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Marta Vincenzi, la società civile sono io
Dove sono i liguri, dove sono i piemontesi? Il governatore della Liguria, Claudio Burlando, e il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, entrambi diessini, hanno perso il buonumore mercoledì scorso. La lista prodiana dei 45 saggi promotori del Partito democratico, diciamo, non ha casa al nord. Non si vede un eletto del nord-ovest e del nord-est neppure a pagarlo oro, dice Chiamparino.
Dal Foglio del 25 maggio 2007.
Dove sono i liguri, dove sono i piemontesi? Il governatore della Liguria, Claudio Burlando, e il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, entrambi diessini, hanno perso il buonumore mercoledì scorso. La lista prodiana dei 45 saggi promotori del Partito democratico, diciamo, non ha casa al nord. Non si vede un eletto del nord-ovest e del nord-est neppure a pagarlo oro, dice Chiamparino. Quanto alla tanto evocata società civile, c'è il capo di Slow food, sì, c'è qualche sconosciuto, ma il resto è vecchiume parlamentocentrico, pensavano ieri nelle terre sotto le Alpi. Ma a Genova ieri non si sono preoccupati quanto il governatore Burlando, che pure su Genova regna. Perché a Genova, nel suo piccolo, la società civile si vanta di chiamarsi “Marta”. L'aspirante sindaca diessina, infatti, la Marta Vincenzi molto in testa nei sondaggi, si sentiva talmente società civile da autocandidarsi alla carica di prima cittadina, un anno fa, come “nuovo che avanza”. Nonostante militasse nel Pci-Pds-Ds da un bel po', e quindi fosse “partitica”, sulla carta, quanto i suoi colleghi diessini. Questione di genovesità. Di superba genovesità.
“Arrivando a Genova vedrai una città imperiosa, coronata da aspre montagne, superba per uomini e per mura, signora del mare”. L'ha scritto Francesco Petrarca nel lontano 1358, ma la superbia dev'essere rimasta ben imprigionata tra le mura genovesi, per dodici secoli, nascosta dietro alla finestre, impregnata di salsedine, mischiata al vento, senza riuscire a fuggirsene per mare, se oggi, alla vigilia delle elezioni amministrative, il peccato che non si perdona all'aspirante sindaco Vincenzi, dicono a Genova, specie dopo due mandati di Giuseppe Pericu – uno che per la città è come Tony Blair – ha proprio quel nome: superbia. In verità sia Vincenzi sia Enrico Musso, suo avversario di centrodestra, hanno inizialmente cercato di non macchiarsi del vecchio peccato genovese (o di mascherarlo, giacché il coraggio uno non se lo può dare ma la superbia uno non se la può togliere). Compito facile per il professor Musso, accusato casomai del vizio opposto – gentilezza che a volte può sfiorare la non incisività – , meno facile per l'onorevole Vincenzi, europarlamentare ds, ex presidente della provincia, ex preside, ex studente di filosofia alla Normale, orgogliosamente operaia per ascendenze familiari e per toponomastica: abita in un quartiere popolare, Rivarolo. Proprio da quel piccolo peccato di superbia Vincenzi ha tratto forza e forze per vincere le primarie come guida del buon Nord democratico: io ci sono, ha pensato, e l'anno scorso ha spedito da Bruxelles lettere ai giornali e tv per proporsi come candidata prima di esser proposta. Io sono la discontinuità, ha detto all'inizio di una campagna elettorale basata sul non nuovissimo slogan: “Per una nuova stagione”. Con un altro leggero peccato di superbia Vincenzi ha coronato la stessa campagna, nell'intervista a Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera in cui lei, “laica come Mercedes Bresso”, iscritta all'Associazione radicale Luca Coscioni e convinta sostenitrice della separazione stato-chiesa, diceva di ravvisare nel pensiero e nei modi di monsignor Bagnasco (che le ha fatto “grossa impressione”) una inconsapevole aderenza allo spirito della nuova stagione vincenziana: “Il mio slogan si adatta anche a lui”, ha detto.
