Fenomenologia del pettinino

Stefano Di Michele

Magari in un film con Raf Vallone, in un prezioso reperto con Amedeo Nazzari, nello squarcio di una conversazione in barberia come in certe pellicole genere “Divorzio all'italiana”. O, passando dal bianco e nero al colore, forse “Grease”: il lucido della brillantina spalmato con accorta devozione – sia chiaro, il film è del '78, però parla degli anni Cinquanta. Fatto sta che da decenni non si aveva notizia (almeno in pubblico) del pettinino.

    Magari in un film con Raf Vallone, in un prezioso reperto con Amedeo Nazzari, nello squarcio di una conversazione in barberia come in certe pellicole genere “Divorzio all'italiana”. O, passando dal bianco e nero al colore, forse “Grease”: il lucido della brillantina spalmato con accorta devozione – sia chiaro, il film è del '78, però parla degli anni Cinquanta. Fatto sta che da decenni non si aveva notizia (almeno in pubblico) del pettinino: celato nel taschino interno di ogni giacca di qualunque maschio italico fino agli anni Sessanta, era sparito dalla circolazione mentre apparivano i mangiadischi e la Fiat 127. Con due colpi veloci, a volte pure con languida lentezza, l'uomo sistemava la chioma, posizionava il riporto, rassettava la peluria. Manco fosse Danny Zuko innamorato di Sandy Olsson – e onestamente John Travolta aveva una chioma che come minimo meritava una candidatura – o un protagonista proletario del cinema neorealista, dunque Berlusconi, nel pieno della sfilata del 2 giugno, al centro del palco delle autorità, tira fuori l'utile e desueto attrezzo e, quasi voluttuosamente, lo passa sull'intricata composizione tricologica che lo sovrasta. Memoria condivisa, chiaro: un pettinino, pure qualche comunista l'avrà avuto. Attenzione nazionalpopolare, si suppone, con quel gesto un po' da edile a fine turno. Ennesima felice eversione – del senso comune, del senso mediocre – del Cavaliere: un esserci, ma un essere anche altrove, un sorprendere su terreni inaspettati (il pettinino, appunto, a chi mai poteva venire in mente? Gianni Letta, per esempio, si vede benissimo che è tipo da spazzola). Per dire: oggi va molto la pelata, e quindi il premier ha rivoluto – uno per uno, manco i voti brogliati alle antiche elezioni – i capelli; dovessero tornare le chiome, capace di radersi e ritrovare la maschia calvizie. Il gesto berlusconiano – proprio lì, in quel luogo di fasti repubblicani, tra il massimo dell'elevazione istituzionale e una sovrastante necessità di accasermamento – ha dunque questa duplice valenza: da un lato la pura e semplice provocazione di tempo e luogo (si prospetta la possibilità di un grande rilancio del borsello anni Settanta, da parte di fervidi seguaci certi d'interpretare un sentimento del capo); dall'altro, l'irrompere di una non secondaria faccenda: l'ostentazione dell'oggetto impresentabile – che suscita stupore o sarcasmo, invidia mai – in ambito politico. Questione che si potrebbe così definire: fenomenologia del pettinino.

    Che riguarda l'oggetto e riguarda il contesto. Per esempio, e stiamo al tema: il riporto, come va giudicato? Oggetto non è, ma nel contesto politico c'è. Per evitare l'imbarazzante e sempre malriuscito ripiegamento, Berlusconi ha provveduto, diciamo, a quella sorta di apposita moquettatura. Renato Schifani, che il riporto ha gloriosamente innalzato per anni, ha proceduto a un drastico taglio, e immediatamente si è ritrovato uomo di stato. Ora, il ministro Andrea Ronchi, che di suo ha una sorta di aurea bionda sospesa sul capo – da lontano, il colore acceso e l'impalpabile sostanza, un'evanescenza tra il vedo e l'intuisco, fanno venire in mente, beninteso solo tricologicamente, certi ritratti della regina Elisabetta I Tudor, una solennità di boccoli sottili astutamente ripartiti e di perigliosa tenuta: come si regolerà, col pettinino, nel corso degli impegnativi confronti con i colleghi, a livello europeo? Sdoganato dal leader delle libertà, l'utensile troverà adeguato sostegno nella squadra di governo, pure a livello di politiche comunitarie? I più banali, in maggioranza come nell'opposizione, di fronte al pettinino berlusconiano potrebbero optare per qualcosa di più tecnologico, “il pettine laser contro la calvizie” che è possibile scovare su Internet – “già in vendita nel continente europeo”, e quindi a livello di Ue c'è l'adeguata copertura – ma si tratterebbe di una banale scorciatoia. Bisogna stare al merito per rispondere, in maniera adeguata, all'affondo del Cavaliere: a oggetto impresentabile bisogna rispondere con un oggetto ancora più impresentabile. Cose tipo un tagliaunghie apertamente ostentato e soprattutto in funzione per intendersi. L'avvio della nuova legislatura promette discrete soddisfazioni. L'impresentabile si fa sempre più facilmente presentabile. Se da un lato colpisce felicemente l'arcaismo del pettinino, dall'altro sorprende il modernismo dell'onorevole berlusconiana Elvira Savino, che ha debuttato a Montecitorio con ai piedi un paio di sandali “tacco 12-14 di Gucci”, e con la seguente giustificazione: “Li ho scelti d'istinto, mi piacevano, pensavo che anche le altre...”. D'istinto. Hanno preso parecchio spazio, quei tacchi, nelle recenti cronache parlamentari. “La Russa mi ha detto che ero elegante”, ma questo prima di passare a visionare gli anfibi militari al ministero della Difesa. “Però ora giudicatemi per il mio impegno, non per i miei tacchi” – ma chissà se si libererà più dell'inaspettata vertigine raggiunta il primo giorno. La tentazione dell'oggetto di difficile motivazione, del manufatto oggettivamente impresentabile, è sempre in agguato. Uno si aspetta molto, ma mai abbastanza.

