Memorie di Telekabul

Stefano Di Michele

E' quello l'elmo? “Proprio quello”. Proprio quello è il copricapo di un milite ignoto iracheno, esercito di Saddam, prima guerra del Golfo, inizio anni Novanta. Esercito da operetta, come sempre sono tutti gli eserciti che vanno “a spezzare la schiena” a qualche altro paese – nel caso specifico il Kuwait. Nel deserto s'avanza dunque questo povero carro armato senza arte né parte, senza meta né disposizioni. Si trova davanti un camioncino, uno di quelli che ai semafori non mettono pensiero neanche ai pensionati. Lesti, gli iracheni tirarono su le braccia.

    E' quello l'elmo? “Proprio quello”. Proprio quello è il copricapo di un milite ignoto iracheno, esercito di Saddam, prima guerra del Golfo, inizio anni Novanta. Esercito da operetta, come sempre sono tutti gli eserciti che vanno “a spezzare la schiena” a qualche altro paese – nel caso specifico il Kuwait. Nel deserto s'avanza dunque questo povero carro armato senza arte né parte, senza meta né disposizioni. Si trova davanti un camioncino, uno di quelli che ai semafori non mettono pensiero neanche ai pensionati. Lesti, gli iracheni tirarono su le braccia, arrendendosi, nientemeno, a una troupe del Tg3: i saddamiti a mani alzate davanti ai curziani, gridando: “Italia! Italia!”. Come storia pare piuttosto da inserto satirico, uno splendido pretesto per una puntata del nuovo programma serale di Serena Dandini – quando arriverà e manderà a dopo mezzanotte tanto il telegiornale quanto la mesta scenografia (ma perché non si fanno prestare, per dire, divani con le mappette da Anna La Rosa?) di “Primo piano”. “Saddam si arrende a Kojak”: come non pensarlo meraviglioso titolo d'apertura di un giornale? Ma la storia del carro armato è vera. Come è vero che quei soldati si arresero agli inviati del telegiornale di Sandro Curzi. Dentro il carro armato alcuni erano morti. Avevano in testa questi elmi giallognoli. “Poveracci, dovevano averli ammazzati con i gas”, dice Sandro Curzi. Quell'elmo, per anni è poi rimasto nel suo ufficio di direttore del Tg3. E da qualche tempo è qui, in una vasta stanza al settimo piano di viale Mazzini – piano nobile, piano di vertice, piano di beghe in alto grado – dove Curzi si è accampato come membro del cda della Rai. E quell'elmo, recuperato addosso a un poveraccio malamente crepato, dice tutta la gloria e tutta l'epica che fu il Tg3, quello della “gggente” e pure del “popolo dei fax”. “In tutto il mondo fecero vedere le immagini di un carro armato di Saddam che si consegnava ai nostri giornalisti”. Fu l'apice, il grande trionfo: non solo piazze, ma persino deserti; non solo masse occidentali, ma finanche coscritti orientali.
    Ma ciò che non fece arretrare Saddam, forse dovrà arretrare davanti alla Dandini: dove non giunse Baghdad probabilmente arriverà l'Ambra Jovinelli. E persino ora, quando scuote la testa perplesso per la situazione (e pure per un fastidioso catarro), il compagno Curzi non sa rinunciare, in una chiacchierata con il Corriere, a un paragone che chiama in causa la geopolitica piuttosto che il palinsesto: “Il ‘mio' tg è diventato la Beirut della Tv italiana”, e dai! E questa volta i fronti sono divisi, e l'antico direttore e la sua compatta redazione non la pensano più allo stesso modo – e se sarà lotta dura, pure lotta separata sarà. Ha visto lo spot che quelli del Tg3 hanno preparato contro l'idea di spostare “Primo piano” a mezzanotte, quando magari va la ronda del piacere, ma a parere di conduttori e redattori un programma giornalistico no. E lui, che dei tempestosi cronisti è stato direttore, ma pure qualcosa di più che direttore, non usa certo parole finte. “Anarchia, confusione, rancore...”