Trent'anni dopo

Dimenticare la 194 e combattere l'aborto

Giuliano Ferrara

A pochi giorni dall'assassinio di un leader cattolico in un carcere del popolo, trent'anni fa un'Italia torva e malata approvò la legge 194 che autorizzava l'aborto in strutture pubbliche, a certe condizioni. Una legge che attribuisce allo stato e al suo sistema di “cura” il potere di eliminare esseri umani innocenti nel grembo delle loro madri ovviamente fa schifo come istituto di diritto e come gesto civile o etico. E' indifendibile.

    A pochi giorni dall'assassinio di un leader cattolico in un carcere del popolo, trent'anni fa un'Italia torva e malata approvò la legge 194 che autorizzava l'aborto in strutture pubbliche, a certe condizioni. Una legge che attribuisce allo stato e al suo sistema di “cura” il potere di eliminare esseri umani innocenti nel grembo delle loro madri ovviamente fa schifo come istituto di diritto e come gesto civile o etico. E' indifendibile. Eppure la legge era inevitabile. Perseguire penalmente una donna che interrompa la gravidanza equivale a imporre il modello inaccettabile e oscurantista del parto forzoso, che viola l'integrità individuale di una persona e del suo corpo in nome, magari, dell'integrità della stirpe. Le tragedie sono poi questo, in sostanza: c'è una cosa orrenda che deve avvenire, tutti conoscono la sua mostruosità, ma è inevitabile che avvenga. Quando in rivolta contro la pratica dell'aborto clandestino, e in nome della salute e autonomia vitale delle donne in “cura” dalle mammane, fu sollevato il problema, quell'esito legislativo non poteva tardare, era l'ora dell'emersione dell'aborto in pubblico e della funzione del boia codificata per il medico. E fu una grande ondata che in modi diversi travolse l'intero occidente. Fu il decennio, gli anni Settanta della sentenza americana sull'aborto come privacy e delle legislazioni europee, in cui la vita umana cominciò in modo diffuso e chiaro, su grande scala, a essere considerata qualcosa da, appunto, “curare” con dosi massicce e volontarie di morte irrogata unilateralmente e dispoticamente: fu allora, come ha detto Joseph Ratzinger in una vecchia conferenza all'Accademia di Baviera, che “vennero dichiarati eretici amore e buonumore”.
    Quella tragedia va compresa, ricordata come stiamo cercando di fare da mesi, va riconsiderata e rigiudicata, ma va anche paradossalmente “dimenticata” o rimossa. Quella legge va cancellata dal nostro orizzonte mentale. C'è, esiste, opera ogni giorno, è un tabù, è una soluzione di welfare comoda e gratuita alla quale nessuno intende rinunciare come eventualità, come scappatoia dai guai dell'esistenza, come procedura semplice ed egocentrata di benessere e di libertà di comportamento. Nessuno vuole rinunciarvi, non i maschi giovani, non i padri preoccupati, non le ragazze, non le donne e le madri, nessuno, nemmeno tanti preti e suore, nemmeno tanto personale sanitario cattolico. La gerarchia cattolica poi la sa lunga, e non ci pensa nemmeno di andare oltre la petizione di principio, la condanna virtuale, non ci pensa nemmeno a replicare l'ordalia del referendum perduto nel 1981. La gerarchia mostra, ma tremando, e lo si capisce, di aver scelto la strada di un compromesso in cui la legge si rispetta ma si applica, si interpreta, si curva a una mentalità antiabortista. E intanto qualche progressista buontempone le attribuisce addirittura la magica capacità di far diminuire gli aborti, giocando con i numeri e con la confusione tra il post hoc e il propter hoc, una generica successione e una concatenazione causale. Il problema però è che quella legge, la sua vigenza, non impedisce a nessuno di comportarsi rettamente, di essere intelligente e generoso, fantasioso e semplice. Non impedisce a nessuno di guardare in faccia la realtà di questi trent'anni, il maltrattamento generalizzato della vita umana a cui siamo approdati, la società dell'esclusione dalla città umana per ragioni biologiche, la società della selezione eugenetica, la messa fuori legge morale dei malati sfuggiti alla diagnosi di annientamento prenatale, la medicalizzazione del corpo della donna, l'estensione dell'aborto dalla pancia femminile alla neutra provetta, la confezione autorizzata di un figlio che faccia da strumento per la cura di altri bambini, la convivenza con la pianificazione familiare omicida e sessista delle tirannidi asiatiche in forte crescita economica e politica, e anche della grande e tragica democrazia indiana.
    Insomma: la 194, legge fatta o comunque autorizzata e promulgata da cattolici e da comunisti contro libertari e radicali, non deve essere e non può essere l'alibi per girare intorno all'aborto, per sottilizzare pro o contro, per perdersi nei dettagli, per ideologizzare, la 194 può essere virtualmente cancellata, nel momento in cui la si rispetta e la si applica, e la si sottrae al tradimento delle sue premesse di “tutela sociale della maternità”. Ma in pari tempo si può e si deve, trent'anni dopo, mancare di rispetto all'aborto. Questo è il problema. L'aborto è un fenomeno mondiale miliardario, un tratto di disperazione capace di avvilire e oscurare il senso di un'intera epoca della storia umana. Chi l'ha detto che mettere un argine all'aborto clandestino, che autorizzare a certe condizioni (disattese ampiamente) l'esercizio di una facoltà liminare e d'emergenza, cioè interrompere volontariamente una gravidanza, vuol dire accettare l'aborto, la sua logica, la cultura eugenetica, la selezione della razza, la rinuncia alla cura e alla ricerca per la cura, chi l'ha detto che l'aborto è un diritto, quando molto chiaramente è una spaventosa tragedia collettiva e individuale?
    Dare nome e sepoltura ai “rifiuti speciali ospedalieri”, cioè ai figli rigettati nelle discariche asettiche della nostra mentalità omicida. Risorse per un “piano nazionale per la vita”, come abbiamo detto noi e ha detto il premier in Parlamento. Combattere le cause materiali dell'aborto, intanto accertando perché si abortisce, individuando la vera natura del fenomeno senza l'ipocrita appello alla privacy, e di tutto questo sembrerebbe essersi convinto il Capo dello Stato dopo la lettera di risposta a Sandra, la precaria di Napoli che ha esposto il dramma molto diffuso dell'aborto per penuria e ansia e solitudine sociale. Le misure ci sono. Ormai le parole per la guerra culturale necessaria ci sono. L'aborto è primitivo, arcaico, barbarico, è indegno del nostro concetto di libertà individuale e di vita. Va combattuto e vinto, trent'anni dopo. La 194 non c'entra.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.