Perché Cassano può essere l'eroe dell'Europeo
Comincia con un microfono. In tuta: “Volare, cantare, nel blu dipinto di blu”. Cassano canta, Cassano balla, Cassano tira Buffon, Cassano spinge Camoranesi. Ride. Quello che doveva rovinare l'ambiente, quello che è il nemico interno, quello che attenzione se lo porti è capace di rovinare tutto. Gianburrasca e Fiorello. Simpatico fino a un certo punto, perché fa ridere, ma oh, è sempre lo stesso.
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Comincia con un microfono. In tuta: “Volare, cantare, nel blu dipinto di blu”. Cassano canta, Cassano balla, Cassano tira Buffon, Cassano spinge Camoranesi. Ride. Quello che doveva rovinare l'ambiente, quello che è il nemico interno, quello che attenzione se lo porti è capace di rovinare tutto. Gianburrasca e Fiorello. Simpatico fino a un certo punto, perché fa ridere, ma oh, è sempre lo stesso. Arriva Gattuso, si siede e gli chiedono: non ti sembra che il clima sia troppo sereno? “No”. Allora, la botta: ma Cassano ride sempre. “E che deve fare?”.
Allegro, felice, magro. Non va mai bene, Antonio. L'ha capito e fa finta di niente, lo racconta di notte a voce bassa. Leggero perché è contento, sereno perché deve ancora cominciare: un pallone, un'altra estate di calcio. Come in Portogallo, quattro anni fa. Sa di tutti i se, di tutti i ma. Come se la vita da campione espiatorio non debba finire mai. Da capo, ogni volta. Perché è forte, ma ancora non abbastanza. Perché per gli altri è un pazzo, guascone, bullo, irriverente, fastidioso, volgare, ignorante, cafone, truzzo, sbruffone, antipatico, coniglio. E' tutto quello che hanno detto di lui in otto anni. Da Bari a Roma, a Madrid, a Genova. Il calcio sempre controluce: gli altri maledetti hanno diritto di sbagliare perché la sovrastruttura che li regge permette di volare. Cassano è solo nonostante la compagnia. Camoranesi, che ora si fa trascinare da lui, tre mesi fa ha detto: “Io non lo voglio”. Non si conoscevano neanche, non avevano mai giocato insieme. Però Antonio che finisce sui giornali spaventa: sempre peggio di quello che è. Invece serve. Serve adesso, serve domani. Cassano riporta indietro e spinge avanti: dov'è il talento italiano? E' il suo piede destro, è la coscia sinistra che pompa, è il petto che stoppa il pallone, è il corpo che l'accompagna. E' la delicatezza di un assist che non prevede l'egoismo del gol.
Cassano è un eroe, forse l'unico rimasto. L'ultimo: l'Europeo è suo anche se non giocherà, perché il solo fatto di essere lì cambia la prospettiva.
E' un Achille contemporaneo: comune ed eccezionale. Ha coraggio, astuzia, abilità. Cerca l'onore, protegge la famiglia. Sono gli altri che non sono ateniesi. Vive in un mondo di spartani, allora fatica, fatica, fatica. Pensa che non lo capiscano, teme di essere frainteso. Allora zitto, sempre. Troppo. Cassano parla solo se costretto, una-due volte all'anno. Il resto è un furto, un fuorionda, un tradimento della sua privacy. Per questo mette la mano sulla bocca quando parla con qualcuno in campo: non vuole far sapere quello che dice e neanche come lo dice. Perché ogni volta che si sente, ognuno lo usa come gli pare. Come il giorno di Sampdoria-Torino, quello famoso, del fallo inutile, della reazione, dell'arbitro mandato a fanculo, della maglietta tirata in faccia, del “vieni, ti aspetto qui”, quello delle cinque giornate, del campione sprecato, della fantasia dilapidata, del genio buttato via. Un'altra volta. Ecco, quel giorno Antonio aveva parlato, nel tunnel degli spogliatoi: “Ehi amico, chiedi scusa. Dico a te, bello. No, non a me. A lei: e non perché è arbitro, ma perché è donna. Chiedi scusa”. Ce l'aveva con Di Loreto. Lei era il guardalinee Cini, la signora Cini, appena presa a parolacce dal giocatore del Torino. E' lì che s'è innervosito, Antonio. Signore a modo suo. Il tentativo maldestro, irruente di difendere una signora. Cassano ha un'etica che nessuno conosce. E' un linguaggio che fa parte del suo mondo, della sua vita, dell'educazione. Non ci arrivi se non conosci da dove viene. Le origini non possono servire ad alimentare solo la retorica di quello che ce l'ha fatta. Sono lì a dire chi sei e perché lo sei. Sbagliato e maleducato, come no. Però torna tutto: non è follia, non è protagonismo. E' rispetto, deferenza, educazione. Su misura, personale, zero convenzionale. Antonio sfugge e sfuggirà sempre.
