Dopo la sconfitta ai rigori
Il Grant slam
Avram Grant ha lo sguardo da giocatore di poker. Basso quando ha le carte in mano, poi su a leggere i volti degli altri. Buio. Calcola: il colore batte il full, all'italiana. Con quello che ha Avram è all'ultimo piatto. Campionato e Champions: tutto o niente, come sempre. Chelsea-Manchester, Manchester-Chelsea. La gira come vuole, trova sempre lo stesso avversario. Allora le carte, il sangue freddo, la fortuna. Il pallone visto dalla panchina è un po' come il tavolo.
Dal Foglio di domenica 11 maggio 2008:
Avram Grant ha lo sguardo da giocatore di poker. Basso quando ha le carte in mano, poi su a leggere i volti degli altri. Buio. Calcola: il colore batte il full, all'italiana. Con quello che ha Avram è all'ultimo piatto. Campionato e Champions: tutto o niente, come sempre. Chelsea-Manchester, Manchester-Chelsea. La gira come vuole, trova sempre lo stesso avversario. Allora le carte, il sangue freddo, la fortuna. Il pallone visto dalla panchina è un po' come il tavolo. Vedi verde: devi capire che cos'ha l'altro prima di scoprirti. Cip. Grant è uno di quegli allenatori che sono arrivati tardi e che forse non sarebbero arrivati più: ha avuto culo, è capitato a Londra, ha contattato le persone giuste, ha sorriso a comando, ha trattato sotto traccia, è stato zitto, ha bluffato. E' rimasto in vita con un gruzzolo sufficiente per arrivare alla fine: l'amicizia, la protezione, i contatti. Le fiches della carriera non si esauriscono mai. E' rimasto lui: odiato, minacciato, indifeso, silenzioso. Vincente, ora. L'ultima mano è sempre così: arriva per caso, il giocatore esperto e il vecchio trombone, silenzioso, avido ma sconosciuto. Nessuno sa chi sia davvero Avram: l'hanno scoperto per sbaglio il 20 settembre dell'anno scorso, quando fu scelto per sostituire Mourinho. Il massimo della nemesi per José: lo speciale rimpiazzato dal normale, quello che apriva gli ombrelli prima che piovesse contro uno che nell'immaginario collettivo avrebbe potuto essere al massimo l'autista di Mourinho. I giornali inglesi a caccia di uno straccio di curriculum, si misero a scavare ovunque: a Tel Aviv, a Petach Tivka, ad Auschwitz, poi a Portsmouth. Chi è? Che fa? Da dove viene? La moglie, sì la moglie: più famosa di lui. Famosa perché beve la sua pipì.
Grant pareva un fantasma. Oscuro per uno sguardo con due borse così sotto gli occhi, oscuro anche per questo passato da mister di secondo livello, oscuro perché nessuno aveva ben capito perché Abramovich se lo fosse portato a Londra. Tutti zitti, adesso. Zitto anche il vecchio deputato conservatore David Mellor, che non sopportava l'idea di avere sulla panchina del Chelsea un ebreo israeliano: “Abbiamo toccato il fondo del barile”. Mellor ha smesso di parlare e di scrivere, da un po' non arrivano neanche quelle lettere minatorie che hanno accompagnato i primi mesi di Grant a Londra. Nessuno chiede scusa e nessuno però adesso si permette di criticarlo più. Grant tiene le carte in mano, ha già pescato dal mazzo: può perdere il campionato per la differenza reti, si gioca la Champions. A Mosca con Abramovich praticamente a casa e con José che lo guarderà storto da qualche hotel di lusso. Perché è sicuro che lo guarderà, anche se adesso fa tutto il sostenuto e dice di no. Starà lì con gli occhi sulla tv, pronto a vedere la bandiera che si agita. Allora si ricorderà che Avram se ne stava una fila sopra di lui ogni partita: sotto la panchina e un metro più su la tribuna con Grant e gli altri detestati da Mourinho. “Colpa sua se mi hanno cacciato. E' un portafortuna”. Non ha mai saputo perdere, Josè. Non l'ha fatto neanche con questo signore che a qualcuno ha ricordato perfino Oronzo Canà: un po' perché non si capisce bene se abbia un modulo di gioco o se punti tutto sulla migliore formazione possibile, un po' per quella gavetta lunga e lontana dal calcio vero.