. Di più: “Il bel viso di Bianca Berlinguer con la scritta: ‘cancellato'. Una cosa orribile”. E forse davvero, ventuno anni dopo – quando la destra, e che destra, torna al potere e Curzi sta facendo i pacchi per lasciare il suo ufficio a viale Mazzini, e una volta fuori non troverà neanche più il suo partito, liquefatto lo scorso aprile – la storia giunge al capolinea. Figurarsi: il Tg3 sempre lì sarà, con i suoi Mannoni pensosi e le sue Berlinguer incisive, ma sarà forse un telegiornale come tanti – il minimo possibile, per un telegiornale che è stato come nessun altro – giusto il capintesta della noiosissima sequela di tutti i figliocci regionali. La fine di Telekabul, la normalizzazione dove tutto resta un filino progressista, ma dove l'avversario non ha più bisogno di storpiarti il nome. E infatti Curzi lo ricorda come “il momento più bello della mia carriera da direttore”, quel giorno al congresso socialista di Milano, con l'occhio di Craxi che pareva ancora occhio di Dio, e tutti gli altri telegiornali accasati come emiri – studi e stanze e poltrone, mentre al Tg3 era toccato il sotterraneo, lo sgabuzzino, la cantina da tutti gli altri inutilizzata. E poi Mariolina Sattanino con giustificati motivi di soprassalto, quando file di bei topoloni si facevano vedere a passeggio per lo studiolo, unici visitatori con un minimo d'interesse per la malmessa redazione curziana. Giusto i sorci (e qualcuno di Botteghe Oscure) fino a quel momento gettavano lo sguardo distratto da quelle parti. Ma fu proprio allora, a mezzogiorno in punto, che tutto cambiò, “quando dal triangolo divino, da quella bocca che l'architetto Panseca aveva disegnato per l'occasione dimenticandosi che qualcosa di identico sta sui libri di scuola per illustrare il dio Moloch cui si sacrificavano esseri umani – rammenta, tra il teologico e lo scenografico, Curzi – dal palco dell'Ansaldo Giuliano Ferrara ci bolla come Telekabul”. Una consacrazione, per il Tg rosso, un balzo all'onore delle cronache. “Il tempio del potere, minato alle fondamenta, ci indica come la pala che gli scava il terreno sotto i piedi. Forse mai il Tg3 fu più popolare e importante di quel giorno”. Dice Curzi che Arturo Diaconale rivendicò una volta di essere stato lui per primo a bollare il suo tiggì come Telekabul sulle pagine del Giornale, “ma insomma, il mito di Telekabul nacque quel giorno” – quel giorno all'Ansaldo, mentre la redazione era più che altro intenta a schivare i sorci. Ha scritto ironicamente Bruno Vespa in “Rai, la grande guerra”, uno dei suoi volumi: “Arrivava un fax in redazione e Curzi gridava ‘la ggente ci scrive', arrivavano dieci fax e Curzi gridava al ‘popolo dei fax'. La piazza diventava il più importante soggetto politico italiano. E Curzi si rivela un autentico genio della comunicazione politica”. Curzi era comunista, macché: Curzi è comunista. Se uno va a curiosare sugli scaffali nella sua stanza a viale Mazzini, ecco che questa si fa rievocativa di quella di un qualunque segretario di federazione, di medio acculturamento, del glorioso Pci: ci sono gli “Scritti politici” di Togliatti nell'imprescindibile edizione degli Editori Riuniti, piazzata a rate nelle case di tutti i compagni, c'è la storia del Pci nella versione ufficiale di Paolo Spriano, falce e martello di travertino, il cappello dei compagni nordvietnamiti, l'elmetto degli operai dell'Eni – e pure, e questo sa di aggiornamento, il berretto della Cnn. E tiè!, un bustino di Stalin, “ma lì dentro c'era la wodka”. Perché il colpo di genio che consacrò il Tg3 e, soprattutto Samarcanda – dunque a ragione sospettarono i democristiani e i socialisti e persino i cauti pidiessini occhettini, convinti di arrivare alla vittoria in groppa alla gioiosa macchina da guerra – era in tutto e per tutto la riproposizione di un'antica pratica del Pci, tra l'attivo dei militanti e l'attivo cittadino. Qualcosa che nelle redazioni non si era mai fatto – e all'Unità meno che mai: molto si chiacchierava ma a nessuno veniva in mente di fare di testa propria o di scrivere la prima cosa che passava per la capoccia. Raccontò Curzi, rievocando i trascorsi di infaticabile militante, come partorì l'idea del programma affidato a Michele Santoro: “Mi ricordai quando ero giovane, tra il '45 e il '60, a Roma c'era una tradizione: tutti i giovedì alle 21 in tutte le sezioni del Pci si teneva una conferenza, un dibattito, dove la gente poteva intervenire, non solo gli iscritti, ma aperta al pubblico... Era così: il giorno prima c'era una riunione nella federazione romana del Pci dove chiamavamo gli ‘attivisti', quelli che tenevano l'idea del discorso, dove c'era uno preparato che spiegava il tema, tutti sentivano queste cose e andavano lì nelle piazze, c'era questo oratore e uno col microfono che girava in mezzo alle persone. Questa è l'idea iniziale. Perché non facciamo un talk show di questo tipo...”.