Non vuole dirti chi è, non lo dice neanche a chi gli promette di essergli amico. Cassano non si fida, non è cambiato in questo. Sempre così: chiuso, protetto, isolato. Troppi, però, dicono che sia un tipo impossibile. Ragazzo, basta. Dovrebbe bastare per tutti perché è vero, è un professionista e i professionisti devono comportarsi in un certo modo. Ma professionisti sono pure i voltagabbana che al prossimo gol si metteranno a ripetere come un ritornello stridulo: “E' un fenomeno, questo è il suo anno”. La verità è che con Tonino ci si permette quello che con altri non si può fare. Chi li tocca gli altri? Si giudica soltanto la prestazione, dicono. Ci sono fenomeni intoccabili e altri che si possono strizzare, perché è facile e perché in fondo non si difendono mai. Cassano sta qui: il suo ostinato silenzio è il lasciapassare all'invettiva, all'insinuazione, alla presa in giro. Va bene così: con lui hai sempre un titolo. Non giustifica i comportamenti, neppure quelli che alla fine riescono a sdrammatizzare un pallone ingolfato dall'acidità. Come quando Sky è andata a intervistare Gastaldello prima dell'ultima giornata di campionato e a un certo punto è spuntata un'auto che disegnava un otto sul campo d'allenamento della Samp. Finestrino giù: era Antonio, pronto a cazzeggiare fino all'ultimo. Questo turba, questo infastidisce. Infastidisce perché nel regno della falsità lui è così spontaneo da sembrare strafottente: se ne frega se lo guardano cinque, sei, sette milioni di persone, e lui dice all'allenatore “aspetta fammi giocare ancora”. Infastidisce perché è nato povero, è diventato ricco e oggi non vuole rinunciare alla sua ricchezza. Infastidisce perché i suoi colleghi più furbi si riducono lo stipendio firmando però contratti a percentuale con gli sponsor, mentre lui dice che “non mi ridurrò mai il mio compenso, non li ho chiesti io tutti quei soldi”. Infastidisce perché con quella faccia da adolescente brufoloso non fa presa nelle immagini televisive o sui set fotografici. Infastidisce perché in giacca e cravatta non gli piace stare, perché preferisce gli amici di Bari alle serate in vetrina, perché si porta a spasso i cugini disoccupati ai quali dà un lavoro. Infastidisce perché ha blindato la mamma dall'assalto delle telecamere. Infastidisce perché è immarcabile anche fuori. Forse di più: nasconde la sua vita, come un pallone a un avversario. Come prima, come sempre. E' un'abitudine, una forma di protezione. Sbagliato? Cassano non ha mai pensato di essere un giusto. Conosce i suoi difetti molto più degli altri, per questo ogni volta che ne fa una, poi torna indietro. “Chiedo scusa a tutti”. Parla con una voce strana in quei momenti. Scandisce, perché ha paura di non essere capito. S'è sforzato di migliorare i modi di esprimersi, ha lavorato su se stesso, sui limiti, sull'accento, sulla cadenza. A volte è così poco naturale da sembrare straniero. Non lo può sapere chi non ha visto il primo Antonio: allora il giudizio è facile, scontato, banale. Lui non pretende di essere compreso, non ora. Lo sa, allora si confessa: “Di tutto quello che di sbagliato ho fatto nella vita, forse rifarei tutto, tranne la sceneggiata col Torino. Se mi dici che cosa è successo, rispondo che se guardo le immagini mi riconosco, vedo che sono io quello lì, ma anche se mi sforzo di ricordare non ci riesco. Ho visto un telo nero davanti”. L'hanno visto gli altri quello che è accaduto. Basta.