Israele è la periferia pallonara: nessuno ti vede, nessuno ti considera, nessuno ti cerca. Avram non ha neanche giocato tanto: è nato allenatore, praticamente. Ha cominciato appena maggiorenne, quando ha preso i ragazzini dell'Hapoel Petach Tikva. Quattordici anni con i giovani, poi nel 1986, promosso allenatore della prima squadra: due vittorie finali nella Toto Cup, nel 1990 e nel 1991, e il ritorno dell'Hapoel Petach Tikva nell'élite del calcio israeliano dopo quasi 25 anni. Nell'ultima stagione perse il campionato e la Coppa d'Israele in tre giorni a vantaggio del Maccabi Haifa. L'anno dopo il club vinse il primo trofeo maggiore dopo 30 anni, conquistando la Coppa d'Israele. Nella stagione successiva Grant fu ingaggiato dal Maccabi Tel Aviv: campione con tredici punti di vantaggio sulla seconda e finale di Coppa d'Israele. Nel 1994 Coppa e nel 1995 un altro scudetto. Poi all'Hapoel Haifa: quarto in campionato. Nel 1997 di nuovo al Maccabi Tel Aviv, fino al 2000. Poi Maccabi Haifa e nel 2002 commissario tecnico della nazionale israeliana al posto del danese Richard Møller Nielsen. Sottobosco, sobborgo, margine. Trentasei anni dopo si ritrova il massimo del massimo: Ballack, Terry, Essien, Cole, Drogba, Shevchenko. Tutta gente che a quanto pare lo detesta. E' lo spogliatoio che gli ha cambiato il nome: lo chiamano “Grunt”, per quel broncio che tiene sempre incollato nonostante le vittorie e nonostante la possibilità di passare alla storia per quello che al suo predecessore José non è riuscito: vincere la Champions.
Eppure non va. Arrivano spifferi di veleno, da Londra. Voci e maldicenze: “Usa metodi di 25 anni fa”. Evidentemente funzionano e nessuno osi dire il contrario. Evidentemente funzionano, perché qualcuno s'è andato a prendere il fastidio di controllare il libretto di accompagnamento delle partite del Chelsea: a settembre conteneva almeno 65 volte la parola Mourinho. Quello che sarà distribuito oggi a Stamford Bridge ne avrà soltanto una, nella mini biografia di Salomon Kalou: “Sono arrivato a Londra perché mi ha voluto il mister Mourinho”. Punto. E basta, per Grant che comunque finisca questa stagione rischia di vedersi togliere il giocattolino: il Chelsea prenderà Rijkaard, dicono quelli che capiscono di mercato. La squadra non vuole Avram, indipendentemente dai risultati.
Eppure c'è qualcosa che non funziona, perché se vincesse la Champions League sarebbe complicato mandarlo via. C'è che Abramovich lo terrebbe in nome di un'amicizia recente ma forte. Questo è il segreto che nessuno racconta e che tutti conoscono. E' la ragione del licenziamento di Mourinho e anche della fortuna di Avram: un annetto e mezzo fa conobbe Lev Leviev, il re uzbeko dei diamanti. Leviev è amico di Abramovich e anche di Alexandre Gaydamak, il franco-russo proprietario del Portsmouth. Triangolazioni. Avram le adora da sempre. Uno-due, uno-due: in campo e ovviamente anche fuori. E' la rete, cioè quella serie di contatti che il mister del Chelsea coltiva da sempre. E' così che è arrivato: il biglietto per l'Inghilterra aveva una tappa a Portsmouth, dove ha fatto il direttore tecnico della squadra allenata da Harry Redknapp. E quest'anno Londra. Tutto previsto, voluto e cercato. Tutto contestato dai suoi nemici che non hanno mai smesso un secondo di attaccarlo. Lo accusano di essere uno che gioca sporco, una specie di lacché capace di fare carriera sempre e solo grazie al suo network. Raccomandato, gli hanno detto un sacco di volte. Gli rinfacciano le amicizie potenti, i modi da affabile con i grandi e da stronzetto con i più deboli. Con lui ce l'ha a morte Shlomo Scharf, l'ex commissario tecnico della nazionale israeliana. Grant prese il suo posto, qualche anno fa. Shlomo non ha mai gradito: “E' un illusionista, uno incapace di costruire un suo modo di giocare, ma bravo a spacciare quelli degli altri per suoi”.