Discontinuità, alla fine del doppio mandato Pericu, significa qualcosa di diverso da Pericu (che pure è dello stesso schieramento politico di Vincenzi), anche se la candidata dice che lo stima. Io governerò nella discontinuità: ancora prima di dire di quale pasta fosse fatta, la discontinuità, l'onorevole Vincenzi se l'è attribuita. Una “rupture” in direzione del nuovo nord democratico e pro Partito democratico, almeno prima che uscisse la lista dei quarantacinque saggi. Voi siete le mie idee, dice Marta agli elettori dal suo blog. Non importa se poi nel suo programma non ci sono “rupture” ma tranquille promesse (abbastanza fattibili, dicono i vincenziani, abbastanza vaghe da non esser fatte, dicono gli antivincenziani). Non importa se alla “rupture” di Marta non si sa ancora se corrisponda vera vis innovativa o pura retorica. Intanto con quell'annuncio Vincenzi qualche permalosità l'ha solleticata, specie nei controllati ambienti della borghesia cittadina di sinistra, dove numerosi erano gli estimatori dell'imprenditore Stefano Zara, sostenuto dal presidente della Sampdoria Riccardo Garrone e sconfitto alle primarie come il poeta e fan della lotta di classe Edoardo Sanguineti.
Forse per rendere più accettabile la “rupture”, Marta, anzi Supermarta, come si lascia chiamare dai concittadini (con serena superbia) ha poi cercato di edulcorare la frase “io sono la discontinuità” facendola virare verso la solidarietà di “genere”: “Voi siete la mia discontinuità”, ha detto la candidata a un gruppo di elettrici, rivendicando le quote rosa già introdotte, di fatto, quando era presidente della provincia. Fin dal gennaio scorso Vincenzi si richiama infatti alla forza di quella vocale femminile, “a”: candidata sindac-a, futura sindac-a, si legge sui manifesti. Pazienza se a Ségolène Royal, un'altra che ha creduto nel potere subliminale del linguaggio politicamente corretto – con i suoi cartelloni “La France president-e”, president-a – non è andata poi così bene.
Il sindaco uscente Giuseppe Pericu, in verità, si è trovato un po' spiazzato davanti alle ragazze genovesi del gruppo Emily, qualche settimana fa, che gli avevano chiesto: “Signor sindaco, ma perché non ha messo più donne ai posti di potere?”, e lui lì, intimidito, a dire che in effetti non ci aveva pensato. Poi è arrivata – forse inconsapevole risposta allo schiaffo della “discontinuità” sbandierata da Marta – quella frase: “Non ne conoscevo”. Non ne conosceva, di donne papabili. Eppure la Vincenzi era già lì. E ha anche fatto il quasi-assessore per Pericu, con una carica di abbacinante vaghezza: la delega all'Area vasta. D'altronde la Vincenzi stessa sa che molti non avevano pensato a lei, per il dopo Pericu, ma al dalemiano Mario Margini, e che alcuni nel partito consideravano la sua candidatura “molto ambiziosa”.
“Non si sa perché, ma l'aggettivo ambizioso diventa subito un difetto se attribuito a una donna”, dice Silvia Neonato, giornalista e curatrice del numero del bimestrale Leggendaria (che ospita una lunga intervista alla “promessa sindaca”). Intervista in cui Marta dice di amare il suo quartiere operaio: “Dalle mie finestre vedo il mare e un pezzo di storia industriale della città”, e confessa di non sapere “se esiste un modo femminile di gestire il potere”. La Supermarta, soprannome da cartone animato giapponese che mal si addice a una signora (il giorno delle elezioni, il 27 maggio, compie 60 anni), non è mai stata femminista. L'ha detto a Paola Tavella su Io Donna, aggiungendo però che con le donne si sente a proprio agio e che fa riflessioni autocritiche sulla generazione delle “secchione”, la sua: “Volevamo arrivare a ogni costo e ci siamo lasciate indietro tante cose che sono quelle che contano. Queste ragazze pensano: ‘Prima faccio carriera, mi compro una casa, mi garantisco reddito e consumi e poi avrò un bambino'. Ma magari non arriva, è troppo tardi, oppure non hai lasciato lo spazio dentro di te”. E oggi che si dichiara pro Partito democratico, da diessina del Correntone che era, fa intendere, con superba levità – non ci riuscite voi, ma io forse sì, cari compagni – che lei, la supercandidata, saprà tenere insieme i diritti della donna come individuo e il ripensamento femminile anti individualista su famiglia e maternità.
