Destra immediata, feroce, rapida
Quello che è successo in Italia il 12 e il 13 aprile non è piaciuto né punto né poco alla scrittrice Silvia Ballestra. Anche se, dice al Foglio, “sono sicura che pure a questo si sopravviverà”. Lo dice sorridendo, ma per lei che ha sempre votato a sinistra (“anche Rifondazione, ma stavolta Partito democratico”), che ha cantato e anche strapazzato la Bologna rossa diventata rosso-cupo, per lei, dicevamo, la cosa più urgente è capire come mai “nessuno si era reso conto davvero dei segnali d'allarme, nessuno aveva letto le avvisaglie di questo cambiamento”.
Quello che è successo in Italia il 12 e il 13 aprile non è piaciuto né punto né poco alla scrittrice Silvia Ballestra. Anche se, dice al Foglio, “sono sicura che pure a questo si sopravviverà”. Lo dice sorridendo, ma per lei che ha sempre votato a sinistra (“anche Rifondazione, ma stavolta Partito democratico”), che ha cantato e anche strapazzato la Bologna rossa diventata rosso-cupo, per lei, dicevamo, la cosa più urgente è capire come mai “nessuno si era reso conto davvero dei segnali d'allarme, nessuno aveva letto le avvisaglie di questo cambiamento”. Ma quali erano i segnali d'allarme? Quale catastrofe, quale mesmerica o bulgakoviana mutazione delle italiche genti (la Ballestra, nei suoi libri, di quelle trasformazioni fa spesso allegro e fantasioso uso), quale piccolo o grande disastro – perché per la sinistra di questo si tratta – è potuto avvenire per consegnare “alla destra, in modo così netto, un paese che solo due anni fa era ancora in equilibrio, ancora diviso a metà”?
Stavolta nessun pareggio, nessuna vittoria per il rotto della cuffia, “perché stavolta non c'è stato solo lo spostamento a destra. E' successo che gli elettori della ‘sinistra sinistra' sono praticamente spariti”. Evaporati, anzi, probabilmente “delusi da una sinistra che non ha fatto politiche di sinistra e che non aveva nemmeno programmi di sinistra. Il Pd, che pure ho votato obtorto collo, non fa altro che proporre ricette un po' più light della destra, niente più di questo. Vivo a Milano da quindici anni, e qui la sinistra come la intendo io in realtà non c'è, non si vede da nessuna parte”.
Non sarà, allora, che è difficile non solo scegliere, e non parliamo di votare, qualcuno che “non c'è”? “Può darsi, ma l'ultimo voto degli italiani io lo vedo soprattutto come il frutto di un paese molto ma molto depresso. Depresso dal punto di vista culturale, prima di tutto, che è poi il punto di vista del mondo nel quale, bene o male, lavoro. Un mondo che ha riferimenti e obiettivi sempre più mediocri, e sembra non vergognarsene nemmeno. A partire dalla scuola”. La sinistra è colpevole di tutto questo o è stata travolta dagli eventi? “Direi che è stata almeno distratta, il che, a ben vedere, è quasi peggio che colpevole”. Quel gioco al ribasso le si è “rivoltato contro. Rischio di sembrare demodé, ma la televisione in questo paese ha un peso e un ruolo importantissimi. Se penso alla cultura o sottocultura uscita e macinata dalla televisione commerciale negli ultimi venti anni, mi chiedo come fosse possibile evitare quello che è successo”. Eppure, quella che viene chiamata sottocultura televisiva non ha impedito, in altre circostanze, la vittoria del centrosinistra, il trionfo di Rutelli e di Veltroni, anni di governo Prodi. Oggi, quasi nessuno si sogna più di attribuire la vittoria di Berlusconi alla televisione: “Voglio dire semplicemente che se il Tg5, che seguo da anni, apre tutte le sante sere sulla sicurezza, sulle rapine, sui furti, sulle violenze, sui gioiellieri aggrediti e uccisi, sulle città ‘terra di nessuno', questo conterà o no nelle reazioni delle persone? E' una faccenda triste, in atto da molto tempo, negli ultimi tempi si è solo accentuata e ha scavato nella testa della gente”. Vuol dire che in fondo c'è qualcosa di inventato? “Non dico neanche questo. Dico che la gente ha paura perché certe cose succedono, d'accordo, ma anche perché c'è chi gliele sbatte sotto il naso venti volte al giorno. Nella settimana prima delle elezioni, a Roma c'è stata la violenza sulla ragazza del Lesotho, trattata con titoli cubitali di prima pagina anche da Repubblica (ero in treno e ho fatto un salto, ho pensato che fossero impazziti). Era Repubblica, non il Giornale o Libero. Anche qui a Milano c'è stata una violenza vicino a piazza Duomo, ma la notizia la dava un modesto box in cronaca cittadina, poco più di un trafiletto. C'è da pensare che se il pestaggio di Verona, con il ragazzo ammazzato dai naziskin, fosse successo prima delle elezioni, lo avrebbero nascosto per non danneggiare la destra. Oppure no, e allora magari qualcosa sarebbe cambiato nel risultato elettorale”.
