Gianni Alemanno ha vinto il ballottaggio a Roma
Un tipo bello, brutto, sporco e cattivo
L'anima sanfedista è fasciata dalla grisaglia dell'ex ministro con buone frequentazioni, ma s'intuisce che se Gianni Alemanno potesse indossare ogni giorno la tuta mimetica dei tempi belli del Fronte della gioventù, non lo fermerebbe più nessuno. L'altra sera, a Ballarò, contro quel dissimulatore cotonato di Francesco Rutelli, Alemanno era senza dubbio più autentico anche se la sua verità, nel mondo antiveritativo della televisione, può risultare troppo modesta. Ma qual è la verità di Gianni Alemanno? Mai una sola, come la pelle dei serpenti. Però la prima pelle non si scorda mai e nel suo caso era quella del giovane capobranco missino.
Dal Foglio di giovedì 24 aprile:
L'anima sanfedista è fasciata dalla grisaglia dell'ex ministro con buone frequentazioni, ma s'intuisce che se Gianni Alemanno potesse indossare ogni giorno la tuta mimetica dei tempi belli del Fronte della gioventù, non lo fermerebbe più nessuno. L'altra sera, a Ballarò, contro quel dissimulatore cotonato di Francesco Rutelli, Alemanno era senza dubbio più autentico anche se la sua verità, nel mondo antiveritativo della televisione, può risultare troppo modesta. Ma qual è la verità di Gianni Alemanno? Mai una sola, come la pelle dei serpenti.
Però la prima pelle non si scorda mai e nel suo caso era quella del giovane capobranco missino che, all'alba dei Novanta, poteva sequestrare l'intero gruppo militante d'una sezione ribelle nella sede storica di via Sommacampagna a Roma per infliggergli questa realtà: “Se lasciate il Fronte della gioventù, vi ritroverete più soldi nelle tasche e avrete più tempo a disposizione da dedicare alle vostre ragazze. Diventerete dei comuni borghesi”. Il massimo del disprezzo, per un camerata che se ne va. Alemanno non sapeva che la sezione ribelle avrebbe aderito a un movimento extraparlamentare al grido “né fronte rosso né reazione”. Ma una volta chiara la destinazione dei dissidenti, è verosimile che in cuor suo abbia sorriso: un borghese è per sempre, un estremista farà ritorno. E così è stato per tanta parte della meglio gioventù nera di quegli anni, gente espulsa dal Fdg per estremismo e oggi candidata da Alemanno al comune di Roma, dopo una vera o presunta, ma in ogni caso regolare conversione alle ragioni del realismo democratico.
Oggi che l'alpinista finiano ritenta la non più impossibile scalata al Campidoglio, dopo essersi bevuto la cima del K2 più altre vette per mandar giù l'umiliazione subita due anni fa da Walter Veltroni, la sua vittoria principale è quella di essere rimasto il solo leader espresso dal Movimento sociale italiano/Alleanza nazionale in ventun'anni di regime finiano. Mussolini non durò tanto e aveva prodotto Giuseppe Bottai e Pietro Ingrao. Fini ha lasciato che questo strano secchione venuto dalle Puglie – nato nel Tavoliere da ottima famiglia messapica di Lecce – gli crescesse ai fianchi come un vegetale a metà tra la malapianta rautiana (Gianni è genero e discepolo del Pino ordinovista) e il rampicante che aveva ancora i calzoni corti ma già dava di anca davanti alla Confindustria di Gianni Agnelli: “Vecchio leone dell'imprenditoria”. Pur essendo Alemanno l'erede naturale dello “sfondamento a sinistra” e del corporativismo temperato.
Oggi ai suoi avversari viene facilissimo ripescare nella soffitta dei carichi pendenti le intemerate vecchie e meno vecchie dell'Alemanno in camicia nera (con fascetta verde del servizio d'ordine e megafono in mano, come si conviene a un leader). Siccome si è persa la memoria delle cariche da lui chiamate all'Università la Sapienza contro i compagni rossi che assediavano i neri nella facoltà di Giurisprudenza, l'annalistica antipatizzante deve ricorrere alla denuncia subita da Alemanno per una molotov antisovietica e all'arresto, nel 1989, dopo un violento sit-in contro gli americani risbarcati ad Anzio con Bush padre. Cosa vuoi che sia. Né fronte rosso né reazione, appunto.
