Lo sfogo radicaldemocratico di Christian Rocca
Contro Massimo, senza pietà - Versione integrale
Un vero togliattiano avrebbe preso l'occasione al volo per dire che “Bertinotti se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato”, come aveva fatto Palmiro Togliatti inteso il Migliore alla notizia dell'ininfluente defezione di Elio Vittorini ai fini delle “magnifiche sorti e progressive”. O, magari, avrebbe usato una sua versione pop e aggiornata tipo “Bye-bye Berty”. Ma Massimo D'Alema è da sempre un Migliore a metà, essendosi riservato per sé soltanto la splendida e inutile metà di considerarsi tale, senza però esserlo.
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Un vero togliattiano avrebbe preso l'occasione al volo per dire che “Bertinotti se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato”, come aveva fatto Palmiro Togliatti inteso il Migliore alla notizia dell'ininfluente defezione di Elio Vittorini ai fini delle “magnifiche sorti e progressive”. O, magari, avrebbe usato una sua versione pop e aggiornata tipo “Bye-bye Berty”. Ma Massimo D'Alema è da sempre un Migliore a metà, essendosi riservato per sé soltanto la splendida e inutile metà di considerarsi tale, senza però esserlo. C'è chi fa politica per rubare, direbbe l'ex veltroniano Francesco De Gregori, chi per amore, chi per giocare, ma D'Alema è uno di quelli che fa politica per essere il migliore. Come Buffalo Bill. Solo che la mira di Max lascia un po' a desiderare, visto che è il politico più odiato sia a destra sia a sinistra.
Qui a New York e in versione blogger non dispongo di strumenti demoscopici per dimostrarlo, ma non è difficile immaginare la scelta degli elettori di destra, malgrado poi Silvio Berlusconi non se la sia affatto passata male con il D'Alema che un giorno si augurava di vederlo mendicare per strada e un altro si recava in visita negli studi di Stranamore (in controtendenza con la linea veltroniana che, allora, non voleva interrompere le emozioni, ma soltanto le emissioni di Rete 4). A casa sua, cioè a sinistra, D'Alema è rispettato, ma non amato – causa Bicamerale, bombardamenti su Belgrado, merchant bank che non parla inglese e molto altro – ed è un dato di fatto che in natura esistono più ex dalemiani che ville o capelli di Berlusconi.
Max dunque è tornato e una sòla ci ha lasciato o, almeno, sta provando a piazzare: “Noi dobbiamo cercare di coalizzare, partendo dal livello locale, tutte le forze che si oppongono alla destra”, ha detto ai microfoni amici di Lucia Annunziata. A parte che a Roma, a “livello locale”, s'è già visto quale grande risultato ci si può aspettare dal frontismo antiberlusconiano, ma che cosa facciamo, ricominciamo? Tutti insieme appassionatamente contro il Cav.? Bella Ciao e par condicio? Pecoraro Scanio e Sandra Verusio? Capalbio e Rizzo-dei-comunisti-italiani? Topo Gigio e i Bronzi di Riace?
No, perché se è davvero questa la grande pensata strategica di D'Alema, avvertitemi in tempo, ché mi preparo anche al popolo dei fax, dei vaffanculo, dei girotondi e soprattutto al momento in cui un Passigli o un Colombo qualunque ricominceranno a suonare la pianola del conflitto d'interessi, anche se ora perfino il neoeditore televisivo Al Gore s'è dovuto scomodare per dire che in America “yes, we Cav.”, che presidente ed editore in un paese libero naturalmente se po ffa'.
I veltroniani hanno provato a rintuzzare la sòla dalemiana, ma non con la necessaria convinzione: “Indietro non si torna”, hanno detto. Ma i primi passi di Veltroni, leader plebiscitato con lo strumento dell'elezione diretta e popolare del segretario, non sembrano andare avanti. Anna Finocchiaro, mica Angela, e Antonello Soro, senza neanche una esse finale, come capigruppo non mi pare, per esempio, una scelta coraggiosa e innovativa e moderna.
Veltroni naturalmente è scottato dalla doppia e pesante sconfitta in quindici giorni, sente dolori sulla schiena e teme di aver perso la bussola, ma nessun italiano sano di mente ha mai pensato che ci credesse davvero nella vittoria elettorale né che si fosse fatto sinceramente convincere da Eugenio Scalfari che leggendo Repubblica sognava a occhi aperti o da Giobbe Covatta e Neri Marcorè che cantavano yes we can.
Veltroni sapeva che avrebbe perso le elezioni, quindi in fondo le ha vinte (ma non a Roma), anche perché a perderle sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco e la loro cultura tecnicamente stalinista, come ha spiegato ieri un editoriale del Wall Street Journal che ha giudicato la pubblicazione online dei redditi “un'idea per consentire agli italiani di usare i dati fiscali per spiarsi a vicenda e denunciare le discrepanze tra lo stile di vita e la dichiarazione dei redditi dei propri vicini”.
