Mariarosa Mancuso in diretta dalla croisette

Che Guevara dalle Orsoline

Mariarosa Mancuso

"Che" di Steven Sodebergh; "La frontière de l'aube" di Philippe Garrel; "Adoration" di Atom Egoyan e O' horten di Bent Hamer.

    CHE di Steven Soderbergh, con Benicio del Toro (concorso)
    Nell'intervallo hanno distribuito il cestino della merenda. Tramezzino, bottiglia d'acqua dello sponsor, barretta energetica di nota multinazionale: il minimo indispensabile per riprendersi da “Che Guevara a Cuba” e attaccare “Che Guevara in Bolivia”. Quattro ore e mezza in totale. La rivoluzione minuto per minuto, solare ai Caraibi e verdastra in America Latina, ma sempre senza tagli. I paesani si presentano, vengono selezionati, gridano “patria o muerte”, negli intervalli tra una sparatoria e l'altra si siedono sui banchi di scuola. Più che un esercito messo insieme da Fidel Castro per combattere Batista, sembra la scuola delle Orsoline. Si fanno deragliare i treni carichi di armi, si danno ultimatum (“altrimenti vi riterrò responsabili dei morti a cui spariamo”, spiega il Che tra il plauso generale), ma guai se quattro ragazzotti rubano una macchina, saranno costretti a restituirla. Benicio del Toro ha investito soldi suoi, quindi compare in tutte le scene: con il basco, senza basco, durante il discorso del 1964 all'Onu, con il piumino da cipria prima di un'intervista tv. Sì, gli somiglia. No, non basta per star svegli.

    LA FRONTIÈRE DE L'AUBE di Philippe Garrel, con Louis Garrel (concorso)
    Quante volte ancora Philippe Garrell intende raccontare i sette anni trascorsi con Nico, la cantante dei Velvet Underground (in copertina, c'era la banana di Andy Warhol)? O lei o il 67 + 1: sono queste le fissazioni del regista francese, monomaniaco come un personaggio di Nick Hornby. La prima scena rituffa nell'incubo intitolato “Les amants réguliers”: Louis Garrel – il suo signor figlio, di bell'aspetto e lanciatissimo ma espressivo come una patata – con riccioli e camicia bianca suona a un portone. Fotografa un'attrice bionda, dopo due scatti sono sotto le lenzuola. Ella però beve, forse si droga, finisce in manicomio dove viene sottoposta, oggi, a un elettrochoc peggiore di quello che tocca a Angelina Jolie (nel film di Eastwood e nella Los Angeles del 1928) e muore suicida. “Violon” sta scritto nei titoli di testa, in bianco e nero come il film, e sviolinate saranno. Appena lui si fidanza, la morta compare nello specchio – qualche risata in sala – e gli sussurra “vieni via con me”.

    ADORATION di Atom Egoyan, con Scott Speedman, Arsinée Khanjian (concorso)
    L'armeno-canadese era bravissimo, da tempo perde colpi. Volendogli dare un consiglio, non sapremmo da che parte cominciare. Magari, stare alla larga dal genere: “Brevi cenni sull'universo”. “Adoration” è insieme una storia di terrorismo, la realtà e la finzione, l'arte e la vita, gli ebrei e i musulmani, la mamma violinista morta, lo zio che ti cresce, il tassista pazzo, i grandi pericoli di Internet sui ragazzini senza padri, le insegnanti con un piano educativo, le visitatrici misteriose con maschere d'argento e fessura per gli occhi. Il dibattito si svolge via chat, quindi per molti minuti fissiamo facce parlanti su uno schermo a finestrelle.

    O' HORTEN di Bent Hamer, con Bård Owe, Henny Moan (Un certain regard)
    Sembra di stare a “Innamorato fisso”. Il passatempo di Cannes 2008 è ascoltare il ciuf ciuf delle locomotive. Facoltativo, rispondere a domande sul tipo di motrice, l'anno di costruzione, il numero di ponti di questa o quella linea ferroviaria. Ascolta per diletto un disco di greatest hits da strada ferrata il protagonista di “Settimo cielo”, girato dal tedesco Andreas Dresen. Ecco perché la moglie, sarta a domicilio, passa i pomeriggi a letto con un arzillo settantenne (galeotta fu la misurazione di un pantalone). Qui, il locomotiva quiz correda la cena per il pensionamento di Odd Horten, dopo una sequenza iniziale – alla guida di un treno, una galleria dopo l'altra nella neve – che fa dire a tutti: “Da grande voglio fare il macchinista”. L'uomo è alto e serio, con scatti alla Tati. La Norvegia di Bent Hamer somiglia alla Finlandia di Kaurismaki. Si adottano cani, si esce dalla piscina con un paio di stivaletti rossi con il tacco, si incontrano ragazzini che suonano la batteria e con tamburi e piatti imitano perfettamente il ruomore di una locomotiva, si vedono signori con venttiquattrore scivolare senza slittino sulle strade ghiacciate. Dal regista di “Kitchen” (ispettori svedesi in cucine norvegesi, per calcolare quanti chilometri fa una casalinga) e di “Factotum”, vita di Charles Bukowski con Matt Dillon.

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