    Poi, tutto il resto – tutto ciò impiantato – è venuto da solo. Tanto è forte, il mito di Telekabul – persino adesso che a Kabul ci stanno gli americani e non più l'odiosa genìa dei talebani – che a distanza di anni e anni, ogni tanto questo grido risuona, quest'accusa si riaffaccia. Mica un decennio fa, ma a febbraio dell'anno scorso, la leader radicale Rita Bernardini, per una faccenda di mancata opinione della Rosa nel pugno sui Pacs al Tg3, tagliò corto: “Complimenti! Torna Telekabul!”. Per certi servizi su Prodi, disse la sua il leghista Roberto Castelli: “Degni di Telekabul”. Durante l'ultima campagna elettorale Lucia Annunziata è stata definita da quelli del Fronte sociale nazionale, dopo una sua intervista a Daniela Santanchè, “militante di Telekabul”. E appena tre anni fa il Secolo d'Italia assicurava i seguaci finiani: “Telekabul è sempre Telekabul” – e forse a qualche lettore del quotidiano di via della Scrofa la cosa faceva pure piacere, visto che una volta, a sorpresa, da un sondaggio venne fuori che il Tg3 dei comunisti era il telegiornale che più di ogni altro piaceva ai giovanotti missini. E pazienza, se ogni tanto Berlusconi dice di vedere un “elenco di menzogne da brividi”, tanto si registrano pure alcuni aggiornamenti, così che durante la recente visita di Ahmadinejad a New York c'è chi ha pensato di ribattezzare Teleteheran il tiggì oggi guidato da Antonio Di Bella. “Lui è un giornalista bravo e serio – ha tracciato la differenza con il suo successore Curzi – ma moderato. Io ero rosso, sanguigno...”. Ha le ombre lunghe, il fantasma di Telekabul. Tanto lunghe che rischiano persino di rovesciarsi nel suo contrario. Così, a un certo punto, venne addirittura avanzata la possibilità, cacciati i talebani di Kabul e insediato il governo di Karzai, di rifondare una decente televisione afgana. Figurarsi Berlusconi: competente e disponibile, immediatamente si fece parte dirigente della faccenda, pronto ad aprire da quelle parti una stazione televisiva, per garantire nientemeno “la diffusione della democrazia e della libertà” – capirai, proprio il lavoro che in seguito ha dovuto fare la Brambilla in Italia. Insomma, alla fine la vera Telekabul doveva organizzarla e metterla in funzione proprio il Cavaliere, altro che i comunisti. Ridacchiò sul Corriere Aldo Grasso: “Corsi e ricorsi. Se Fede rifondasse Telekabul...”. Fu vera gloria, quella della prima Telekabul, quella curziana, quella durata anni e anni. Fino a che toccò proprio alla sinistra calare la saracinesca sul perenne attruppare di gggente attorno al vispo tiggì. “Nessuno del Pds mi telefonava mai”, giura ancora oggi Curzi. Ma dai... “Occhetto mi accusò di essere un leghista”. Nel suo libro “Il compagno scomodo” nientemeno Curzi definisce il suo telegiornale un “organizzatore collettivo”. Per intendersi, nello stesso periodo Walter Veltroni arrivava alla redazione dell'Unità, e a quelli che gli chiedevano se il giornale di Botteghe Oscure fosse un “collettivo” rispondeva (facendo tirare un respiro di sollievo a un bel po' di redattori): “Macché collettivo, questa è una redazione”. Che poi, “organizzatore collettivo” di cosa? Pronta la risposta curziana: “Di tante cose. Del mugugno di massa, che era allora il rumore sordo di una società che non ce la faceva più a tollerare quelli per cui pure continuava a votare. Della speranza di massa che si potesse cambiare. Della moda di alzare la voce, che allora non era ancora una moda...”. Dopo sette anni, la parabola curziana, pure per la sinistra era al capolinea. “Pierluigi Celli, che era capo del personale qui in Rai, mi disse: ti lascio la stanza, i giornali, la macchina e la segretaria”. “E che faccio?”. “Pensi”. “Penso? Ma io non so pensare così...”. Per Curzi, “sarà Petruccioli a indicare pollice verso al momento opportuno” – l'uomo che a quel tempo rappresentava la segreteria di Botteghe Oscure, e che per uno strano gioco del destino (qui in Rai è tutto un lasciarsi e un ritrovarsi, che a volte pure il destino pare ammutolire) adesso è suo presidente al vertice di viale Mazzini. E Veltroni? “Veltroni si destreggia, mi è amico e spiega a tutti che mi stima (ma pochi mesi dopo, nel suo libro ‘La bella politica' scoprirà le carte: rispondendo all'intervistatore, dirà candidamente che il suo modello di telegiornale è quello della vecchia Rai bernabeiana, ante riforma)”. O Occhetto, il segretario del partito? “Occhetto invece lascia che accada”. E D'Alema? “Mi manda un biglietto... Dice più o meno in quelle poche righe: non ti ho voluto direttore, ero tra quelli che avevano dubbi. Molte volte mi sono arrabbiato per certi atteggiamenti del Tg3. Ma oggi sono con te, protesto e c'è qualcosa che non torna...”.