Anche l'Inghilterra s'è riempita presto di detrattori. Come l'ex calciatore del Chelsea Pat Nevin: “Grant sarebbe il benvenuto nello spogliatoio dei Blues come Camilla sulla tomba di Lady D”. Sì? Eppure da settembre a oggi mister Grant ha fatto ritornare il Chelsea una squadra vera. Lo odiano? Però adesso giocano. Il problema allora è secondario e forse il problema non c'è affatto. Anche Mourinho non era simpatico, però vinceva e quindi funzionava. Con Avram dev'essere lo stesso: per correttezza, per rispetto. Per calcio. “Io ero ottimista, lo sono sempre. Se non lo sei, non fai sport”. Grant parla poco e malvolentieri. Detesta i giornali, detesta chi li scrive. Il giorno dopo la vittoria contro il Liverpool nella semifinale di Champions League lo cercavano tutti, lo volevano tutti. “Mi dispiace, ma io non parlo, non mi interessa. Oggi ho da fare cose più importanti, vado ad Auschwitz con la mia famiglia”.
Avram è figlio di Israele. E' figlio dell'Olocausto. Il padre fuggì nel 1941 dalla Polonia occupata dai nazisti. Andò in Russia e vide tutta la famiglia morire di fame e freddo in Siberia. Grant tiene una foto dei familiari sempre con sé: fedele a un ricordo che non si cancella. Ogni anno il 30 aprile prende l'aereo e torna ad Auschwitz. Perché è un simbolo, perché è la storia. Ai figli Daniel e Romi racconta sempre le storie che gli ha raccontato il padre: “Aveva 15 anni quando fuggì dalla Polonia. Ha scavato personalmente le fosse per seppellire i corpi dei suoi familiari. Nonostante tutto questo mio padre è rimasto un ottimista, uno che ama la vita. Ma ancora adesso mi dice sempre che quando va a letto e chiude gli occhi rivede quella foresta gelata della Siberia”. Su questo Londra ha imparato a rispettarlo. Si sono perse le tracce di quel gruppetto di antisemiti che aveva chiesto al Chelsea di farlo fuori. Sono sparite le minacce. Avram regge a Stamford Bridge. Non si sa per quanto, ma regge. Mosca sarà decisiva. Dentro o fuori, come a poker. Regge anche all'urto dei tabloid che lui l'hanno lasciato un po' in pace, ma si sono divertiti molto con la moglie, Tzofit, una delle signore della tv israeliana. Eccentrica, forte, scorretta. Famosa per Milkshake, il programma nel quale lei è la star assoluta. In una puntata ha affrontato un dominatore sadomaso. Lui prima l'ha sculacciata e poi l'ha incitata a colpirlo in faccia. La signora Grant gli ha risposto: “Non riesco a trovare la forza”. E quello: “Pensa ad Avram”. Tzofit ha cominciato a picchiare. Uno, due, tre schiaffi. I giornali godono e un po' anche lei che a differenza del marito adora apparire, parlare, raccontare. Tipo: è lei che dice tutto sulla loro storia: si sono conosciuti quando lui aveva 37 anni e lei 27. Si sono sposati tre mesi dopo l'incontro. Anche lei è di Petach Tikva, cittadina nei dintorni di Tel Aviv, dove Grant ha guidato la sua prima squadra. “All'inizio non l'ho seguito in Gran Bretagna per continuare gli show televisivi e i giornali israeliani hanno parlato di una crisi nel nostro matrimonio. Avevamo passato divisi le vacanze per la Pasqua ebraica”. Adesso Tzofit è a Londra. S'è trasferita, studia l'inglese e vuole cominciare una carriera da attrice. I giornali caricano. Il Times ha scritto: “Potrebbe essere il vero problema per lui e per la squadra”. E' un obiettivo facile facile. La storia è sempre quella della pipì: in Israele Milkshake è stato spostato dal mattino alla notte perché in una puntata lei bevve la sua urina mentre gli spettatori israeliani stavano facendo colazione. Le chiesero anche: bè, com'è? “Ha lo stesso sapore dell'acqua del Mar Morto”. Non è stata l'unica performance: lady Grant si è immersa