La cifra letteraria di Silvia Ballestra, quella che incantò il suo talent scout, Pier Vittorio Tondelli, e che l'ha resa abbastanza unica nel panorama degli ex giovani scrittori italiani (sembra una ragazzina ma ha quasi quarant'anni, ed è madre di due ragazzini di nove e quattro) è la sua capacità di usare occhi orgogliosamente “provinciali” per catturare umori cosmopoliti, tendenzialmente universali, con l'aria di voler solo raccontare un po' di sé e degli strambi amici suoi. Quegli occhi si sono soprattutto esercitati, negli ultimi anni, tra la Milano della Lega nord e di Forza Italia e Grottammare, Ascoli Piceno (paesello natìo della Ballestra ma anche di Papa Sisto V), dove il sindaco è stato a lungo di Rifondazione e la giunta di sinistra è al potere da una quindicina d'anni. Tra Milano e Grottammare, dunque, nemmeno alla Ballestra bastano più le categorie classiche dell'antropologia e della politica (o dell'antropologia politica, se esiste) per definire similitudini e diversità, per stabilire se la grande mutazione mesmerica e/o bulgakoviana abbia colpito più o meno irreversibilmente. “A Grottammare sono diventati tutti ricchi, si costruisce, e quanto si costruisce”, racconta la scrittrice. Un mondo benestante, affluente, pasciuto, di una sinistra solertemente parvenue, “perché nei secoli la mia è stata invece una terra molto clericale”. A Milano, soprattutto nelle fabbriche lombarde, vince invece la destra, scelta d'elezione, in tutti i sensi, di ciò che rimane della classe operaia: “Direi che prevale ovunque la voglia di tirare i remi in barca. L'insicurezza reale o percepita o gonfiata ad arte fa vedere come obiettivo principale quello di non perdere ciò che si ha, prima di tutto. La cosa può essere accecante. Può farti dimenticare che l'immigrato-uomo nero è in realtà la badante e la baby sitter di cui hai disperatamente bisogno, può farti vedere il nemico dove non c'è niente, solo la proiezione delle tue paure”.
Non c'è rabbia ma “istinto di difesa”, nell'Italia vista con gli occhi della Ballestra: “E' una faccenda di sentimento più che di ragionamento. Se ragionassimo sapremmo che, per esempio, l'immigrazione è una risorsa. Un sentimento di difesa, di provare a perderci il meno possibile. Io non mi dimenticherei nemmeno la ‘tosata' che c'è stata tra il 2000 e il 2001 sui risparmi degli italiani. Chi aveva qualche piccolo investimento – parlo di prodotti finanziari vari e fondi di investimento – se li è visti decurtare, saltare da un giorno all'altro. Una bella iniezione di insicurezza, senza contare la tristezza per essersi fatti fregare dalle borse, dalla politica, dai giornali. Tante famiglie del ceto medio si sono ritrovate scoperte, esposte, senza quella piccola tranquillità che in altri tempi era data per scontata. E poi il costo delle case, disperante, e la spesa che costa sempre di più. Tempi cupissimi”. E poi la precarietà “che per i giovani non è affatto un'opportunità all'americana, ma solo desolazione. Senza contare che l'America per me non è un modello in nessun senso, né possibile né auspicabile. Un tempo leggevo e amavo gli scrittori americani, adesso non lo faccio nemmeno più, non mi piacciono”.