Veltroni dovrebbe prenderne atto e dirlo chiaramente, magari proponendo un nuovo modello fiscale, più giusto ed equo, una flat tax o qualcosa del genere, una riforma rivoluzionaria del sistema delle tasse che consenta a tutti di pagarle serenamente e di meno, senza gli ispettori di Visco e i vicini di casa a spiare i comportamenti privati, e soprattutto per rilanciare l'economia, investire sull'innovazione e riconquistare il nord produttivo (altro che Calearo).
A perdere sono stati anche Tommaso Padoa-Schioppa e Antonio Bassolino e Alfonso Pecoraro Scanio e i bruciatori di bandiere israeliane e americane. Veltroni invece le elezioni le ha vinte (ma non a Roma, è giusto ripeterlo) perché si è presentato con un nuovo partito, senza nessuno dei sopracitati e nonostante ciò ha preso lo stesso numero dei voti.
Veltroni sapeva di perdere, se lo ricordi ora che gli sudano le mani, quindi ne ha approfittato per liberarsi delle zavorre comuniste e verdiste, incassando ugualmente i voti dei loro elettori. Infine, ha costretto il leader del principale schieramento avversario a fare la stessa cosa, a unificarsi con Alleanza nazionale e a tagliare le estreme di destra, contribuendo così a semplificare il sistema politico italiano. E' un risultato gigantesco, storico, straordinario, anche se stavolta è arrivato soltanto secondo.
Certo Veltroni non è privo di colpe, avrebbe fatto meglio a occuparsi meno di George Clooney e più della monnezza di Napoli e poi naturalmente s'è bruciato molti dei crediti accollandosi Di Pietro (così come Berlusconi s'è preso la Lega). E infatti io per Di Pietro non ho votato Pd (ma nemmeno Berlusconi).
L'alleanza del Pd con i manettari non ha portato nulla, cinque per cento in più o in meno sarebbe stato lo stesso. Anzi con il cinque per cento in meno – ammesso che un Di Pietro solitario l'avesse preso: siamo sicuri che non avrebbe fatto la fine degli arcobaleni? – Veltroni avrebbe fatto fuori anche uno dei fenomeni più imbarazzanti della nostra politica recente, se non del mondo contemporaneo (sì, assieme al padanismo della Lega sia odierno sia di quando dalemianamente parlando era “una costola della sinistra”).
Il più però è fatto. Veltroni dovrebbe moltiplicare i passi avanti, altro che promettere di non farne più in direzione Gallipoli. Non si deve preoccupare della sua sinistra, il suo obiettivo è quello di conquistare consensi liberali, moderati, anticomunisti, filo occidentali, di chi sa distinguere tra Bush e Bin Laden, tra il Likud e Hamas, cioè delle persone normali. A sinistra il Pd ha già fatto il pieno e, se Veltroni non aiuterà i residuati bellici con le ricette frontiste di D'Alema, quei voti resteranno.
Le prime e sbrigative due cose che mi aspetterei da un segretario del Partito democratico che volesse completare il percorso di trasformare l'impresentabile sinistra italiana di questi anni in una sinistra moderna e liberale – un tempo si sarebbe detto non solo antifascista, ma anche antitotalitaria – è che si liberi di Di Pietro, ma anche di D'Alema.
Di Pietro è l'emblema di ciò che di malato c'è nella politica italiana, il simbolo della debolezza democratica del nostro paese. In Italia i governi di destra e di sinistra sono nominati e sgominati dalla magistratura. Non è una questione di toghe rosse o nere, ma di toghe punto. I post comunisti hanno le loro gigantesche colpe. Con Achille Occhetto (i cui resti a un certo punto sono finiti appunto con Di Pietro) sono stati gli apprendisti stregoni di questo inferno, convinti com'erano di poter imboccare la rapida via giudiziaria al potere. E dietro Occhetto c'erano D'Alema e Veltroni. Quando ancora voleva fare la rivoluzione liberale, Berlusconi si era messo di mezzo, ma hanno prevalso i magistrati e i loro cantori Santoro, Grillo, Travaglio, Paolo Flores e l'Unità fondata da Antonio Gramsci e affondata da Furio Colombo. Alla fine sono riusciti a far cadere anche il glorioso governo Prodi, dopo vari tentativi falliti contro D'Alema, Fassino e Mastella.
