Storia di una dinastia politica americana che non vuole arrivare al capolinea
Malinconia clintoniana
Per un momento, prima che mosse e contromosse politiche ricominciassero a snocciolarsi, è andata in scena un raro – perciò più prezioso – episodio di malinconia clintoniana.
Washington. Per un momento, prima che mosse e contromosse politiche ricominciassero a snocciolarsi, è andata in scena un raro – perciò più prezioso – episodio di malinconia clintoniana. Dopo aver incassato la crudité dei numeri che la condannavano alla definitiva sconfitta nella rincorsa alla nomination, dopo aver sadicamente imposto l'ulteriore rinvio alla resa nella notte di martedì, quando l'ostinazione le ha fatto pronunciare quel “no decision” che ha fatto digrignare i denti ai compagni di partito, dopo aver incassato le rampogne per l'ingiustificato ritardo da Charles Rangel, capodelegazione al Congresso dello stato di New York (veterano temuto, di cui perfino Hillary deve tener conto), la Clinton, per un attimo che fa la storia e il senso di questa formidabile contesa, è andata in souplesse.
Ci piace immaginare che sia successo poco prima dell'enigmatico incontro con Barack Obama a casa dell'amica Dianne Feinstein, la senatrice che ha preparato l'evento con magnifica discrezione, se è vero che un Boeing 757 pieno di giornalisti al seguito di Obama s'è sollevato dalla pista di Washington rivelando al branco di segugi che la loro volpe non era mica a bordo con loro, li aveva seminati, li mandava a Chicago a farsi un giro, mentre lui procedeva al già famoso incontro a quattr'occhi del quale è dato sapere solo che s'è discusso “sul da farsi per vincere a novembre”. Da lì all'apparizione di ieri a mezzogiorno di fronte all'accaldata platea di attivisti e staffers del National Building Museum di Washington (“Questo non è sicuramente il party che mi aspettavo. Ma la compagnia mi piace”) è tutto un dispiegarsi pianificato, secondo la meticolosità stilistica a cui i Clinton sono avvezzi, della nuova fase politica: Hillary che veste i panni della kingmaker – naturalmente solo a una prima lettura, perché le varianti sono molteplici e l'elenco è defatigante: Hillary che vuole sottomettersi al dettato del partito solo quanto basta per non essere tacciata d'insubordinazione e non spiegazzarsi l'immagine all'indomani del ruggente finale di campagna, presso un elettorato ancora distintamente impressionato dalla sua performance nella coda delle primarie (il 40 per cento degli elettori clintoniani per ora, di fatto, fanno sapere che non se ne parla di votare Obama: uno spettro di disfatta, dal momento che il 17 per cento si dice pronto a votare McCain). Oppure una Hillary che, come dice Howard Fineman di Newsweek, non rinuncia a concedersi la kabuki dance, che equivale a dire che vuole sentirsi offrire il posto di vicepresidente per magari rifiutarlo sdegnosamente (e in entrambe le ipotesi s'intravede una Hillary convinta d'aver perso, nonostante tutto, una battaglia ma non la vera guerra, perché lei considera “guerra” il riuscire a rimettere piede alla Casa Bianca da presidente, e il fatto che non ci sia riuscita nel 2008 non significa che non ci riesca nel 2012, magari perché McCain batte Obama).