Eppure, stando all'indicatore della natalità, che così irrilevante non è, la società americana dimostra molta più vitalità rispetto alla nostra: “E' vero, la sparizione dei ragazzini è triste. Prima vivevo in un palazzo dove c'erano solo anziani e sono scappata inorridita, con tutto il rispetto e l'amore per gli anziani. Ma anche qui non dobbiamo imbrogliare. Anche in Europa le cose possono andare diversamente. Pensiamo alla Francia, dove sono state attuate, non da oggi, politiche demografiche efficaci, di sostegno vero a chi vuol fare figli. Politiche vere, non aria fritta o elemosine come il bonus bebé. E comunque io il bonus di Silvio l'ho preso, per il secondo figlio, e visto che me li dava Silvio valevano doppio, quei mille euro, pochi, maledetti e subito. Pannolini per un anno, più o meno, e basta. Ma ci vogliamo mettere in testa che se le donne non lavorano i figli non li fanno? Ormai è così, devono rassegnarsi tutti. Nel sud d'Italia, dove le donne stanno più a casa, si fanno meno figli rispetto alle regioni del nord. Ormai sappiamo che i figli li dovrai mantenere fino a trent'anni, se tutto va bene, tipo Norman Bates in ‘Psycho' (scherzo), e se non sei minimamente autonoma del punto di vista economico non ce la puoi fare”.
Anche qui il sentimento dell'insicurezza torna e pesa. Ma se, a torto o a ragione (vediamo che perfino Silvia Ballestra, in fondo, qualche ragione a quel sentimento gliela dà), è quello “il” tema predominante, l'aria che tira, l'emergenza nazionale, non sarà che la destra è storicamente, simbolicamente, culturalmente più attrezzata per dare risposta e soddisfazione a quel sentimento? La sinistra non riesce a trovare le parole, le deve mutuare e geneticamente modificare, con effetto perdente, per riuscire a dire quello che la destra (la Lega al nord, Alemanno a Roma) riesce a pronunciare senza complessi e retropensieri? E non trova, Silvia Ballestra, che certa sinistra elitaria sia diventata sempre più indistinguibile dall'élite del privilegio tout court, stesse scarpe, stessi vestiti, stessa lontananza dal mondo vero? Ci si può scandalizzare se a Roma l'abitante della borgata, verificato che né Rutelli né Veltroni hanno ottenuto che l'autobus passasse con intervalli umanamente tollerabili, si butta a destra, per vedere che succede con “uno nuovo”? “Ma infatti a Roma ha vinto la destra sociale – dice Silvia Ballestra – quella che si è sporcata le mani sul territorio e magari ha aperto sezioni dove i partiti di sinistra le avevano chiuse da un pezzo. Naturalmente io lo scollamento tra certa sinistra e ‘popolo' lo vedo, ma il fenomeno di rigetto credo sia soprattutto romano, qui a Milano non è così. A Roma avrà certo pesato il contrasto tra le buche nelle strade e la Festa del cinema, ma non è una cosa che può valere per l'Italia intera. Forse quella di cui parliamo è, a prescindere da tutto, una peculiarità romana, che viene da lontanissimo, dalle contiguità logistiche tra salotti culturali e potere, ma che non può aver influenzato più di tanto il voto nazionale. Il voto di destra lo vedo come una grande onda, trascinata da una delusione più profonda, da quelle insicurezze di cui parlavamo prima”.