Oggi Alemanno è tutto quello che fu ma è anche molto altro. L'antica vis di piazza è il suo combustibile per risvegliare i romani dalla catalessi del rutellian-veltronismo, dallo stordimento dei fasti capitolini ventennali dietro la cui facciata si nasconde l'insicurezza di una capitale un po' stracciona e molto aggressiva. Alemanno ha la capacità oratoria del sindacalista che è sempre stato dacché dirigeva il dipartimento economico dell'Msi. Fascista immaginario e mobilitatore permanente, per niente in imbarazzo quando lo si appellava “trotzkista di destra”, adesso sta riuscendo nel capolavoro d'illuminare le sgangheratezze della Roma percepita dal cittadino. Un letamaio pieno di buche e ambulanti e immigrati stupratori. Ma la Roma reale? Quella non la conosce nemmeno Rutelli e sopra tutto non è su quella che si gioca la partita del ballottaggio. La Roma percepita induce a scegliere Alemanno e lui questa volta ci crede da morire. E' una vita che Gianni cerca di ballare da solo, ora lui può come mai nessun altro nella semenza dei due Pini (Tatarella e Rauti) ha dimostrato di volere o saper fare. Non il più simpatico Maurizio Gasparri; non il più concreto Ignazio La Russa e nemmeno il patriarca Altero Matteoli. Il ministero dell'Agricoltura è stato il palcoscenico delle prove generali e la terra delle relazioni trasversali arata col vomere della spregiudicatezza (dalla riserva democristiana Coldiretti a Slow Food di Carlo Petrini, da Antonio Fazio a Luca di Montezemolo, da Parmalat a Banca Intesa, dai clientes forestali ai cinofili). Ma il momento propizio è arrivato adesso, con l'ultimo fuoco del berlusconismo che ha tramortito il centrosinistra; con Alleanza nazionale in dismissione controllata e con l'inevitabile scompaginarsi delle tradizionali obbedienze; con Roma ritornata di punto in bianco la scena di un'ordalia nella quale Rutelli s'immola per proteggere l'ex cattivo sindaco che ha posto le premesse della sua eventuale sconfitta. Drôle de guerre, dunque, roba da arditi all'arma bianca votati alle sfide impossibili. Insomma il luogo ideale per un fegataccio come Alemanno. Ma se fosse soltanto una questione di coraggio o di temperamento, a quel punto non sarebbe bastato uno Storace? Non a caso l'ex Kaiser Franz è stato per tanti anni con Alemanno il copilota della Destra sociale aennina. E tuttavia non bastano il fiuto del sangue e la battuta definitiva a fare del postfascista un uomo di stato. Per questo Alemanno e Storace erano così ben assortiti. Per questo, una volta separati, Gianni ha esibito quel qualcosa in più che fa di lui un possibile numero uno. Non l'ambizione, che pure non gli manca ma è sopra tutto il tratto dei superbi come Fini; o come il tipo del così detto intellettuale organico alla destra postfascista, animula vagula costretta in un addome frustrato. Invece Alemanno possiede una grazia speciale che lo svogliato Gianfranco non ha: crede tremendamente in se stesso, non dubita mai della propria intelligenza, non si risparmia nel suo esercizio e non risparmia alla propria coscienza alcuna acrobazia nella tessitura diplomatica del giorno per giorno. Un'arte combinatoria che l'ha preservato dagli scatti ciechi di Storace: dopo aver tentato l'assalto alla cittadella finiana a causa del suo indifferentismo etico sulla fecondazione assistita, si è reso conto che la successione per affiancamento, o sostituzione per sfinimento, era la scala meno scivolosa. Se vincerà, potrà finalmente ottenere quella messa alla prova delle sue capacità da risolutore di problemi. Non chiede altro, anche se di certo trasformerebbe prima o poi l'esperienza romana nel salto in lungo per nuovi traguardi. In ogni caso potrà dire a se stesso quel che finora le circostanze gli hanno impedito di pronunciare: ora comando io, senza nessuno sopra la mia testa.
