Stefano Di Michele racconta
La marcia è finita
Satolle e politicamente distratte, le oche (con essenziale funzione democratica) del Campidoglio stavolta non hanno dato l'allarme. E così i lupi adesso hanno preso il Palazzo Senatorio, la piazza di Michelangelo, e i musei e i Fori lì sotto, e pure Marc'Aurelio – e tanto splendore che sembrava consegnato al salotto e alla buona stampa, adesso sarà come l'arrivo dei primi borgatari in centro, quando inaugurarono la metropolitana e come sorci dai tunnel sotterranei una valanga sconosciuta e inaspettata si riversò in centro.
Satolle e politicamente distratte, le oche (con essenziale funzione democratica) del Campidoglio stavolta non hanno dato l'allarme. E così i lupi adesso hanno preso il Palazzo Senatorio, la piazza di Michelangelo, e i musei e i Fori lì sotto, e pure Marc'Aurelio – e tanto splendore che sembrava consegnato al salotto e alla buona stampa, adesso sarà come l'arrivo dei primi borgatari in centro, quando inaugurarono la metropolitana e come sorci dai tunnel sotterranei una valanga sconosciuta e inaspettata si riversò in centro, senza un'idea del Caffè Greco, senza nemmeno un distinguo tra Bernini e Borromini… A noi che siamo di sinistra succede di sentirci stasera un po' coglioni. E di accorgerci di non avere neanche le parole per definire con esattezza quello che è accaduto. Non hanno vinto gli avversari – questa è roba che va bene se si discute di notte a Primopiano con Maurizio Mannoni – anche se così ce la racconteremo: sappiamo che hanno vinto Loro. Loro. Non Noi. Neanche gli altri. Loro. Solo Loro. Manco la celtica li ha fatti ripudiare. Manco i brutti manifesti di Berlusconi, che sembrano il tre per due del supermercato vicino casa. Manco l'appello al “voto antifascista” sui muri. Niente. Niente è servito a evitare questa specie di “campo del vasaio” dove adesso ci sentiamo finiti. Verrà da pensare – e sarà uno stupidissimo pensare, ma nell'ora della sconfitta sempre i primi pensieri sono stupidi – che quella che ha vinto è tutta un'altra umanità, come se nuovi alieni fossero usciti da quei famosi sotterranei incustoditi, e senti già i clacson gioiosi dei tassisti alemanniani, e il buon democratico avrà un pensiero al dramma veltroniano e un altro non meno intenso alla piazza michelangiolesca. I fascisti, i fascisti sulla piazza del Campidoglio! Si capisce che pure dire “i fascisti” è una mezza stronzata da ora della sconfitta, ma così sarà per un pezzo, e sai che ammucchiata di dichiarazioni che si prepara in nome della “Roma democratica e antifascista” – che allora dove cazzo stava, questa Roma democratica e antifascista, a prendere il sole tra le dune di Sabaudia? Bisognerà farsi una ragione di ciò che adesso pare irragionevole. Quando la sinistra fu sconfitta a Bologna, fu un lungo dramma politico e lunghissima seduta di autocoscienza dell'intero post comunismo, ma tutto sommato era stata mandata al tappeto da un macellaio centrista, uno che con facilità anche un ex comunista, anche un progressista, poteva riconoscere: non siamo noi, certo, ma è come noi. Non una diversa antropologia. Così, il civile accorgimento: lasagne sempre pronte per tutti. Ci si poteva far ospitare pure da quell'avversario, tutto il polveroso buongusto progressista – polveroso, ma sempre buongusto – non faticava a riconoscergli che sapeva stare a tavola. Mentre adesso le anime più candide, i democratici più sensibili e una certa coglionaggine residuale antifascista (da “pratica dell'antifascismo”), avranno per qualche giorno un medesimo turbamento, una convinzione che è il momento del rancio cameratesco, altro che delle buone maniere viste in casa della Verusio. E piuttosto si spalanca già la prospettiva del salotto di Donna Assunta Almirante – inevitabile contrappunto ai tanti ritrovi democratici – con in bella mostra i piatti che lo Scià di Persia regalò a Giorgio. Che poi, invece, l'ascesa di Alemanno in quello studio sui Fori – dove tutti ci sono stati, democristiani bianchi e democristiani in odore di passato nero, socialisti e comunisti, democratici e veltroniani – è solo il compimento, si può pure pensare, di quell'altra storia rispetto a noi di sinistra. La botta è forte perché tutta carica di simboli: ti sconfigge Alemanno, mica il prefetto Caruso di filodemocristiana memoria. Alemanno conquista quel Palazzo, che era quasi elevato a sacrario del nostro giusto e migliore essere: ci tenevano il ricordo di Petroselli non meno di quello di Sharon Stone, di quando Walter recuperò il cane Fiocco che si era perso a quando arrivarono tutti i premi Nobel. E' un sacrario che sentiamo espugnato stasera, sono inaspettate badilate di terra su una storia che fino a poche settimane fa ci sembrava viva e vegeta e in buonissima salute, e anzi tutti avevamo certezza delle buone ragioni che Stefano Marroni aveva esposto l'anno scorso nel suo volume “La rivincita di Roma ladrona. Viaggio nel modello che può conquistare l'Italia”, pensa tu – con Walter sorridente e bello in copertina come era bello e sorridente nei momenti migliori. Figurarsi, altro che conquistare l'Italia: hanno conquistato a noi. Loro, poi. Loro.
