Dal Foglio del 28 marzo 2007
Non riusciamo a venir via da Cogne
Sono passati più di cinque anni e l'eccitazione non è diminuita mai, nemmeno un istante. Cinque anni dall'omicidio di un bambino molto piccolo in un posto di montagna, Cogne, cinque anni di chiacchiere pubbliche e processi alla madre, Annamaria Franzoni: è lei l'unica accusata di quella morte.
Dal Foglio del 28 marzo 2007.
Roma. Sono passati più di cinque anni e l'eccitazione non è diminuita mai, nemmeno un istante. Cinque anni dall'omicidio di un bambino molto piccolo in un posto di montagna, Cogne, cinque anni di chiacchiere pubbliche e processi alla madre, Annamaria Franzoni: è lei l'unica accusata di quella morte (provocata da uno scatto d'ira violentissima, un mestolo sulla testa, o forse un pentolino di rame, ha detto ieri il procuratore generale, e ha chiesto in appello di nuovo trent'anni di reclusione senza attenuanti, come nella sentenza di primo grado). E' la storia di un possibile figlicidio, difficile da ignorare anche per chi si rifiuta di guardare disegni di zoccoli insanguinati. E' diventata un'ossessione pubblica perché non è mai stata liberata da una confessione, e dentro ci sono mille storie di oggetti usati forse come armi per uccidere, mille frasi analizzate per provare la colpevolezza, l'innocenza, anche la complicità dei familiari, mille pensieri su una faccia dolce di madre che ha subito fatto un altro figlio, è andata dappertutto a raccontare la propria innocente disperazione, è stata fotografata in Sardegna d'estate in costume come una vip qualsiasi. Da cinque anni ne parlano tutti, con interesse totale, conoscono i particolari più terrificanti, danno volentieri la propria interpretazione dei fatti e aspettano il finale, la catarsi: il plastico della casa di Cogne, con il letto matrimoniale in miniatura e uno psichiatra che interpreta i disagi delle madri e la messimpiega per il funerale, non è certamente solo Porta a Porta in versione supertrash, è ovunque. Tutta l'informazione più seria, più istituzionale, non ha evitato di raccontare e di illustrare a colori, da capo, per la milionesima volta, la storia di quella mattina, le lacrime di quella signora, il potente cerchio d'acciaio che la famiglia le ha stretto intorno, subito, per proteggerla, il calcolo dei minuti necessari per arrivare fino alla fermata dell'autobus.
L'eccitazione non scende perché è stata alimentata da un circo formidabile, ma soprattutto perché si tratta dell'orrore dentro casa, e allora riguarda tutti: è una storia di famiglia, qualcosa che si può conoscere e perfino spiegare. Perché intanto cresce la percezione che sia la famiglia il posto più mostruoso del mondo, quello dove avvengono gli ammazzamenti, le torture, le violenze, le stragi, il luogo dove si diventa pazzi e si matura l'orrore. Molti giornali l'hanno scritto: la famiglia fa più vittime della mafia, la famiglia uccide continuamente, tutti i giorni. Nel 2005 sono avvenuti seicentodue omicidi, secondo il Servizio analisi criminale del ministero dell'Interno. In centosettantaquattro casi i delitti sono stati ritenuti di natura domestica, familiare: è meno di un terzo ma sembra l'assoluto. Ottantasette donne uccise “all'interno del nucleo familiare” (però sedici di questi omicidi sono stati commessi da fidanzati non conviventi, o da ex), che diventano tutte le donne del mondo massacrate dai parenti, e mostrano come il sangue non sparga nient'altro che sangue. Ma è come urlare che ci si ammazza sotto il cielo, che si muore sulla terra, che la vita è tanto difficile. Una famiglia è come il condominio, è come la piazza, è un pezzo di mondo dove succedono anche cose terribili, perché è lì che succede la vita. E' soprattutto l'universo che conosciamo tutti, da sempre: la televisione accesa la mattina presto, la colazione sul tavolo, i minuti che mancano per essere in ritardo al lavoro, il bambino che non vuole dormire o che non vuole alzarsi, il mal di testa. E' l'unico posto dove la vita nasce, sempre. E' uno dei molti posti dove, purtroppo, a volte la vita finisce.
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