A trent'anni dall'assassinio del presidente della Dc - Dal Foglio del 10 maggio
L'affaire Moro e il gioco delle coincidenze simboliche incrociate... (prima parte)
Ieri mattina me ne stavo andando in campagna e mi sono accorto con un trasalimento che trent'anni prima, il 9 maggio del 1978, nella stessa ora in cui adesso viaggiavo in autostrada stavo passeggiando per via delle Botteghe Oscure, direzione piazza Argentina, provenienza il palazzone della direzione del Pci, e accanto a me, nella via Caetani che incrociavo, c'era il cadavere di Aldo Moro composto nel bagagliaio della Renault R4 rossa, dove il presidente della Dc era stato ammazzato al mattino in un garage della periferia romana con una mitraglietta skorpion silenziata. Moro fu ucciso in esecuzione di una sentenza di un tribunale del popolo, eretto dalla direzione strategica delle brigate rosse, dopo cinquantacinque giorni da quel rapimento che risultò nell'unica vera grande tragedia della storia della Repubblica italiana, e il sigillo della sua fine.
Ieri mattina me ne stavo andando in campagna e mi sono accorto con un trasalimento che trent'anni prima, il 9 maggio del 1978, nella stessa ora in cui adesso viaggiavo in autostrada stavo passeggiando per via delle Botteghe Oscure, direzione piazza Argentina, provenienza il palazzone della direzione del Pci, e accanto a me, nella via Caetani che incrociavo, c'era il cadavere di Aldo Moro composto nel bagagliaio della Renault R4 rossa, dove il presidente della Dc era stato ammazzato al mattino in un garage della periferia romana con una mitraglietta skorpion silenziata. Moro fu ucciso in esecuzione di una sentenza di un tribunale del popolo, eretto dalla direzione strategica delle brigate rosse, dopo cinquantacinque giorni da quel rapimento che risultò nell'unica vera grande tragedia della storia della Repubblica italiana, e il sigillo della sua fine.
Una decina di giorni fa avevo letto il vecchio libro di Leonardo Sciascia su Moro, intitolato “L'affaire Moro” (agosto 1978), e lo avevo trovato ben scritto quanto al ritratto della tragedia, ma pieno di superstizioni, di false piste, di inutili deviazioni dal cuore della cosa, e fazioso, zeppo di pregiudizi, infinitamente vano e letterario nel senso minore del termine, quando letteratura è maniera, ghirigoro, barocchismo lontano dall'essenza metafisica di ogni verità, essere o non essere. All'epoca ne avevo sbirciato con disamore solo qualche estratto sui settimanali, Sciascia mi stava antipatico come intellettuale civile non schierato dalla parte della democrazia repubblicana, tutta la chiacchiera intorno al caso Moro mi sembrava insulsa. Per me era ovvio che lo avessero rapito e ucciso i comunisti delle brigate rosse, si sapeva chi erano, si sapeva in quale contesto armato diffuso operavano, alcuni di loro li si conosceva personalmente, si conosceva il loro linguaggio ideologico, si sapeva quanto fosse debole lo stato in Italia, si sapeva che quella italiana era la frontiera avanzata della guerra fredda, si sapeva che il riflusso del 1967 + 1, negli anni Settanta, aveva diffuso nel mondo e in particolare in Italia l'illusione rivoluzionaria e terrorista, illusione particolarmente acuta e intrinsecamente politica da noi dove c'era il partito comunista più forte dell'occidente, il mio partito comunista, vicino al potere in un quadro internazionale e in una situazione sociale e di cultura incandescenti; venivamo dal Settantasette, dalla cacciata di Lama dall'Università di Roma, e la dc era già un ventre flaccido attraversato da tutte le contraddizioni e su Moro alitavano secoli di scirocco, e in tutto quell'appiccicume bestiale la gente moriva a mazzetti per i colpi delle bierre, e dilagavano le P38, e molti sapevano che il grande attentato politico stava per arrivare, forse ne parlarono alla radio quella mattina stessa, una radio rossa, alternativa, di movimento, e insomma che bisogno c'era di tutta quella chiacchiera depistatoria?
Si sapeva anche che Moro si era comportato in modo umano e vile, umano perché vile e vile perché umano, nel senso che il suo martirio fu personale e familiare, immerso in una struggente religiosa ansia di vivere in comunione con i suoi e poi (a speranze svanite) di continuare a vivere nella luce se solo la luce davvero ci fosse, e “se ci fosse luce sarebbe bellissimo”, come scrisse subito prima di morire; ansia di vivere senza la minima testimonianza di una fede nello stato, con un attaccamento ardente e morboso alla propria vita e al suo amore per la moglie e i figli e i nipoti, con un profondo disprezzo e una tremenda angoscia personale e politica di fronte al fenomeno inaudito di una classe dirigente che, pur compromessa sotto ogni punto di vista nel tradimento di ogni possibile spirito pubblico, in quel tragico presente sacrificava alla tenuta politica e civile dello stato il privato del sequestrato, e anche una antica visione morbida e gelatinosa della società e del diritto tipiche del prigioniero politico, del potente inarcerato e ormai solo, e questo sotto la sferza dei comunisti, di noi comunisti, e del cinismo inevitabile di Andreotti presidente del Consiglio di un monocolore da loro, da noi appoggiato. Una terrificante nemesi storica per l'uomo che aveva lavorato per l'integrazione consapevole, prudente, attenta, dei comunisti in un nuovo patto di blocco o di sindacato in sostegno della Repubblica dei partiti.
Molti continuano a giocare il gioco delle coincidenze simboliche, delle sedute spiritiche, delle liste della P2 negli stati maggiori dell'esercito e dei servizi, molti continuano a vedere ovunque un elemento torbido indecifrabile, quando a me sembra, e in fondo il saggio interpretativo delle lettere di Moro scritto da Michel Gotor con l'ausilio dell'ermeneutica di Leo Strauss va in questa direzione, che restino da decifrare solo i dettagli, questioni interessanti ma non molto importanti. Vedremo, posso sbagliare, ora pare che si aprano nuovi archivi e che siano possibili sorprese. Vedremo. (continua)
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