Io quando stavo all'Unità li conoscevo bene, i fasci – diciamo così per comodità, dopo Fiuggi; diciamo così perché era la verità, prima di Fiuggi. E ricordo quella notte dell'estate del 1994 – e Berlusconi aveva appena vinto e stava a Palazzo Chigi, e pure allora l'inesprimibile (è buffo: a noi di sinistra, quando succede di perdere ci sembra comunque che non esistano nemmeno le parole per definire la sciagura, tutto è brutta e tanto è grave) – a spasso per Roma con il camerata Teodoro Buontempo. Eccolo, er Pecora, inteso come primo lupo, primo spauracchio per noi di sinistra. Teodoro nella notte romana – dopo che ci eravamo aggravati la digestione con quasi una bagnarola di cozze, interamente pagata dal missino – passeggiava e rideva, salutava scopini e turisti, ragazzine e bulli, mendicanti e coatti. Avrebbe dovuto esserci anche lui, nella festa (nella loro festa, s'intende) di ieri sera, e moltissimo lui avrebbe voluto, quando ogni fascista o post fascista neanche si azzardava a pensarlo, sbarcare sul Colle capitolino. Il suo sogno di “piccolo grande uomo”, dicevano i suoi volantini, che nell'aula di Giulio Cesare tirava le uova o le cartelline di cuoio agli assessori democristiani, e che costrinse una volta il sindaco Nicola Signorello, un placido democristiano andreottiano, soprannominato dai cronisti Pennacchione, a rinchiudersi in un cesso dopo averlo inseguito lungo le aule del Palazzo Senatorio. Dunque, nella notte di Roma er Pecora e il giornalista pidiessino, sazi di cozze e satolli di chiacchiere, si avventuravano per vicoli e piazzette. E Teodoro raccontava: “Fini era il ragazzo che mi curava i volantini per le scuole, Gasparri il fiduciario del liceo Tasso, e Alemanno un ragazzino che veniva accompagnato dalla sorella. Era un timido, faceva judo per darsi forza. All'epoca noi eravamo come un gruppo in guerra, rischiavamo la pelle e la libertà mentre la società degli anni Settanta scopava, ballava, si divertiva e comprava il televisore a colori”. E dunque, con poche parole Teodoro raccontava un mondo e dei pensieri e delle attese. Poi, si sa, tutto è andato in un certo modo – molto meglio del previsto, onestamente – ma quell'essere altro dagli altri, quel mondo dove il branco (ma negli anni Settanta il branco era pratica pure sul fronte opposto) fronteggiava la foresta piena di nemici. Vabbé, poi quei primi imbarazzanti mesi di sbronza governativa, quando pure quello che fu il fascio romano, bosco e sottobosco compreso, scopriva il Gilda e Novella 2000 fotografava lo stesso Buontempo in pista con certe bellone che saltellava e alzava il braccio nel fascio dance: “Ragazze, non chiamatemi er Pecora, per voi sono Teddy…”. Adesso che la destra ha espugnato la città – e c'è un qualche stupore anche negli occhi dei vincitori – vale la pena tornare a ricordare quel tempo in cui la sinistra evocava i lupi, spesso senza averli neanche mai visti. Chiesi io a Veltroni di poterli incontrare. Walter allora dirigeva l'Unità. Io avevo seguito per qualche anno la Dc, che poi mi si era squagliata, causa Tangentopoli, sotto gli occhi. Portavo ancora il lutto stretto per la scomparsa dello scudocrociato, quando Walter mi chiese: “E adesso che fai?”. “Il Msi…”, provai a proporre. Anche da quelle parti qualcosa cominciava a scongelarsi. “Vai!”, disse il direttore. “Però una cosa: non voglio fare volantini di propaganda antifascista, i pipponi democratici. Se lo faccio, lo faccio come tutti gli altri partiti: parlo con i dirigenti, con i militanti, vado nelle sezioni…”. “Vai!”