Basta per dargli della testa di brodo, ma non per tutto il resto. Perché le polemiche sulla Nazionale? Perché dire “adesso s'è giocato l'Europeo?”. Non può tornare l'equazione: ti porto in Svizzera se ti comporti bene. Qui adesso gioca chi può far vincere una squadra, è stato convocato chi ha giocato meglio. Tonino non è il Baggio di Giappone e Corea 2002 che se Trapattoni l'avesse portato avrebbe dovuto giocare per forza: non perché meritasse davvero, ma perché gliel'avrebbe chiesto il paese. Antonio sta in panchina. Scaldati. E se gioca, gioca.
Il fatto è che se gioca allora è lui e quindi un dio, un dio pagano nato a Bari il 12 luglio 1982, come diceva uno striscione che per anni spuntava a ogni partita della Roma. Dodici luglio 1982, cioè l'ossessione dell'ossessione: la casualità spacciata per destino. Bello, straordinario e però pesante. Sta storia di Paolo Rossi che segna alla Germania e della signora Giovanna Perrelli che comincia ad avere le doglie. Il “predestinato”, gli hanno detto: nato mentre Martellini diceva campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo. Scusate, ma adesso che gliene può importare ad Antonio che il suo primo pianto era soffocato dalle urla di gioia di un paese intero? Semmai è un'altra sfiga, come quella di nascere in un sottano di un vicolo dimenticato. Avesse fatto il giocatore di bocce, avrebbero detto che nascere il 12 luglio 1982 era la dimostrazione che a lui del calcio non gli sarebbe importato una mazza: “Ma come, i medici non hanno neppure potuto festeggiare per colpa tua”. Adesso è costretto a rispondere tipo loop alla solita domanda: “Sono nato cinque ore dopo, perché non c'era un medico libero in tutta la città”. Funziona sempre, ormai ha imparato. Funziona tutto quello che va bene per il ritratto che gli hanno fatto e che non può cambiare: quello del riscatto sociale, del pallone come strada per la fine della miseria. Sono andati a fotografare strada San Bartolomeo, che è la via di Bari Vecchia dove è cresciuto Cassano. Flash: la bacheca con la Madonna, la porticina che dà sulla strada di chianche bianche. Sono diventate immagini di repertorio, la “copertura” di qualunque servizio su di lui, la testimonianza della povertà, la garanzia che la storia c'è tutta, eccome. Cassano ha parlato poco della sua infanzia e pare non sia stato neanche tanto ascoltato. Ha detto cose forti che sono passate in secondo piano: l'immagine più della parola. Hanno visto, invece di ascoltare: “Le mie difficoltà? Una su tutte, per me e mia madre: la fame. Noi non c'avevamo soldi per mangiare”. Qui si salta. Qui si va oltre. E' come se a un certo punto piombasse il pudore. A uno che ti dice così non gli puoi rinfacciare tutto. Che ne sai tu? Come fai a giudicare. Se si scavalca l'argomento, se si passa avanti si può essere severi. Antonio sbaglia e deve pagare. Punito sempre e mai perdonato davvero: “Se non avesse giocato a calcio, sarebbe finito nei guai”. Certo, perché uno che nasce a Bari vecchia non ha chance: o vince al superenalotto o va in galera. Forse va in galera anche se vince al superenalotto perché “tanti soldi danno alla testa, soprattutto se non hai studiato”.