In Italia l'economia è governata dalla magistratura (caso Telecom, Bankitalia, furbetti del quartierino), la tv anche (vallettopoli, Saccà eccetera). Così il calcio e anche Casa Savoia, tutti sottoposti al potere assoluto di una casta che può privare la libertà senza dover rispondere a nessuno in caso di errore grossolano (al referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei giudici, l'allora Pci votò no). Eppure Veltroni si è alleato con questi, probabilmente per paura di fare la stessa fine degli altri o magari per acquisire legittimità e copertura in quel mondo del terrore manettaro, visto che il suo orizzonte politico lo costringerà a dialogare con Berlusconi. Non gli daranno tregua lo stesso, se ne liberi.
Poi tocca a D'Alema, non solo per la performance da ministro degli Esteri e le sue passeggiate a braccetto con Hezbollah. Già queste, da sole, basterebbero, visto che in Europa – figuriamoci nella patria del vero Partito democratico – non esistono credibili leader di sinistra che, per esempio, a proposito dell'uccisione del capo militare di Hezbollah, Imad Mughniye, già definito il Bin Laden sciita, si azzardino a dire che “è terrorismo”.
D'Alema avrà anche curato benissimo il suo collegio di Beirut sud e non c'è dubbio che su questi temi sia il ministro ideale di Gianni Vattimo e non di un paese normale, ma per Veltroni e il futuro del Partito democratico è un problema serio. Io ho sempre seguito D'Alema con un pregiudizio positivo, ma ormai mi sono convinto che non sarà mai il Blair o il Clinton italiano, perché in realtà non si è mai separato dalla sua antica cultura politica conservatrice, antioccidentale e antiamericana.
Ora dunque spinge per tornare al frontismo antiberlusconiano e per riallearsi con i partiti comunisti. A Veltroni non resta che scaricarlo, sfidarlo, invitarlo a presentarsi come candidato alternativo in nuove elezioni primarie, come ha fatto il suo caro Barack Obama con Hillary Clinton, viceversa resterà imbrigliato e addio Partito democratico. Obama non ha provato a mettersi d'accordo con Hillary, al contrario ha sfidato apertamente e direttamente la temuta e potente macchina clintoniana che poteva contare su bocche da fuoco più potenti del Riformista. Se non fosse per il disastro combinato dal suo impresentabile pastore e consigliere spirituale Jeremiah Wright, Obama sarebbe già il vincitore delle primarie.
Ecco, D'Alema è il reverendo Wright di Veltroni, un legame col passato che rischia di tarpare le ali al nuovo Partito democratico. Obama, all'inizio, ha provato a salvare il suo pastore, a descriverlo come uno di famiglia, come un vecchio e simpatico zio che ogni tanto dice cose un po' così, ma che in fondo è intelligente e non fa male a nessuno. Non è servito a niente e qualche giorno fa, anche se forse ormai è troppo tardi, ha dovuto ripudiarlo (“disown”).
Veltroni dovrebbe fare lo stesso, dire che il suo caro amico Massimo – quello che si vantava di giocare con le molotov a Pisa, mentre lui era già un funzionario di partito – è diventato uno degli ostacoli principali alla modernizzazione della sinistra, ora che ci siamo liberati dei comunisti e dei verdisti. Lo faccia, Veltroni. Si metta in gioco. Al massimo, come Obama, dovrà spiegare come ha fatto a non accorgersene prima. Se Veltroni tiene davvero al progetto del Partito democratico, come dovrebbe tenerci qualsiasi cittadino italiano che non vuole morire lobotomizzato o di noia, dovrà avere il coraggio di sfidare gli oligarchi della sua parte e di trasformarli nei nuovi Folena, Mussi e Angius. Veltroni avrà bisogno di spingere sull'acceleratore del partito all'americana, senza tessere, senza sezioni, puntando sulla leadership, sulle idee, sugli eletti. Dovrà incalzare il governo Berlusconi sul suo ex terreno, quello della rivoluzione liberale, della modernizzazione del paese, del mercato del lavoro e del sistema pensionistico. Adotti in blocco l'agenda Giavazzi sulle liberalizzazioni, smascheri lo statalismo di Alleanza nazionale e degli arcobaleni, il protezionismo di Giulio Tremonti e dei no global, la piccineria della Lega e di Beppe Grillo, il corporativismo dei sindacati e dei salotti buoni. Faccia capire che i conservatori del sistema Italia stanno sia alla sua destra sia alla sua sinistra. Dica, insomma, qualcosa di sinistra liberale. Se non lo fa, o se pensa che cincischiare possa essere una soluzione, allora vorrà dire che ha ragione l'ex dalemiano Andrea Romano ad aver scritto nel suo libro “Compagni di scuola” che l'ex classe dirigente diessina è semplicemente e tragicamente inadeguata. “Unfit”, direbbe l'Economist.
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