In morte di un attore, regista, produttore

Pollack, l'Oscar che liquidò il proprio visual style come poco interessante

Mariarosa Mancuso

Chiacchierano dei rispettivi lavori, come due ragazzini alle prese con i compiti. Condividono il vizio di rimandare fino all'ultimo, l'angoscia della scadenza che si avvicina, il timore di non farcela. Soprattutto, hanno lo stesso incubo: qualcuno prima o poi li sbugiarderà, rivelando il bluff. Sono Sydney Pollack, che del documentario è anche regista, e Frank Gehry, l'architetto del Guggenheim Museum a Bilbao (in “Frank Gehry: creatore di sogni”, da Feltrinelli il dvd). L'architetto canadese qualche problema lo ha avuto.

    Chiacchierano dei rispettivi lavori, come due ragazzini alle prese con i compiti. Condividono il vizio di rimandare fino all'ultimo, l'angoscia della scadenza che si avvicina, il timore di non farcela. Soprattutto, hanno lo stesso incubo: qualcuno prima o poi li sbugiarderà, rivelando il bluff. Sono Sydney Pollack, che del documentario è anche regista, e Frank Gehry, l'architetto del Guggenheim Museum a Bilbao (in “Frank Gehry: creatore di sogni”, da Feltrinelli il dvd). L'architetto canadese qualche problema lo ha avuto: il Mit gli ha chiesto i danni, constatate le infiltrazioni d'acqua nell'anfiteatro da lui disegnato e costruito appena un anno prima. A Sydney Pollack i danni non li chiederà nessuno. Qualche suo film lo abbiamo amato molto, qualche altro meno, il trascorrere degli anni non sempre ha portato consiglio (però neppure Cassandra poteva immaginare che un ruolo in “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick si sarebbe rivelato il disastro che è, per morte intempestiva del regista). Ma il suo nome resta a garanzia di un equilibrio d'altri tempi tra intelligenza, originalità, ragioni di un'industria che ama il suo pubblico. Era lui l'unico, parlando di sé, a dubitare della propria bravura. In un'intervista apparsa sull'American Cinematographer, mensile supertecnico letto come una bibbia dagli addetti ai lavori, liquidò il proprio “visual style” come “poco interessante”.
    Dopo l'apprendistato in teatro, nel cinema aveva fatto molti mestieri. Aveva insegnato recitazione, aveva fatto l'attore e il produttore – l'ultima volta in “Michael Clayton” con George Clooney, che ora ne rimpiange anche le doti di conversatore –, si era associato con Anthony Minghella, aveva diretto 80 puntate per varie serie tv (tra cui “Il fuggitivo”), era diventato campione di incassi nel 1982, con “Tootsie”: 177 milioni di dollari solo negli Usa, il secondo posto nella top list dell'anno dopo “E. T.”. Con “La mia Africa”, e le star Robert Redford e Meryl Streep, arrivarono sette Oscar. Non sta tra i nostri preferiti – la danese Karen Blixen era un genio quando scriveva racconti, molto meno nell'autobiografia esotica e sentimentale –, ma sappiamo che ha una schiera di ammiratori pronti a litigare in sua difesa.
    Nel 1969 aveva messo a segno il primo colpo grosso: “Non si uccidono così anche i cavalli?”. Tratto da un romanzo di Horace McCoy, ambientato nella California della Grande Depressione, racconta una maratona danzante. Per vincere 1.500 dollari, Jane Fonda e Michael Sarrazin ballano fino allo sfinimento, tra coppie di altri poveracci, mangiando e bevendo senza perdere il ritmo. Dopo qualche giorno lei molla: preferisce suicidarsi con mezzi più sicuri. Rivisto oggi, fa l'effetto di un pugno nello stomaco. Nove nomination agli Oscar, ma il trionfatore dell'anno fu John Schlesinger con “Un uomo da marciapiede”.
    Ha un posto d'onore nei nostri incubi, e ancor più nelle notti insonni dei complottisti, “I tre giorni del condor”, uscito nel 1975. Provate voi ad andare in ufficio una mattina, trovando i colleghi d'ufficio morti alle rispettive scrivanie. Anche per uno che lavora nell'intelligence, non è situazione prevista dal mansionario. Solo Robert Redford poteva nello stesso tempo salvare la pelle e svelare le devianze dei servizi, tra atmosfere alla Hitchcock e complicazioni politiche. Intreccio perfettamente calibrato, come non succederà più: basta confrontarlo con “Michael Clayton” e la sua tremenda multinazionale, per scoprire che il grande cinema popolare oggi chiude un occhio sulle sceneggiature per concentrarsi sul messaggio (la stessa infelice decadenza tocca ai film di guerra, negli anni trascorsi tra il Vietnam e l'Iraq). Perfino Pollack, nel suo tentativo più recente, è scivolato su Nicole Kidman e sui dialetti africani di “The Interpreter”.
    Varie generazioni, non solo di femmine, hanno pianto per la storia d'amore tra Robert Redford e Barbra Streisand in “Come eravamo”, arrivato nei cinema dopo un drastico taglio di quasi un'ora, cosa di cui il regista mai si lamentò. Nella classifica delle grandi passioni stilata dall'American Film Institute, viene prima del “Dottor Zivago” e di “Love Story”. Scoperto il proprio lato romantico, Pollack aggiunse un po' di rosa anche a “Tootsie”. Su gentile richiesta di Dustin Hoffman, recitò nel piccolo grande ruolo dell'agente. Con la stessa ironia, nel film francese “Un po' per caso un po' per desiderio”, fece la caricatura del regista americano in Europa, alle prese con un biopic su Simone De Beauvoir.