Forse conta pure la sua fede, senz'altro il suo cattolicesimo sociale non è l'espediente retorico di tanta carne da Parlamento sopraggiunta nel Pdl con le ultime elezioni. Alemanno quando tocca una vetta si segna e prega. Insieme con Fabio Rampelli (suo gemello meno fortunato della sezione Colle Oppio ma non meno bravo alla scuola di mistica missina), già negli anni Ottanta praticava l'apertura dei giovani rautiani verso Comunione e liberazione. Alemanno è uno che studia da sempre, ma chi altri può aver insegnato a quegli imbranati dei postfascisti come si mette su un'associazione di volontariato? E se Rutelli è il candidato di Camillo Ruini, lui può rivendicare un'investitura abramitica. Nel senso dell'origine veterotestamentaria dei tre monoteismi. Perché l'ex ministro non bara quando dice che la sua croce celtica (più croce che celtica) è stata benedetta a Gerusalemme e che quando sarà sindaco farà costruire una sinagoga a Ostia e intensificherà i viaggi studenteschi ad Auschwitz. Non mente quando esprime la propria simpatia per quel laboratorio comunitario chiamato kibbutz. Ma è lo stesso Alemanno che ha affidato la direzione del proprio mensile Area a Marcello De Angelis, ex di Terza Posizione, oggi parlamentare al secondo mandato, filoarabo da una vita. Si capisce perché oggi Alemanno, primo candidato sindaco a farlo, visiterà il Centro culturale islamico d'Italia, noto come la Grande Moschea di Roma. Lo farà con la stessa deferenza mostrata nei confronti della comunità ebraica ma con un tocco di compunzione minore rispetto a quella sprigionata dal suo inginocchiarsi davanti alla lapide di Aldo Moro o nella chiesa dove ha sposato e risposato Isabella Rauti dopo un breve interregno.
Siccome crede nel ruolo pubblico della religione, Alemanno aveva anche un progetto guelfo al riguardo che ha dovuto però seppellire in fretta e furia. Un po' come è accaduto per la breve scappatella con Fazio, ai tempi in cui era il padrone della Banca d'Italia, ma che si è fatto perdonare ascoltando lo sciabordio delle onde sulla barca di Diego Della Valle. Premessa: Alemanno è un sincero antiberlusconiano e anche per questo ha goduto di un certo rispetto da parte del Cav. Nella passata esperienza di governo erano stati lui e Rocco Buttiglione a convincere Fini che senza Giulio Tremonti si sarebbe sfarinato l'odiato asse del nord tra Berlusconi e Bossi. Poi anche l'antitremontismo si è dissolto, ma in questo caso perché l'ex ministro del Tesoro si è spostato verso posizioni alemanniane più di quanto Alemanno abbia creduto conveniente rappacificarsi con il solo intellettuale berlusconiano esistente. Prima che nascesse il Popolo della libertà, Gianni era stato molto sedotto dai maestri cantori centristi del declino italiano. Con l'Udc è sempre andato d'accordo, ivi compreso quel Bruno Tabacci che adesso, essendo padano, si rammarica di non poter regalare il proprio zero virgola per cento a Rutelli. Assai più che in Tabacci, Alemanno ha creduto nella stella vaporosa di Luca Cordero di Montezemolo. Una passione cinica e provinciale, ma genuina, combinata con la speranza che la propria missione storica consistesse nel “fare squadra” col triangolo bianco basato su Cisl e Udc e con la Confindustria montezemoliana nella dimensione dell'altezza. Alemanno ci aveva studiato sopra, stava preparando un grande lavoro anche di teoria politica, stava elaborando una visione per invertire la tendenza nefasta dell'economia italiana e rimpannucciare il tessuto sociale del paese. Espressioni da crociato del moderatismo, espressioni rinvigorite dal dissidio tra Fini e il Cav. che ha segnato l'alba della rivoluzione del predellino, espressioni rinfoderate con tutto l'armamentario antiberlusconiano una volta che Fini ha nuovamente scantonato – et pour