Dopo le polemiche e la risposta di D'Alema al Corriere
D'alema e la demoniaca tentazione della filosofia
La “tentazione demoniaca del potere” da cui la chiesa dovrebbe guardarsi, come tutti capiscono, non poteva non finire sulle prime pagine dei giornali. E avrebbe dovuto capirlo anche Massimo D'Alema, prima di intervenire al seminario su “Religione e democrazia” organizzato dalla sua fondazione, ItalianiEuropei, in un villaggio-albergo nel parco del Cilento, circondato dagli ulivi e dal mare.
La “tentazione demoniaca del potere” da cui la chiesa dovrebbe guardarsi, come tutti capiscono, non poteva non finire sulle prime pagine dei giornali. E avrebbe dovuto capirlo anche Massimo D'Alema, prima di intervenire al seminario su “Religione e democrazia” organizzato dalla sua fondazione, ItalianiEuropei, in un villaggio-albergo nel parco del Cilento, circondato dagli ulivi e dal mare. Avrebbe dovuto capire che per cavarsela non sarebbe bastato infilare all'inizio di ogni periodo, a tradimento, tra un'espressione in latino e una citazione di Ugo Grozio, indecifrabili riferimenti alle più complesse relazioni tenute all'inizio del seminario, cioè due giorni e diversi dibattiti prima. Riferimenti lasciati per giunta – e a bella posta – in sospeso. Come a intendere che se siete stati assenti, non avete seguito o avete gli appunti disordinati, è giusto che non capiate una parola di quello che sto dicendo, quando dico che i cattolici non devono chiedere ai laici di comportarsi secondo i loro principi etsi Deus non daretur, ma semmai sono i laici che devono comportarsi veluti si Deus daretur.
O forse era il contrario.
Comunque sia, il fatto è che i giornalisti presenti, ingiustamente provocati, hanno giustamente deciso di comportarsi come se D'Alema, Charles Larmore e Tzvetan Todorov non ci fossero – etsi D'Alema non daretur, direbbe il filosofo – e sono andati al sodo. E così, l'indomani, la tentazione demoniaca ha trionfato su tutti i giornali. E chissà cosa avrebbe detto Beppe Fioroni, se l'intervistatore gli avesse riportato pure il contesto, il sottotesto e i testi degli altri interventi, a cominciare da quello di Roberto Esposito, interamente mirato a “decostruire” nientemeno che il concetto di persona, su cui poggia gran parte del pensiero cristiano. Decostruzione condotta, oltretutto, con un gergo che ne svelava immediatamente la demoniaca provenienza (demoniaca per le orecchie di Fioroni, s'intende). Parole nette e precise sull'essere vivente, “una materia biologica”, che diviene intangibile grazie all'attribuzione della personalità, cioè “grazie al plusvalore del personale”. A un simile incipit, seguiva poi una raffinatissima analisi del concetto di persona inteso come “dispositivo” – un “dispositivo escludente” – passando in quarantacinque minuti netti dal diritto romano (la distinzione tra persona-cittadino e servo-cosa) alla filosofia greca, alla religione cristiana e pure alla letteratura di avanguardia. Dissertazione raffinatissima e assolutamente inriassumibile, che pronunciata da un politico sarebbe stata certamente inghiottita dal seguente virgolettato: “Nessun altro concetto (come quello di persona, ndr) gode di un simile indiscutibile consenso… ad eccezione, forse, di democrazia”. E con questo, dopo la crisi diplomatica con la Santa Sede, si sarebbe potuta tranquillamente mettere nel conto pure la nota di protesta del Dipartimento di stato americano. Il lungo discorso di D'Alema, in compenso, è stato inghiottito dalle parole sulla “tentazione demoniaca”, che l'ex ministro degli Esteri individua nella serie delle possibili identificazioni progressive da scongiurare: cristianesimo-cristianità-occidente-destra (in opposizione, va da sé, a islam-islamismo-medioriente-sinistra).
Insomma, che il problema fosse nel manico, D'Alema avrebbe dovuto capirlo, rifuggendo la demoniaca tentazione della filosofia. Ma va capito anche lui. Dopo due giorni di dibattiti cui aveva assistito senza fiatare e senza perderne un solo minuto, quando poteva finalmente dire la sua, seduto alla tavola rotonda con Charles Larmore e Tzvetan Todorov, è chiaro che non poteva cavarsela dicendo che l'importante è il dialogo, che bisogna unire e non dividere, che questo è un po' l'onore e l'onere del governare un mondo globale, surriscaldato e conseguentemente privo di mezze stagioni. E' chiaro che deve ingaggiare la tenzone, dire qualcosa, se non altro per quel centinaio di studenti venuti a sentirlo, sciroppandosi silenziosi tutte e tre le giornate e pagando pure duecento euro (i giornalisti trecento, non avendo diritto allo “sconto per studenti” – per la cronaca, i presenti si dividevano quasi esclusivamente in studenti e giornalisti).