Le risposte all'insicurezza, la Ballestra ne è convinta, “non devono necessariamente parlare solo la lingua della destra, come è successo a Firenze e a Bologna, dove sindaci di sinistra rincorrono le pessime politiche di destra sulla pelle di lavavetri e di nomadi. Quelle della sinistra sono – dovrebbero essere – certamente risposte meno semplicistiche, meno volgari, meno dirette, meno consolatorie, ma più praticabili, alla fine. E' facile dire ‘via i campi nomadi' e ‘dagli al romeno', parole d'ordine che incendiano la prateria e hanno una presa immediata, feroce, rapida, che taglia i fili a qualsiasi ragionamento più articolato (e dunque più efficace, io credo, per il risultato che si vuole raggiungere). Questo vale per molte altre questioni che fanno la vita quotidiana, come la scuola e la sanità. E penso anche alle questioni etiche, troppo sottovalutate dalla politica, di destra e di sinistra”.
Molto più pessimista sull'immediato futuro della nazione di Giacomo Leopardi al peggio del suo pessimismo, ma anche marchigianamente consolata dall'idea che, si diceva all'inizio, “pure a questo si sopravviverà”, Silvia Ballestra, che non nasconde la sua rocciosa diffidenza verso “i ripuliti con la cravatta rosa” (allusione a Gianfranco Fini presidente della Camera) racconta che fatica molto a rassicurare “amici e conoscenti, quando torno nelle Marche. Per loro il voto è stato una catastrofe, hai voglia a dirgli che io a Milano ho esperienza della Lega, e so che non equivale alla Wehrmacht sotto casa. Ma so anche, d'altra parte, che quelli che menano ci sono. Guardiamo a quello che è successo a Verona, ricordiamo il G8 a Genova, gli abusi delle forze dell'ordine. L'antifascismo non è un accessorio obsoleto, è ancora necessario”. La destra oggi al potere non ha fatto che prendere le distanze dal passato… “Sì, ma oggi, in Italia, non vorrei proprio essere né un romeno né un rom. Sono stati dati alle fiamme dei campi nomadi, una cosa spaventosa, ed è naturale che anche se non è la destra al potere che incendia i campi, chi lo fa può sentirsi più coperto e autorizzato. I saluti romani in Campidoglio non me li sono mica sognati io. Siamo intolleranti con Caruso – che non mi piace, non mi è mai piaciuto – chiediamo in continuazione prese di distanza e distinguo dalle sciocchezze che dice, e siamo tolleranti con i saluti romani?”. Veramente la destra post fascista si lamenta in continuazione dell'esame del sangue continuo a cui è sottoposta… “e allora diciamo che le scemenze di Caruso mi sembrano molto più innocue rispetto a simboli e parole d'ordine che mi fanno orrore. E che continuano a fare danni, danni veri, concreti”. La paura di Silvia Ballestra è che la sinistra costretta a tornare extraparlamentare si trovi “negate le piazze, la possibilità stessa di fare attività politica”. Addirittura? “Ma sì, l'aria che tira non mi piace per niente. Che si può fare? Non lo so. C'è chi sogna un ruolo per gli scrittori che assomiglia a quello di Pasolini negli anni Sessanta e Settanta. C'è anche chi non si spiega come non sia mai stato scritto un grande romanzo su Tangentopoli”. Magari è meglio così: “Sta di fatto che nessun narratore oggi riesce davvero a raccontare l'Italia. Il racconto maiuscolo dell'Italia di oggi l'ha piuttosto fatto Riccardo Iacona con i suoi reportage, che sono diventati un libro per Stile libero”. Il panorama letterario del paese appena conquistato dalla destra da tempo ormai immemorabile non produce “l'affresco, la coralità, il grande romanzo. Piuttosto storie circoscritte, un personaggio al massimo, ambiti limitati e conclusi, situazioni ristrette”.
Asfissia, insomma, a volte anche ben riuscita, ma sempre di asfissia si tratta, “legata al funzionamento del mercato editoriale di questo paese, che non lascia spazio ad altro”. Ma anche a questo, Silvia Ballestra crede che si troverà rimedio, prima o poi. Così come crede che “l'ondata di destra sia solo un'ondata emotiva più che politica. Motivata con mille ragioni diverse e concomitanti nella loro ostilità a chi aveva governato prima. Sono abbastanza sicura che non abbia grandi possibilità di consolidarsi. Ne parliamo la prossima volta”.
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