. Andai. Fu la scoperta di un mondo. Quando l'Unità pubblicò la mia prima intervista a Pino Rauti – mica Fini dopo Fiuggi: Pino Rauti, più che mai convinto delle sue idee – fummo sommersi da lettere di partigiani indignati, lettori incazzati, antifascisti che ci mandavano a fare in culo. “Vai!”, continuò a dire Walter. Un mondo nuovo, appunto. Trovai la conferma dell'esistenza dell'imbecille coatto-fascista, ma anche un sorprendente universo di storie, curiosità, persino trasgressioni. In un congresso incontrai un ragazzo che faceva politica – e la fa ancora – nella destra a Roma, Federico Mollicone. Parlava di canzoni e romanzi e storie, Pasolini e la Yourcenar, parecchio del mondo della sinistra c'era nel suo mondo – e perciò mi venne da sospettare che parecchio mondo di destra c'era nel nostro mondo di sinistra. Walter fece un'intera pagina del giornale con quella conversazione. Titolo: “La leggenda del buon fascista”. Nessuno si occupava dei fascisti, allora. Una collega danese venne apposta dalla Danimarca per occuparsene. “Mi dai una mano?”. Una sera, a cena a casa mia, incontrò Nicolò Accame, figlio di Giano – intellettuale curioso e repubblichino (per poche ore, è uno che arrivò a Salò il 24 aprile, per dire). Lisbet fu molto colpita dal fatto che un giornalista comunista (si va berlusconianamente all'ingrosso) e uno fascista (sempre ingrosso) fossero amici e cenassero insieme e si prendessero magari per culo senza prendersi però troppo sul serio. Fece un'intera pagina, con nostra fotona, per il suo giornale danese. Da quelle parti, io e Nicolò diventammo delle vere icone della nuova Italia, mica cavoli. Furono anni curiosi, di strane scoperte, di singolari affinità. C'erano quelli già capi missini e che sarebbero diventati capi di An – da Maurizio Gasparri a Buontempo a Francesco Storace – e i militanti e le sezioni e le Feste del Secolo. Visti da vicino, i lupi sembravano molto meno lupi. Anche se certo, rispetto al democratico consesso, diciamo che avevano una loro specificità. Incrociavi magari al corteo i ragazzotti con la celtica (dispiace, ma era proprio la celtica) sulla maglietta nera, “aho, e tu chi sei… dell'Unità… oh, li mortè, venite, correte… questo è dell'Unità…”, e scattava il braccio teso, “boia chi molla è il grido di battaglia!”, ma insomma, persino divertente. E infatti, se gli dicevi “attenti, che se vi vede Fini vi prende a calci nei coglioni uno per uno”, quelli salutavano cortesemente e ridacchiando si davano.
Certo che fu un mondo di lupi ai bordi della città, il piccolo mondo del fascismo romano, ché come mi raccontava Teodoro trascinandomi nelle notti romane, “in Abruzzo c'è un detto: due animali non si addomesticano, il lupo e il cafone, e Buontempo sa essere lupo e cafone”. Le botte, le sezioni, Gasparri che andava a registrare i comizi di Almirante e la sera li ascoltava nella sua cameretta, Storace che inventava battute per Fini, er Pecora che finiva a Regina Coeli e lì trovava pure la monaca fascista che gli faceva il saluto romano, i ragazzi che presidiavano le loro piazze con grandi scritte, qui Mantakas, laggiù Di Nella. Mondo laterale, mondo di sconfitti che magari ragionava intorno all'inessenzialità evocando “Via col vento” prima di evocare Evola. Raccontava Gasparri: “Noi ci sentiamo sempre dei Rhett Butler” – che a Rossella O'Hara dice di avere un debole per le cause perse. Fu così finché Berlusconi non evocò, nell'androne di un supermercato di Casalecchio, un'altra prospettiva. Quando disse che a Roma lui avrebbe votato come sindaco per Fini, segretario del Msi, contro Rutelli – ed oggi questo epilogo, con ancora Rutelli al centro di un evento storico per la destra – la storia, di colpo, mutò. I lupi poterono abbandonare la foresta, smettere di vagare solo ai bordi della città – come fanno certi orsi affamati che si vedono nei tiggì – entrare per le porte principali. Certo che l'accreditamento democratico risolse diverse situazioni politiche, ma oggettivamente tolse anche fascino a un mondo un po' surreale e quasi esotico, rispetto a quello sui giornali o in televisione o nei migliori salotti, che era stato ibernato – nei suoi riti, nei suoi rapporti, nelle sue curiosità – per tutti i decenni precedenti. E un po' anche della sua bullesca allegria – Dio non voglia che qualcuno possa pensare al cameratismo – si perse, insieme a una singolare ironia. Per me, giornalisticamente, la democratizzazione del Msi fu una vera sciagura. Tra i divertiti incontri con i militanti in alcune sezioni – “Senti, mi posso sedere qui?”