Da anni la presidenza di Montecitorio butta strano
Fini dovrà sfatare la leggenda della Camera tombale
Nilde Iotti la guidò per tredici irreprensibili anni e con essa crebbe nell'immaginario da semplice compagna di Togliatti a madre della patria. Ma i tempi sono cambiati e la Camera, per l'involuzione darwiniana di tangentopoli, nella Seconda Repubblica si è trasformata da Camera dei deputati in Camera tombale di chiunque l'abbia presieduta: da Irene Pivetti a Luciano Violante, da Pier Ferdinando Casini a Fausto Bertinotti.
Nilde Iotti la guidò per tredici irreprensibili anni e con essa crebbe nell'immaginario da semplice compagna di Togliatti a madre della patria. Ma i tempi sono cambiati e la Camera, per l'involuzione darwiniana di tangentopoli, nella Seconda Repubblica si è trasformata da Camera dei deputati in Camera tombale di chiunque l'abbia presieduta: da Irene Pivetti a Luciano Violante, da Pier Ferdinando Casini a Fausto Bertinotti. Il fatto è che dal 1994 a oggi non ne è sopravvissuto – s'intende politicamente – neanche uno. Così Gianfranco Fini, che a fare il presidente della Camera sembra tenerci parecchio, forse dovrebbe ripensarci. Il ruolo – s'intende in Camera caritatis – non porta fortuna.
Il suono del cicalino chiama i deputati che votano in ordine alfabetico: la destra per Irene Pivetti, la sinistra per Anna Finocchiaro, i centristi per un tale De Rosa, con Pannella – sì c'era anche lui – che già allora si ribellava. Non fu una sorpresa il risultato del 1994, ma il personaggio sì che lo fu; finirono sconfitti da una ragazza di trentuno anni. I compagni del polo riformista battuti da un giovane animale neghittoso non ancora giunto a piena fioritura, una bambina che passava nel Transatlantico dura e contratta, con una camicia a collo alto che neanche Maria Montessori sulle mille lire. L'anziana signora di ferro, la zarina che fu presidente della Camera per tredici anni, Nilde Iotti, salutò l'elezione della leghista con un “mi piace, sono contenta perché si tratta di una donna”. Anche Montanelli se ne invaghì: “Forse di tutti questi uomini nuovi – disse – il più uomo e il più nuovo è lei”. Ma la donna più uomo e più nuova della Seconda Repubblica sarebbe passata da un integrale komeinismo vandeano all'Udeur di Mastella, dall'offerta secessionista all'offrire peperoncini secchi di Ceppaloni e vaghi, improbabili odori di poltrone; per poi naufragare lentamente verso l'oblio. La televisione spazzatura, il faustismo catodico di una trasmissione tragicamente chiamata “Bisturi”, il collo alto scambiato per la mise sensuale di cat woman, e infine il buio. La presidenza della Camera ha cancellato Irene Pivetti dalla politica italiana, chi è stata Irene Pivetti? Un'integralista? Una liberale? Una democristiana? Una donna dello spettacolo? Oppure, dopo essere stata presidente della Camera, è stata niente? “Come la pipa di Magritte. Disegnò una pipa e ci scrisse sotto: questa non è una pipa”.
Forse allora Fini dovrebbe pensarci un po' prima d'insistere con questa storia di voler fare il presidente della Camera. Vuole liberarsi definitivamente dal ricatto dello sdoganamento, vorrebbe spuntare l'arma di chi pigramente ricorre alla formuletta antifascista per marcare le distanze? Si capisce. Appena mercoledì scorso Massimo D'Alema ne ha fatto uno stanco uso – “dobbiamo impedire la marea nera” – ha detto il ministro dimissionario per invitare al voto in favore di Francesco Rutelli a Roma. E lui, Fini, non meno stancamente ha dovuto ancora ripetere che “si tratta di una formula vecchia, la riesumazione di un mito”. Ecco perché Montecitorio sembra salvifica. La presidenza della Camera è un ruolo istituzionale, la terza carica dello stato significa cancellare il ricatto per sempre, forse condurre An persino all'iscrizione nel partito popolare europeo. Certo.