Qui c'è la differenza con gli altri come lui. Con i maledetti non si torna mai indietro, non si scava a fondo, non si cerca la matrice della follia. Di Best si ricorda sempre la frase dell'uomo che lo scoprì: “Matt, credo di aver trovato un genio”. Cassano invece è stato sminuzzato persino quando ha parlato con leggerezza. Come quando ha raccontato sereno di quando giocava nel campetto abusivo del Castello di Bari: “Venivano in tre-quattrocento persone a vedermi. Magari avevo cinque anni e mi cercavano i ragazzini di dieci-undici, perché io li facevo vincere. Allora era normale che pensassi di essere il più forte. Anche al Bari, arrivato là, primo anno, fascia di capitano e numero dieci. Ma è normale. Dopo due giorni comandavo già io. Chi ha personalità anche da bambino si fa rispettare. Mi avevano già dato le chiavi della squadra: facevo cinque o sei gol a partita, non potevano fare diversamente”. Io al posto del noi. Sempre. Forse è questa una delle sue colpe: l'essere un anti-ipocrita, uno che sa di essere diverso, più forte, più capace e te lo fa vedere. Sbruffone, ecco. Però sincero, perché così gli ha insegnato non si sa bene chi e non si sa bene dove. Lo ripete spesso, anzi sempre. Come se il suo codice di comportamento prevedesse di raccontare prima agli altri che lui non è come gli altri, ma più folle. Le cassanate mettono le radici qui e allora si potrebbe cominciare con una: quella della bandierina rotta il giorno di Roma-Juventus. Quattro a zero, doppietta a Buffon. La sua partita, una delle sue, difficile e perfetta. Secondo gol: corsa verso la bandierina e calcione. “La dovevo spezzare. Collina, il grande Collina, è venuto e mi ha detto ‘Anto' non mi puoi fare queste cose qua'. E io gli ho detto: ‘Gigi capiscimi', avevo fatto una promessa. Al secondo gol che facevo avrei rotto la bandierina. Che dovevo fare? Alternative non ne avevo. Le parole si mantengono e ho rotto la bandierina”. Antonio non si giustifica. Spiega. E se uno vuole capirlo deve immergersi in un modo di pensare che inevitabilmente non è quello di tutti gli altri.
Il bello è che lui lo sa: consapevole di non c'entrare con il mondo, di scavalcare le regole. Costa? Lui se ne frega. Se deve pagare, paga. Preferisce la libertà di sbagliare alla costrizione di un comportamento che non gli calza. A Madrid è stato messo fuori rosa per una imitazione di Capello. Dicevano fosse l'unico capace di gestirlo: l'ha fatto fuori per uno scherzo. Era l'epoca del gordo, delle merendine, del comico spagnolo che lo imitava con un pacchetto di patatine sempre in mano e con una fame da lupo ogni volta. Ride, Antonio. Ride e ti dice che “mi assomigliava davvero”. Ride anche di Fiorello che lo prende in giro per la Ferrari, per il barese, per i modi da tamarro. Uno così serve all'Italia adesso e anche dopo: quello che avrebbe dovuto rompere lo spogliatoio pare che lo stia mettendo insieme. Litiga con Chiellini che gli entra duro. Non vuole farsi male, vuole giocare, vuole un posto. Non può essere sbagliato anche questo. Genova gli ha dato una faccia nuova, un fisico asciutto. I piedi sono sempre quelli, il corpo che difende il pallone anche.
Maggio: quando capiterà mai più a Christian Maggio di fare nove gol in una stagione? Senza Antonio è impossibile. E lui anche: undici gol nella Samp, quando nel suo anno migliore a Roma ne fece 14. E' magro, è in forma, è sereno. Pazzo è pazzo. Può sbagliare, può vincere. Questa è la sua rivincita: quattro anni fa fu l'unico e l'ultimo. Furono le lacrime dopo la vittoria inutile contro la Bulgaria. Le vedi ancora quelle immagini: fanno venire il magone perché Antonio eravamo noi quando giochiamo e crediamo di aver svoltato. Un cross indietro, il tiro al volo, il gol, la corsa. Non sapeva che era finita: lui voleva giocare, voleva continuare, voleva andare avanti. Il pallone, la porta, le scarpe senza sponsor perché chissenefrega se gioca bene con quelle adesso può anche rinunciare a mezzo milione di euro. Questo è il campionato d'Europa. Di Natale, Camoranesi, Toni. Donadoni pare abbia scelto. L'eroe che è rimasto parte seduto. Si alzerà, con l'Italia pronta a guardarlo. Numero diciotto. Bisogna segnarlo. Senza sponsor, senza giornali, senza padrini. Quelli arriveranno dopo, tranquilli. Diranno che la serenità è il suo merito o la sua colpa. Il personaggio deve stare al gioco: gli eroi vincono e perdono. Tanto qui vale tutto. Il microfono è lo svago, è il relax. Cassano è il primo a presentarsi agli allenamenti. Vuole un campo, due porte, un pallone. Non serve altro.
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