. “A more', a mezzo metro dar culo mio tu poi fa quello che te pare!” – e un politicamente scorretto capace di vivacizzare serate e nottate (con qualche camerata, compreso Pietrangelo Buttafuoco, all'occorrenza un po' Virgilio e un po' Dante, si andava a mangiare in un ristorante vicino alla Camera, sui cui muri si poteva scrivere: un tavolo in particolare, in fondo alla sala, è stato per anni circondato da falci e martelli e fasci littori): in me, giornalista democratico e de sinistra, c'era come uno stupore di una scoperta quotidiana. Nessuna suggestione, figurarsi – saldamente democratico, più che mai veltroniano e persino rutelliano, in questa (in questa e basta) situazione – ma come facevi a non divertirti da matto se una notte ti capitava di andare all'edicola a prendere i giornali con l'illustre costituzionalista e compagno Augusto Barbera, incontrato per caso, e a un certo punto si ferma un Mercedes dalla forma quasi inimmaginabile – quella sì, altro che la vittoria di Alemanno – e ne scende er Pecora, e tutti insieme si va a fare due passi, e al Pantheon s'incontra il compagno Primo Greganti, il compagno G., e la discussione s'avvia… O le conversazioni nel salotto di Donna Assunta, le sue battute strepitose da Imperatrice Madre, i ricordi e le maliziose annotazioni…
Sarò dura da digerire lo smacco, per noi di sinistra. Ancora più duro è il senso di liberazione di cui i tiggì parlano, “crollato un sistema di potere”, ed è come se credevi di aver fatto il meglio e invece eri diventato insopportabile. Così tanto insopportabile che si sono presi uno di destra – un fascio, insistono parecchi a sinistra, addirittura – pur di mandarti a casa. E chissà cosa bisognerà dire adesso. Quando vinse la Dc di Vittorio Sbardella, detto lo Squalo, e lui aveva qualche passato missino piuttosto rumoroso, e proprio i comunisti di allora a dire che era “la peggiore Dc”, e adesso chissà cosa si potrà dire. E quella curiosa Dc sbardellian-andreottian-ciellina, fu la cosa più vicina alla destra vista finora in Campidoglio. Nell'occasione, ricamavo sull'Unità con il rumore di scarpe chiodate sul parquet della sala di Giulio Cesare, e c'era persino una scuola di politica – frequentata da ragazzi, alcuni dei quali sono finiti poi a sinistra – dove da Gramsci si finiva magari ad Evola. “Da Gramsci ad Evola è sempre meglio che da Gramsci a De Benedetti”, mi scrisse in una maliziosa replica Maurizio Giraldi detto il Barone, acuto teorico dello sbardellismo. Decine e decine di articoli, su per particolare agglomerato democristiano, con qualche radice che affondava nel mondo dell'estrema destra. L'ultima volta che vidi Sbardella era già gravemente malato, stanco e smagrito. Mi accolse con un lampo di malizia negli occhi: “A Dimichè, e non fa er solito articolo sul boxer, sul fascista! Stavolta so' cazzi seri!”. E da Sbardella ad Alemanno è tutto un altro mondo, quel mondo che ieri ha vinto – ma che, più che altro, ci ha vinto. Loro. E adesso tocca a loro. Chiama un amico sbirro, e pure piuttosto fascio. “Aho, a Ste', v'avemo fatto un culo così, stavolta!”. Vabbè, ma da domani il primo romeno che se vede ancora per strada so' cazzi vostri. “'Mbe, mo' vedemo, dacce tempo. Ciao…”. Tenere sempre accesa la speranza è faticoso. A volte, quasi più riposante leccarsi le ferite. (foto Reuters)
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