    Non essendo ancora tempo di editti bulgari, non si sapeva nemmeno bene con chi prendersela. Oggi, mentre Curzi parla, sullo schermo di uno dei televisori nello studio scorrono le immagini di un vecchio Maurizio Costanzo Show dove mezzo mondo rende onore all'appena epurato direttore di Telekabul, e c'è pure Vespa che non ride, e la Mussolini schierata, e i compagni Citto Maselli e Gillo Pontecorvo, “vedi com'era bello Gillo?”, e Mannoni con la pipa e al telefono la voce di Indro Montanelli: “Oscar Wilde diceva che bisogna sapersi scegliere i propri amici e i propri nemici. Con Curzi mi ero scelto un nemico magnifico...”. Fu un grosso fremito, un anticipo di girotondi, la destituzione del compagno Kojak. Certo, finì mica lì e allora, il Tg3. C'è stato in seguito un impressionante numero di direttori, tutti grandi giornalisti e splendidi professionisti, ma tutti durati abbastanza poco. Un leva e metti senza sosta, con quello strano effetto da dissolvimento di qualcosa, come quando c'è un lento stanco scivolare verso la fine di un'esperienza. Perciò, mettersi in maniche di camicia nell'edizione della notte, fare non solo il buono ma anche il bel tiggì – tutto bene, tutto necessario, tutto apprezzato – ma c'è qualcosa di irripetibile in quello che fu Telekabul (e che solo per pigrizia certi politici hanno continuato a chiamare così). Non c'è più Lucio Manisco con le sue corrispondenze da New York in piena guerra, che mandava su tutte le furie ogni filoamericano della penisola, e ad ogni collegamento una pioggia di interrogazioni parlamentari e di indignazioni collaterali. “Il comunista americano”, lo chiamava il Corriere, e lui con grande saggezza spiegava: “Il giorno in cui anch'io reclinerò il capino avrò solo tre rimpianti: non aver mangiato abbastanza, non aver bevuto abbastanza, non aver fatto l'amore abbastanza”. E poi dite voi, altro che Telekabul... E adesso, resta Francesco Cossiga che racconta di aver messo qualche buona parola tanto per Bianca Berlinguer quanto per Federica Sciarelli – e le due rispondono a tono, da un ironico “la prego di astenersi per il futuro da simili raccomandazioni” a uno stupito “ma di cosa parla Cossiga?”. O Berlusconi, che se un comunista non ha sotto mano, una comunista si crea, e allora i suoi battibecchi tra la politica e l'estetica con l'inviata Mariella Venditti, che pure i capelli ha sospettosamente rossi, definita “signora dei soviet” e ripresa per un ingombrante look: “Ho appena parlato di design italiano e di moda e lei si presenta così? Mi scusi, ma quando viene all'estero si vesta un po' meglio!”.
    Cosa resta della “gggente” e del telegiornale come “organizzatore collettivo” di un tempo, ormai chi può dirlo. E il ridotto di “Primo piano” – e il richiamo alla lotta per l'arrivo della striscia comica della Dandini, come un giorno pure a Biagi toccò il suo Max e Tux – ma è tutto un groviglio di rapporti e legami e affetti che si sciolgono – non è tanto, e comunque non basta, parlare con lei. E c'è una foto emblematica, scattata proprio lì all'Ambra Jovinelli, dove Curzi e Santoro, Vauro e Ruotolo, si ritrovano insieme certo per una buonissima causa. E quell'altra del 2002 dove Sandro – non più direttore, non ancora nel cda – fa il suo girotondo democratico attorno a viale Mazzini. Ecco, quello che ha spinto allo spot di protesta dei suoi ex redattori, poi definito “orribile” dall'ex direttore – il fatto che ancora una volta è la sinistra a chiudere una partita a sinistra. E quando il Tg3 sarà solo un comune telegiornale, uno dei tanti, un “organizzatore collettivo” redazionale di ferie e corte e qualifiche, allora sarà peggio che con l'arrivo di un qualunque Berlusconi – e magari un peccato. C'è chi pensa che ormai ci siamo. Così, l'unico tiggì che avrà insieme e spettatori e militanti – come negli antichi attivi comunisti del giovedì sera – sarà quello di Emilio Fede: Telearcore. (foto Ansa)