O, ancora, una Hillary militante e agguerrita, pronta a ricucire la polarizzazione nell'elettorato democratico, che magari resta sulla breccia in un'altra posizione di prestigio, compresa quell'ipotesi-ticket con Obama tuttora complicatissima, per i noti problemi d'incompatibilità, ingombro, perché c'è un Bill di troppo, perché Barack da un anno invoca il rinnovamento e perché forse i voti di chi non vuole votare per Obama perché lo giudica elitario o non ama la sua pelle nera, neppure lei può garantirli, per il motivo più semplice del mondo: quella gente non voterebbe mai per Obama, con o senza Hillary, e anche con o senza Bill a rimboccarsi le maniche. Perciò, quella che s'è presentata ieri, nel giorno del temporaneo commiato dal sogno, più che una suffragetta di partito è apparsa una Hillary (con consorte e figlia, tutti e tre in nero) già resettata su obbiettivi futuri e sui relativi percorsi di posizionamento: ha esordito raccontando lacrimose storie di volontari per la sua causa, di vecchiette che dall'ospizio hanno convinto cinici figli a votare per lei, di ragazzini che invece di andare a Disneyland hanno speso i risparmi per fare campagna sotto le sue insegne. “Mi sento ancora nella prima linea della democrazia, a battermi per un futuro migliore”, ha detto. “E adesso il modo migliore per combattere per questa causa è contribuire a eleggere Barack Obama prossimo presidente degli Stati Uniti. Io lo sostengo e gli darò tutto il mio appoggio. Chiedo a voi tutti di fare lo stesso!”. Più fischi che applausi. “Volevo tornare alla pace e alla prosperità. Ora Obama ci penserà per noi”. Qualche applauso in più. Pieno clintonismo, dispiegato in quei linguaggi e attitudini che ormai hanno già perfino individuato l'ex bambina Chelsea come erede ad libitum, in una liaison dinastica col potere che ci toccherà affidare ai nostri figli. Caparbietà, gioco a tutto campo, nessuna paura di sporcarsi le mani, intransigenza e pressione ormonale american style: questa è la politica dei Clinton, per chi li ama e li segue: “Da quando esiste l'America le sfide si vincono. Io condivido le speranze e l'ottimismo del senatore Obama. E perciò anch'io dico: Yes We Can!”
Una Hillary rigenerata, battagliera, in ottima forma. Ma è all'altra Hillary che in coda a questa fatale settimana vogliamo rivolgere un pensiero. Quella che per un breve passaggio diventa irrazionale al limite con l'illogicità, quella dominata da stizza e delusione perché sa d'aver fallito, nonostante l'impegno sacrificale col quale s'è spesa, nonostante la sua capacità di rinascere dopo ogni sconfitta, nonostante quella forza, quell'abnegazione, quella lucente tenacia di cui era impossibile che l'America a un certo punto (troppo vicino alla fine) non s'innamorasse. Verranno scritti libri sul fallimento della campagna Clinton 2008, perché è una grande storia con vorticose cadute e miracolose rinascite, e perché ha rivelato aspetti nuovi di un personaggio che si credeva esplorato in ogni piega, perché ne ha amplificato le imperfezioni ma anche le inaspettate risorse. A maggior ragione c'interessa cristallizzare quello spigoloso momento in cui Hillary brilla d'una luce particolare, a metà settimana, battuta senza appello, consapevole d'avere commesso errori grossolani nella campagna – a cominciare dalle errate gerarchie mediatiche, della disfatta sul campo di YouTube, dalla gestione delle sottoscrizioni in stile XX anziché XXI secolo, dalla tardiva presa di coscienza di condurre, per colpa di uno staff poco brillante, una campagna vecchia e stereotipata nel momento del “nuovo” a tutti i costi.
Quella Hillary che capisce – come l'assassina hitchcockiana che realizza d'essere smascherata – e per un secondo ha la debolezza di lasciar spazio all'emotività, a un dispetto femminino, alla voglia d'invocare il suo status di prima della classe, solleticata dal desiderio d'esplodere nella risata: ma che fate, democratici americani, stolti che altro non siete, vi fate abbindolare dalle flessuosità d'una voce e dalla morbidezza delle sue promesse? Come non potete vedere la superiorità d'una cultura politica come la mia, sulla politica della cultura che Obama sbandiera, neppure fosse un venditore di Bibbie? Hillary per un attimo ha visto paradiso e inferno davanti a sé. Poi s'è ricomposta, ha riafferrato la suo allure (“se oggi ci sono cinquanta donne che lavorano nello spazio, ci può ben essere una donna alla presidenza di questo paese!”, ha scherzato ieri, energetica e sollevata) e forse ha anche messo in piedi una trattativa politica con l'uomo che l'ha battuta e verso il quale adesso si esprime in termini generosi. Non importa granché, perché sarebbe soltanto una transizione verso il riallineamento dei suoi bersagli. E la Clinton di ieri torna a essere una presenza politica intensa, più appassionante di quella da lei stessa incarnata negli ultimi mesi. Eppure, quella Hillary stravolta, per un istante astrusa allorché il suo avversario aggancia il quorum, ferita ma viva, pulsante di consapevolezza della responsabilità della politica, resta il migliore compendio al vaudeville obamiano che ci accingiamo a vivere. Che ne costituisca l'inevitabile antidoto, sarà da vedere nei mesi a venire.
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