con un ospite in una vasca di spaghetti al pomodoro. Poi un'altra volta ha fatto anche un bagno nel cioccolato per verificare se davvero facesse bene alla pelle. Al Sun, al Mirror, al News of The World, all'Evening Standard non aspettano altro. Mancava materiale. Arriva lei e c'è un sacco di roba: scrivono che ha fatto il servizio militare, come tutte le ragazze israeliane, e quindi è in grado di smontare e rimontare un fucile mitragliatore M16. Poi raccontano che è famosa anche per il suo impegno benefico: è madrina dell'associazione per la Salute mentale e in diretta alla televisione ha rivelato che il fratello Aviram soffre di schizofrenia – crede di essere il Messia. Per combattere e invitare a denunciare le violenze sessuali, ha confessato di quando a nove anni è stata molestata da un vicino di casa. Ma la storia più bella l'ha raccontata il giornalista sportivo Shaul Adar: “Una volta ero seduto vicino a lei ed era quella che urlava di più in tutto lo stadio. Anche contro Avram. Se sbagliava, si univa ai cori e lo insultava: ‘Fai qualche cambio, brutto bastardo'”.
Tzofit è la nuova Nancy Dell'Olio. Avram non vuol essere il nuovo Eriksson. Non che Sven non gli piaccia. Solo che non vuole le seccature che ha avuto lui in Inghilterra: gli hanno contato i chilometri che faceva ogni anno, gli hanno tenuto sotto controllo i conti in banca e tutte le uscite con segretarie e dipendenti varie della football association. E però Eriksson resta un punto fermo per Grant. E' uno di quelli che ha seguito di più quando è venuto in Europa per un corso d'aggiornamento qualche anno fa. Allenava la nazionale israeliana e cominciò a girare l'Europa a caccia di un'ispirazione. Frequentò Alex Ferguson e Sven. Persino José Mourinho, che all'epoca stava al Porto e lo ospitò un paio di giorni agli allenamenti. L'idolo, però, è Sacchi. Per quello che ha dato, per quello che è stato, perché condivide il passato da calciatore dilettante e spera di condividere quello da allenatore di successo. S'ispira. “La storia di ogni grande squadra inizia con una serie di dubbi. Guardate l'Arsenal all'arrivo di Wenger o il Man U all'arrivo di Ferguson. Vi dico di più: quando Berlusconi decise di prendere Sacchi al Milan dalla B, qualcuno voleva ammazzarlo. Ma in quel momento la storia del Milan cambiò come sapete tutti. Ogni cambiamento ha bisogno di tempo”.
L'autopromozione non è la specialità. Gli manca la verve, gli manca il sorriso. Grant è più efficace quando fa lo scontroso: “Il calcio è molto più semplice di quanto la gente possa pensare Ma devi avere delle qualità morali, devi essere una persona positiva”. In trenta secondi distrugge Mourinho come persona, prima che come mister: quello si dà tante arie, si fa chiamare “the big one”, però alla fine questo sport è una palla, quattro pali, due traverse e ventidue ragazzi in calzoncini. Il che funziona quasi sempre. Quasi perché il Chelsea forse è l'unica squadra che nasce al contrario. Mediatica, televisiva, globale. Complicata. “Avram in quel posto è come Neil Armstrong quando tocco per la prima volta il suolo della Luna”. Parlano sempre i simpatici nemici, pronti a metterlo in crisi a ogni occasione buona. O cattiva. Quelli che lo stuzzicano sulla vicenda del patentino. Perché Grant è arrivato alla finale della Champions League, ma non può allenare in Europa. Gli manca la licenza Uefa. Formalmente allora il mister è Steve Clarke. E' un bluff, come a poker. Comanda Grant oppure il caso. Comunque il pallone. E poi la finale è a Mosca: Abramovich, Leviev, Gaydamak. La rete e le triangolazioni. Se uno vince che vuoi che sia un patentino.
Il Foglio sportivo - in corpore sano