Epperò quella di Supermarta non è tanto una lotta tra il femminile e il maschile – lei e i colleghi di partito, lei e l'avversario – ma tra classi sociali. Marta non solo è di ascendenze operaie, ma lo dice in continuazione, a differenza del presidente della regione Claudio Burlando, figlio di un camallo che non ripete tutti i giorni di esser tale. Che poi, a pensarci bene, anche lo sbandierare le umili origini è una forma di superbia, come dire “guardate come sono brava a essere arrivata fino a qui”, ma le amiche di Marta assicurano che lei era “orgogliosa di essere operaia” anche in tempi non sospetti. Come la metti la metti: la Vincenzi non è omogenea con la borghesia di Alvaro, i Parioli di Genova, o con le famiglie altolocate di Castelletto. E si sa, l'ambiente chiuso ti fa arrivare ma non ti fa davvero entrare (idem per le élite di partito). Solo che Marta, snobbata, può risultare altrettanto “snobbante”. Narrano tra i caruggi che dall'entourage vincenziano, al momento della chiusura delle liste, sia arrivato un “niet” alla candidatura di un noto immobiliarista, già contattato per la lista di Marta, proprio per via del suo essere immobiliarista, insomma per una sorta di preconcetto verso la categoria. Ma come: lei operaia, lei antielitaria poi snobba gli immobiliaristi, ceto imprenditoriale, come un qualsiasi politico fighetto romano o milanese?, trasecolavano gli osservatori esterni. Narrano anche che il seguito della Supermarta sia immenso, nonostante la sua distrazione, dovuta forse all'accumulo di progetti e promesse (della serie: comincio una cosa, non so se la finisco). Alle ultime consultazioni amministrative quasi ha preso più voti lei, candidata al Consiglio comunale, di Pericu stesso, candidato sindaco.
I voti Vincenzi li conquista girando per mercati, banchine e vicoli, dove ha creato dei circoli di quartiere che oseremmo definire “club” se non fosse un termine troppo berlusconiano per una diessina alfiera della società civile e non amante delle collaborazioni tra poli opposti (e quindi si capisce: non è amata dai dalemiani anche se Sanguineti diceva il contrario). A parte i casi di emergenza, i casi seri, come quando a Genova sono saltate fuori le scritte Br contro monsignor Bagnasco e Marta si è subito sollevata in sua difesa, assieme agli avversari politici.
Superbia ha voluto che la candidata Vincenzi, non contenta di aver fatto la prima “uscita”, quella della discontinuità, ne abbia fatta una seconda, alludendo a certi “poteri forti” che governano la città. Ed è vero che Genova è la città di Beppe Grillo e a forza di sentirlo picconare a casaccio ogni potere, dal capoclasse al capo di stato, uno poi lo dice anche in campagna elettorale; è vero che Genova è la città di Fabrizio De Andrè e del suo popolo dolente di puttane e viaggiatori con ben pochi poteri e non certo forti; è vero che Genova è anche la patria di Paolo Villaggio, ragionier Fantozzi vessato dal potente megadirettore della megazienda, ma “poteri forti” è un abbinamento lessicale che al giorno d'oggi rischia di offendere parecchio. Tantopiù in una città dove, attorno alla banca del Carige, “potere forte” della città, discettano con perfetto savoir faire bipartisan il diessino Burlando e l'azzurro Scajola, e dove finanza e borghesia rossa non si guardano male, anzi. Eppure le stoccate beppegrillesche della Supermarta – piove governo ladro, viva la partecipazione popolare – fanno apprezzare il suo stile da tribuno (l'onorevole Vincenzi è conosciuta dal 94 per cento della popolazione locale, dicono i sondaggi). Tanto che ora Supermarta procede sicura con capigliatura argentea e abiti da Hillary Clinton, anche se, in una foto risalente al famigerato G8 del 2001, quando era presidente della provincia, si distingueva dai consiglieri per via dell'abbigliamento dal sapore etnico – e figuriamoci che cosa avrà pensato il Cav., che aveva fatto togliere da Genova persino i panni stesi alle finestre (che Marta l'abbia fatto di proposito?, si chiedono fan e detrattori, con ottica opposta).