A riprova dell'ineluttabilità di quanto accaduto, la frase sulla “tentazione demoniaca” della chiesa non era nemmeno un pensiero originale di D'Alema, ma l'allusione a un dibattito interno alla chiesa stessa, dove secondo l'ex ministro degli Esteri ci sarebbe anche chi paventa il pericolo di cadere, appunto, in tale tentazione. Il giorno prima, in effetti, monsignor Piero Coda si era soffermato a lungo, partendo da considerazioni storico-teologiche, sulla necessità di guardare in modo meno stereotipato del solito al rapporto fra laici e religiosi. Quello che spesso i laici non comprendono – ha spiegato – è la “connessione tra le istanze di emancipazione e le loro sorgenti ideali e religiose”. Quello che spesso manca ai cattolici è invece il “recupero della dinamicità originaria dell'annuncio evangelico”. Dinamicità testimoniata, e l'esempio è significativo, dal Concilio Vaticano II, i cui decreti nemmeno un Papa può cambiare. E se un nuovo Concilio li mettesse in discussione, ha aggiunto ridendo monsignor Coda, si porrebbero per lui seri problemi di coscienza, e forse diventerebbe valdese. Dunque, anche per la chiesa vale forse la metafora utilizzata qualche ora prima da Remo Bodei discutendo di identità e integrazione, radici religiose e non religiose, sulla tradizione come una “corda intrecciata di mille fili”, difficili da distinguere. “Ci ricordiamo di sant'Agostino – ha detto monsignor Coda – non del Papa dell'epoca. Ricordiamo san Tommaso, ma chi ricorda chi era Papa allora?”. D'altro canto, come ha detto Todorov, non è neanche vero che ai laici manchi un'idea di trascendenza: dal genitore che ama suo figlio più di se stesso all'uomo che antepone a se stesso la sua comunità, il suo paese o semplicemente gli altri.
Intervenendo subito prima di Todorov (e di D'Alema), l'americano Larmore aveva sostenuto il diritto dei credenti ad affermare nella dimensione pubblica le proprie posizioni, rifiutando l'idea che uno stato laico debba confinare la religione alla sfera privata. E questo in nome del principio, al centro della sua relazione, dell'“egal respect” (la tavola rotonda, escluso ovviamente l'intervento di D'Alema, si è tenuta in francese, pare in omaggio a Todorov, che è bulgaro). Il punto – ha replicato il presidente di ItalianiEuropei – non è la legittimità della presenza religiosa in un dibattito pubblico pluralistico, ma la pretesa di attribuire a convinzioni religiose forza di legge, a discapito della “neutralità” dello stato, unica garanzia di quello stesso dibattito aperto e pluralistico.
L'aspetto divertente è che con ogni probabilità, nelle intenzioni di D'Alema, il discorso avrebbe dovuto suonare come un'apertura. A partire da un'idea della laicità intesa come “terreno di confronto”, in un dialogo reso più “fecondo” proprio dalla presenza della religione cristiana. E proprio per i suoi caratteri specifici. Per quell'idea di “verità che non possiede se stessa”. Parole pronunciate il giorno prima da Vincenzo Vitiello nella sua relazione, peraltro particolarmente ricca di citazioni in latino, greco antico ed ebraico (e conclusa da una poesia in tedesco, scritta da un poeta rumeno, francese d'adozione). Nel suo intervento, sia detto a margine, Vitiello aveva pronunciato anche la più dura condanna mai sentita fino a oggi del gruppo dirigente della sinistra. Sia pure senza essere consapevole di simili implicazioni extra-filosofiche del suo discorso, il filosofo ha ricordato infatti con una certa enfasi che i grandi pensatori non sono quelli che pensano continuamente cose nuove, ma al contrario quelli che pensano sempre le stesse cose (l'essenziale, s'intende, e ovviamente in modo più profondo degli altri).
Filosofo cristiano e insieme “relativista”, Vitiello esalta del cristianesimo proprio quella “verità che non possiede se stessa”, e che per questo si rivolge all'altro da sé. Una verità propria della religione cristiana, che annuncia così “la religiosità di tutte le religioni”, perché annuncia il carattere “relativo” di ogni religione – compresa se stessa – mostrandone la comune distanza dal vero. Perché più in alto della verità, per dir così, sta il mistero. Argomentazione che forzando un pochino si potrebbe dire sostenga la superiorità della religione cristiana (non certo il carattere effimero – “relativo” in senso comune – di tutte le religioni). Fortunatamente, e a scanso di ulteriori equivoci, nella sua citazione D'Alema si è fermato alla “verità che non possiede se stessa”. Ma questo, come si vede, non gli ha risparmiato le consuete incomprensioni con la stampa. Resta il fatto che il problema era nel manico. Che, come è stato già scritto su questo giornale riprendendo il celebre commento dalemiano a una recente analisi del voto (“per capire qualcosa dell'Italia dovremmo semplicemente smettere di frequentare tutti quelli che frequentiamo”) non è possibile realizzare in questo mondo l'utopia dell'uomo nuovo, di un altro mondo possibile, di un'altra vita. Il politico sarà sempre un politico, il filosofo sempre un filosofo e il giornalista sempre un giornalista. E se solo avessimo preso appunti come si deve, potremmo citare a sostegno auree parole pronunciate da Roberto Esposito, Salvatore Natoli e da molti altri a proposito del carattere intimamente sociale dello stesso concetto di persona.
E sarà pur vero, come diceva Rimbaud, che “la vita è altrove”. Ma è un fatto incontrovertibile che se è altrove, non è dove siamo noi. In poche parole, quell'altra vita di cui meglio di ogni altro ci ha parlato Franco Battiato, non la vivremo mai. Chiunque decidiamo di frequentare. Quali che siano i nostri argomenti di conversazione a tavola. Comunque vogliamo metterla. Forse perché, ovunque andremo, saremo sempre noi stessi, persino a Marina di Camerota, circondati dagli ulivi e dal mare. O forse è vero l'esatto contrario, e cioè che anche noi – politici, filosofi o giornalisti – siamo un prodotto intimamente sociale. Certo sarebbe bello, comunque, se anche nelle nostre corde s'intrecciasse ogni tanto qualche altro filo, e non sempre gli stessi. Magari saremmo un po' meno noi stessi, ma forse finiremmo pure di pensare (e di dire, e di scrivere) sempre le stesse cose, e sempre allo stesso modo, per giunta. (foto Ansa)
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