Ma come dimenticare che l'ultimo sedutosi sullo scranno più alto di Montecitorio, Fausto Bertinotti, è passato dal dieci per cento dei voti all'estinzione politica? Ovvero da un quadro di Sironi (“l'unico rimpianto che ho per lo studio di Montecitorio”), a un quadro allarmante. Come dimenticare Pier Ferdinando Casini, che ha guidato l'Aula con la corona di delfino berlusconiano sulla testa, per poi finire col mendicare la propria salvezza parlamentare fino all'ultimo spasmo? Per non parlare infine di Luciano Violante, che da presidente della Camera dicono ambisse persino al Quirinale, e invece non è stato più candidato al Parlamento. Finito, sparito, cancellato. La presidenza della Camera, nella Seconda Repubblica, ha coinciso con la mutazione alla rovescia delle farfalle in crisalidi; ha contribuito a trasformare la linearità politica di personaggi ambiziosi nella maschera pirandelliana di Moscarda Gengé.
Per Bertinotti è stata la doppia morale, quella mania secondo la quale non stringeva la mano al presidente americano Bush da chief comunista, ma lo faceva – eccome – da presidente della Camera. Uno, nessuno e centomila Fausto. Quello stesso strano fenomeno di sdoppiamento per il quale in Israele, di fronte agli ebrei che gli chiedevano conto dell'ambigua posizione dei comunisti italiani nei confronti del terrorismo di Hamas, Bertinotti rispondeva: e che c'entro? Mica sono il capo dei comunisti, qui vengo da presidente del Parlamento italiano. Bertinotti aveva il piacere, e il dispiacere, d'essere molti, di vedere tutti i se stesso, essere a discrezione presente e assente, essere un altro; un pozzo di smarrimento identitario che ha condotto la Sinistra alla disfatta elettorale.
Sul trono montecitoriesco anche Violante ha scompigliato ogni cosa, a cominciare da se stesso. Terremoti di parole. Issato sul palcoscenico girevole della presidenza della Camera, buttò via tutto quel che di amaro era stato detto del personaggio che portava il suo nome. Niente più Vishinskij di Botteghe oscure, basta con il partito dei giudici, perdoniamo i terroristi, e su Tangentopoli: “Non possiamo trasformare il nostro paese in una immensa aula giudiziaria dove, come in una laica valle di Giosafat, si misurano le colpe e i meriti di chiunque abbia esercitato una pubblica funzione”. Correva l'anno 1996 e il magistrato che incriminò come golpisti Edgardo Sogno e Luigi Cavallo non assomigliava affatto al nuovo se stesso, il presidente della Camera che si sforza di “capire i ragazzi di Salò”, quegli stessi che Elio Vittorini chiamava “figli di stronza”. Coltivando il sogno di accedere al soglio quirinalizio, Violante, come Gengé, ebbe il piacere di non riconoscere tutti i se stesso, parlarsi e contraddirsi, trasformarsi e poi imboccare per sempre, con una impasse di schizofrenia, il viale del tramonto.
E chissà quante volte Beppe Pisanu avrà ringraziato il destino che non lo volle presidente della Camera al posto di Casini: altrimenti, forse, non sarebbe divenuto l'autorevole e capace ministro degli Interni che è stato. E il destino di Casini ne è la prova. Da principe alla corte del Cav. a santo bevitore della politica, l'ex allievo di Forlani dopo la presidenza della Camera è precipitato nel sottoscala del Palazzo. Avrebbe potuto governare col centrosinistra ma non l'ha fatto, avrebbe voluto influenzare Berlusconi ma non c'è riuscito, poteva sublimarsi nel Pdl e invece si è ridotto a pochi deputati da far sopravvivere di stenti; una razza democristiana in estinzione, un gruppetto di marziani proporzionalisti all'interno di un circo bipolare e bipartitico.
Il sunset boulevard di Montecitorio non è la strada di Gianfranco Fini, il leader di An dovrebbe lasciare Norma Desmond a Gloria Swanson. Ecco. Ma se proprio insiste, allora adesso – per non finire come la pipa magrittiana – è chiamato a sfatare la leggenda della Camera tombale.
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