“Mandami la tua proposta”, dice Marta al cittadino su Internet, parlando in prima persona: “Ho una figlia e sono sposata, il mio mestiere è la preside, sono in aspettativa, ho aderito al Pci dal 1974, non ho mai dimenticato l'attenzione che ho sempre avuto per il porto”. E va bene che il porto vuol dire merci e vuol dire nord produttivo, ma a Genova qualcuno pensa che porto per Marta significhi più che altro grandeur. Proprio durante il 2004, anno in cui la città era capitale della Cultura, qualche concittadino, dopo lunghe anticamere nell'ufficio “Area vasta”, ha cominciato a dire che Supermarta prometteva ma non sempre manteneva, e che un conto erano i progetti magniloquenti di Renzo Piano, per cui c'è sempre tempo, un conto quelli delle associazioni di volontariato. Marta oggi continua a promettere e gioca a fare Walter Veltroni (rimproverandolo però di aver fatto la gran fuga nel 2001: ti sei rifugiato a Roma mentre arrivava Berlusconi). Dalla sua home page bianca e rosa, che fa molto “donna” ma anche scatoletta dell'Optalidon, Marta confessa un sogno puramente veltroniano: “Ho un romanzo nel cassetto”.
I “protagonisti della nuova stagione”, i cittadini, sono invitati dal blog di Marta a suggerire politiche per la coesione, il benessere, contro la contrazione di lavoro e reddito, per “una polis aperta e tollerante”. Non è dato sapere come la si metterà, poi, con gli abitanti del centro storico orripilati per le rapine, “non sai più se ti scippano da destra o da sinistra”, dice un imprenditore, né come si farà fronte alla richiesta di sicurezza che gli altri sindaci di centrosinistra del Nord – da Sergio Cofferati a Sergio Chiamparino – stanno assecondando e cavalcando.
Il fatto è che tutto non puoi essere. E se non vuoi essere o sembrare “potere forte”, un po' populista lo sembri (o lo sei) per forza. Tantopiù che Marta spinge sulla “governance” allargata, sul bilancio partecipato, sulla Sanità amica, il lavoro amico, la città amica. “Marta Vincenzi è il candidato sindaco per una sinistra genovese che ama ‘playing it safe', per dirla come lei nel suo programma, pieno zeppo di espressioni in lingua inglese che in molti mai capiranno”, dice il giornalista genovese Andrea Carraro, convinto che la Vincenzi sia “predestinata alla vittoria grazie al contraddittorio sostegno di una Genova che continua a volersi male, quella del ponente ormai ex operaio ancora convinto di avere bisogno di un sindaco di ‘sinistra', e quello di una parte di Genova che si vuole troppo bene, bisognosa di un sindaco di ‘sinistra' per mantenere il suo ameno stile di vita”.
Un libero professionista del centro storico descrive Supermarta come “il seduttore che apre la portiera, ti porta a cena a lume di candela, ma poi non sa bene come tener vivo il fuoco. Cosa farà al secondo appuntamento?”. Tutti, amici e avversari, riconoscono a Vincenzi una fulminea determinazione. Non sa se esiste un modo femminile di gestire il potere, Marta, ma con materna sollecitudine dice che si “vuole prendere cura della città”. Quando parla del waterfront, la nuova banchina, vorrebbe che “abbracciasse la città”. E con preoccupato affetto coltiva fagiolini e zucche nell'orto, passione verde come la sua fissazione per gli autobus elettrici e i cantieri consapevoli. Parla pure di inceneritori e varianti di valico – che magari non sono verdi ma che lei vuole governare in modo “verde”, efficientista come il nord del “lavoro-guadagno-pago-pretendo” ed ecologicamente corretta come un circolo del Partito democratico.
“Marta fa quella che parla per i cittadini ma snobba i cittadini”, ha detto un esponente di Forza Italia quando la Vincenzi temporeggiava sul confronto tv con Enrico Musso: “E' in vantaggio e non vuole rischiare”. Alla fine Marta al confronto c'è andata. A un certo punto ha accusato Musso di dire le cose che diceva lei. Secondo l'entourage Musso il professore è stato soltanto generoso nel dare cittadinanza a un'idea della controparte. Ora Marta spera che la generosità dei cittadini (nell'urna) le permetta di mettere su il Consiglio comunale della “nuova stagione”. La vittoria è più che probabile, ma la percentuale oscilla e nessuno può prevedere se Musso riuscirà a erodere una parte consistente del consenso di Supermarta. I genovesi intanto, con genovese borbottio, mugugnano, alzano gli occhi al cielo e cercano di scorgere il futuro oltre i tetti di ardesia, quelli che al cantante Gino Paoli (comunista, sì, ma arruolato da Musso) parevano, dall'alto, il guscio di una grande tartaruga.
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