelloni: vieni, fai l'assolo una volta l'anno, prendi il nostro applauso e te ne vai”. Gran cultore del Belli, e dunque pacifico teorico della convinzione “io so' io, e voi nun siete un cazzo”, con pugno di ferro e granitica organizzazione instradava le truppe comuniste. Una carica monocratica, praticamente sconosciuta all'esterno, E siccome, spiegava Pochetti, “può succedere la qualunque”, dieci deputati comunisti, pescati ogni volta in ordine alfabetico, erano comandati in aula anche di lunedì o di venerdì, quando assolutamente nulla succedeva. “Vigilanza democratica”, era l'accorto mandato. E siccome “la qualunque” può appunto succedere, prima delle ferie il compagno Pochetti saggiamente raccoglieva, su un foglio bianco, la richiesta di convocazione urgente della Camera da parte del gruppo comunista. Richiesta, per dire, di una certa utilità quando il nazista Kappler scappò dal Celio in pieno ferragosto. Una meravigliosa battuta Pochetti la riservò al non giovanissimo capo democristiano Remo Gaspari, che un giorno si presentò in aula con il braccio ingessato: si era infortunato inaugrando con una partita a tennis un campo sportivo al suo paese. Gaspari forse si aspettava un applauso per lo spiccato senso del dovere, invece nel silenzio assoluto si ode la voce di Pochetti: “Suotr, ne ultra crepidam!” (Calzolaio, non andare oltre la scarpa!). Ecco, il latino era largamente praticato nel gruppo comunista, da alti dirigenti fino ai deputati di periferia. E' rimasto famoso l'urlo di Alessandro Natta contro un parlamentare che si affannava a descrivere “l'aiter della legge”. “Bestia: iter, è latino, bestia!”, urlò il capogruppo comunista. E quello: “Scusate il lepsus…”. Personaggio fondamentale del gruppo del Pci per decenni fu Giancarlo Pajetta, fenomenale battutista. Come quella volta che in aula erano rimasti solo lui (che sbrigava la sua corrispondenza) e un deputato monarchico che parlava. Oltre a un vicepresidente e ad alcuni stenografi. E Pajetta, avviandosi verso l'uscita saluta l'ultimo collega rimasto, che insiste a tirare avanti col discorso: “Poi, quando finisci spegni la luce!”. Tutt'altre storie. Finite chissà come e quanti anni fa. Magari con quel gesto di Nilde Iotti, che con fare imperioso costringe tutti i suoi compagni pidiessini – indecisi e restii a farlo – ad alzarsi per salutare Irene Pivetti, salita sullo scranno più alto al suo posto: la Gran Signora di Montecitorio salutava così la sua Istituzione. Che un giorno, nella direzione del Pci, aveva difeso anche contro Berlinguer. Era il tempo dello scontro sulla scala mobile. Il segretario pose il problema di certe questioni regolamentari sul dibattito in corso, visto che che a volte la presidenza aveva dato ragione al governo. Ricorda Macaluso: “La Iotti si alzò e disse: se volete qui la mia presenza, le questioni della Camera si discutono alla Camera”. Nessuno aprì più bocca, dopo le parole della compagna presidente. Anzi: del presidente. Perché, come la Iotti spiegò, “la presidente sarebbe una forzatura grammaticale non ammessa del resto neppure dalla voce latina da cui deriva…”. Davvero: un altro tempo e un'altra tempra.