cause – verso la reggia di Arcore. A quel punto non era più possibile allestire una destra socialdemocratica federata con Pier Ferdinando Casini in funzione “antibipartitica e terzaforzista”. Altra formula totemica, questa della terza via, che denota la sopravvivenza di pulsioni non del tutto eradicabili dall'immaginario veteromissino: “Sarà la lotta popolare/ a vincere il marxismo e il grande capitale”. Quante volte Gianni l'avrà ritmato, questo slogan, quando marciava per le vie di Roma a caccia di fantasticherie romantiche? Epperò anche stavolta Fini l'ha deluso dopo averlo vellicato e vezzeggiato e scimmiottato come sempre quando si tratta di sputacchiare il Cav. Sicché Alemanno ha raccolto la propria insoddisfazione e ha pensato che bastava così. Mai più sotto Gianfranco, mai più dietro di lui con l'illusione di muoverne i fili per poi invece ritrovarsi con la pagina della rivoluzione consegnata in bianco e tutti i compiti da rifare a casa. Da qui la parola salvatrice Campidoglio, da qui la seconda candidatura recuperata grazie all'amletismo del suo carnefice Fini, il solo nome che avrebbe tolto a Rutelli l'incombenza di una sfida a quel punto impossibile. Ma grazie pure alla legittima neghittosità della vittima predestinata, la troppo giovane Giorgia Meloni; e grazie al legittimo disinteresse del buon Gasparri che sgobbare sgobba tanto, ma di morire per Roma proprio non aveva voglia e allora si è rivolto direttamente al nuovo duce per avere giustizia. Cioè il seggio da capogruppo del Pdl in Senato. Ma sai la bile degli ex colleghi aennini, se alla fine Gianni potrà sedersi sul tetto del mondo a declamare la vittoria della vita contro “il sistema di potere” che ha sfregiato Roma.
E Roma è davvero il punto d'onore e il punto debole di Alemanno. L'onore sta nel saperla rappresentare con il pathos e la crudezza del viaggiatore tardoimperiale messo di fronte alle macerie lasciate dai Goti di Alarico. La debolezza, e quel furbacchione di Rutelli l'ha colto subito, sta nel balbettare un po' troppo quando si tratta di disegnare davanti agli altri il profilo della Roma che si vorrebbe fare o rifare. Su questo piano Gianni soffre un'alterità non colmabile dal sacrosanto proposito di spianare i campi nomadi e sciogliere i cani lupo nei crocicchi (neanche troppo metaforicamente parlando). E' come se gli mancasse il colpo conclusivo, quasi che un residuo di sudditanza psicologica gli impedisse di affrancarsi dai predecessori.
Esempio: le parole di elogio e la promessa di mantenere una continuità con la festa veltroniana del cinema, agganciandola tutt'al più ai David di Donatello, non tradiscono soltanto buon senso. Lo stesso vale per la giusta battaglia contro l'ascensore aggrappato come una gobba sulla schiena del Vittoriano o per la bara bianca sovrapposta all'Ara Pacis. Dalle feste hollywoodiane alla bara sul Lungotevere, sono creazioni che rispondono a una visione coerente e matura della realtà. Magari orribile ma con una compiutezza. Alemanno ne intuisce la molesta grandeur e vuole apporvi un sigillo. Come ogni cinico di gran cuore, vuole fare la rivoluzione ma senza spargere sangue. E tuttavia è la semenza di un'idea grande e alternativa a mancargli. Anche per questo il talentuoso Cav. l'ha definito “una scopa nuova” che “scopa bene”. Ma può una ramazza diventare scettro? Ecco perché è una fortuna notevole che in questo giro di urne i romani abbiano scelto di votare con il coltello della punizione fra i denti, decisi a delegittimare il potere uscente senza curarsi troppo se il non-potere subentrante avrebbe o meno la giusta ironia, o il giusto senso del tragico, per farsi classe dirigente e lasciare una traccia nuova nel marmo dei fasti capitolini. (foto Ansa)
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