Mariarosa Mancuso in diretta dalla croisette
Appunti dal festival di Cannes - E' arrivato Indiana Jones (e non solo)
La critica cinematografica del Foglio Mariarosa Mancuso continua a raccontare le pellicole in concorso (e non) al festival francese del cinema. Oggi "Eldorado" di Bouli Lanners, l'attesissimo "Indiana Jones and the kingdom of the crystal skull" di Steven Spielberg, "Le silence de Lorna" dei fratelli Dardenne e "Serbis" di Brillante Mendoza.
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ELDORADO di Bouli Lanners, con Bouli Lanners (Quinzaine des Réalisateurs)
Il Belgio non è solo fratelli Dardenne. Qualcuno – parlando di cinema, non stiamo gareggiando con i pregiudizi che il killer irlandese Colin Farrell sfodera nel film “In Bruges – La coscienza dell'assassino” – sa far tesoro di perfetti tempi comici. Applicati, in “Eldorado”, alla più consunta delle situazioni: balordo incontra balordo, e insieme si mettono in viaggio a bordo di una Chevrolet del 1979, nel piattissimo paese cantato da Jacques Brel, inquadrato in cinemascope come una prateria western. Ma non si dà luogo comune che un regista bravo non sappia far tornare come nuovo. Assieme a Edouard Baer (maestro di cerimonie della serata inaugurale, dove abbiamo ritrovato in splendida forma Claude Lanzman, assente alla Fiera del Libro di Torino per gravi motivi di salute), il regista, sceneggiatore e attore era in una commedia tarantinesca ma gentile vista l'anno scorso a Locarno, “J'ai toujours rêvé d'être un gangster” di Samuel Benchetrit. Identico lo spunto: una rapina che va male. L'eroinomane Elie cerca di scassinare l'appartamento di Yvan (molto somigliante a un puffo, per restare tra le glorie nazionali della nazione belga). Si infila sotto il letto, patteggia, chiede soldi, poi un passaggio, poi compagnia per incontrare i genitori che non vede da tempo. Budget ridicolo, idee per tre film, neanche un passo falso.
INDIANA JONES AND THE KINGDOM OF THE CRYSTAL SKULL di Steven Spielberg, con Cate Blanchett, Harrison Ford (fuori concorso)
Non ne sentivamo la mancanza al punto da invocarne il ritorno – in questi 19 anni abbiamo avuto molti altri amori cinematografici – ma non sta bene voltare le spalle all'eroe con cappellaccio e frustino che nei “Predatori dell'arca perduta” strappò l'applauso sparando all'arabo che dava spettacolo con la sua scimitarra. Interrompendo, con il brutale gesto, una politica di pari opportunità e di relativismo culturale verso i nemici. In “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” vediamo magnifici inseguimenti, discese dalle rapide, formiconi giganti, templi di antiche civiltà, esperimenti nucleari (la storia è ambientata nel 1957, in piena guerra fredda). Niente però che possa fare il paio con la mitica scena. Indiana Jones è un po' invecchiato, ma come dice Shia LaBeouf – giovane studente di archeologia e forse suo figlio, brillantina e giubbotto in pelle marca Marlon Brando – “non combatte niente male per la sua età”. Cate Blanchett è una sovietica dalle sguardo gelido, appassionata di paranormale.
LE SILENCE DE LORNA di Jean-Pierre e Luc Dardenne, con Arta Dobroshi, Jérémie Regnier (concorso) Sono a caccia della terza Palma d'Oro, i fratelli belgi. E finalmente a qualcuno tra i supporter sfegatati – purché protetto dall'anonimato, i “qui lo dico e qui lo nego” ai festival sono la regola – scappa di bocca il mugugno: “Fanno sempre lo stesso film”. Il grande avvenimento di “Le silence de Lorna” consiste nel cambio di macchina da presa, da una super 16 millimetri a una 35. Variazione appassionante quanto una pastiglia di Tavor, eppure commentata dal diabolico duo con toni lirici: “Eravamo interessati al peso e all'inerzia del nuovo strumento”. Lo spettatore già sbadiglia prima che la storia cominci, cupa e triste. Poiché siamo in un film dei Dardenne – equivalente cinematografico della legge di Murphy – sappiamo che tutto quel che può andar male andrà malissimo, e il resto sarà catastrofe. Lorna, albanese, sposa un drogato belga per avere la cittadinanza, con la speranza che muoia presto. Ma lui si disintossica, quindi bisogna ucciderlo con un'overdose. Per sposare un russo, passandogli la cittadinanza appena conquistata, e con i soldi guadagnati mettere su lo snack bar dei propri sogni assieme al fidanzato vero.
SERBIS di Brillante Mendoza, con Gina Pareño, Julio Diaz (concorso)
Consigli a un giovane regista, di cinematografia appartata, che voglia un posticino in concorso a Cannes. Bastano due cose: un cinemino, con proiettore rumoroso e possibilmente sguarnito di clienti, e un pompino inquadrato a schermo intero. Combinati, tirano la volata al filippino Brillante Mendoza. Il pidocchietto, dalle pareti scrostate e con i cessi intasati, fornisce quel tocco di metadiscorso e di autoreferenzialità che sulla Croisette sempre si porta. Il pompino – ovviamente Artistico e non Gratuito – è merce ancor più richiesta da un festival che voglia sollazzare il critico-di-tendenza, sempre pronto a dibattere la delicata faccenda con i colleghi beceri. Qui, per amor di completezza, andrebbe discusso anche lo statuto – sublime poesia o inutile disgusto? – del gigantesco foruncolo che campeggia sul culo di un giovanotto. Viene fatto scoppiare (con l'aiuto di una bottiglia) prima della fine del film: non il classico “The End”, ma la pellicola che prende fuoco nel proiettore. “Serbis” sta per “servizio” o meglio “servizietto”, dato il tipo di prestazioni fornite dai ragazzetti in sala agli spettatori, nelle varie tipologie da checca a supermacho. Rumore assordante e scale salite o scese in tempo reale completano il quadro d'autore.
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