    Per esempio, nei corridoi di Montecitorio, si parla con rapita curiosità di un portamonete in dotazione all'onorevole Roberto Giachetti, del Pd. Se ne narrano meraviglie, tipo i calendarietti dei barbieri nelle parole di chi non li aveva. Dunque, l'oggetto in questione è a forma – e come eufemismo è l'unico che viene – di sesso femminile, in senso non metaforico quanto anatomico: si apre spingendo il lato superiore e quello inferiore, e si inseriscono gli spiccioli. Acquistato, pare, in un negozio di dischi di New York, perciò con quel qualcosa di peccaminoso che le cose estere, pure in pieno Transatlantico, sempre si portano dietro. Deve essere la versione soft, quella dell'onorevole Giachetti: su Internet si può incappare in una roba del genere, ma arricchita da una fitta pelliccia circostante, forse la versione hard: a prima vista, dà l'impressione di portare in tasca un furetto nano. Se molti si ripromettono maggiore attenzione, quando saranno in fila alla cassa della buvette per pagare il supplì, al portamonete del collega democratico, già oggetto di cult da anni è l'imperdibile cinta di coccodrillo chiara, o comunque pare coccodrillo chiaro, se pure esistono i coccodrilli chiari – eleganza da entroterra ligure – sempre e comunque esibita dall'onorevole Massimo Zunino, collega di partito di Giachetti. In pochi mesi, oggetti desueti sono tornati in auge, hanno conquistato un posto, se non nel dibattito politico, quantomeno nell'immaginario politico – e oltre. Così, chi mai potrà ignorare, in futuro, cos'è stato l'irrompere dell'autoreggente di Michela Vittoria Brambilla – scivolato in bella vista sulla poltrona traditrice di Porta a porta – sulla scena politica: così forte, l'impatto, che la berlusconiana con le gambe temerariamente accavallate è stata immortalata persino come statuina nei presepi napoletani – e dove l'avranno mai messa: vicino ai pastorelli? in groppa a un cammello? L'oggetto impresentabile che sfugge al controllo o che si decide di ostentare, distrazione o sfida, acquista col tempo, giornalisticamente, quasi una sua vita propria. Nel caso, si può ricordare in passato il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, in mutande su richiesta degli stilisti, “un'espressione spontanea del momento”, reso poi eterno dall'imitazione di Teo Teocoli. E' stato un capofila, Albertini. La mutanda, pur invisibile, è quanto di più vicino al quotidiano impresentabile in cui è possibile incappare. Per degnamente celebrare La Russa planato tra i marescialli, Fiorello ha composto un apposito inno, dove il ministro appunto somministra consigli su come ha da essere un vero uomo, divisa o non divisa. Prioritaria, la mutanda. “Mutanda Ragno!”, esulta Fiorello, “con la lana sulla pelle”.

    Ora, la questione della mutanda militare ha un suo fondamento, non è solo cosa da showman. Franco Grillini, leader storico dell'Arcigay, per due legislature deputato (ha appena pubblicato da Rizzoli “Ecce Omo, 25 anni di rivoluzione gentile”), si danna l'anima dietro la mutanda. Sua, nel caso, non solo altrui. Perché, l'onorevole Grillini è un aperto estimatore della mutanda militare di un tempo. “Quelle bianche, ascellari, che mi coprono anche metà della pancia, me la tengono calda e non hanno l'elastico nell'inguine. Reso bene l'idea?”. Alla perfezione. “Il problema è che non si trovano più, tutti vogliono quelle mutande da ragazzotti con l'elastico alto, tanto per far vedere il pacco”. E i suoi fidanzati gradiscono questa sorta di intimo da regio esercito? “Moltissimo. Ai miei fidanzati piace il cinquantenne con la pancia: eccomi qua. Come dicono a Bologna, ogni badile ha il suo manico”. Sarà. Ma a volte davvero l'oggetto impresentabile in politica ha a che fare con questioni di abbigliamento. C'è chi ricorda una parlamentare che vestiva, diciamo, piuttosto rumorosamente. Nel genere: completi attillati, tendenza pitonata. E che un giorno, mentre entrava alla Camera sotto l'occhio parecchio interessato dei due soldatini di guardia al portone, fu salutata con una micidiale battuta da Teodoro Buontempo che arrancava dietro di lei: “Aho, fate largo lì dentro, che mo' arriva la società civile!”. Oggetto parecchio rimirato, in Parlamento, è così anche la sahariana di Ermete Realacci, leader di Legambiente e ministro ombra di Veltroni: mai avvistato con una giacchetta normale. E il tira e molla per riuscire a restare combinato come un esploratore è durato a lungo, ma alla fine l'ha spuntata. Anni fa, un deputato di An chiese al presidente Casini di prendere provvedimenti contro il capo d'abbigliamento di Realacci. Casini ne promise di definitivi. “Richiamerò l'onorevole Realacci quando potrò richiamare tutti all'uso della cravatta. Attraversiamo un momento delicato, mi riservo di fare in futuro un richiamo collettivo”, disse all'aula attenta. Che si fece subito disattenta. E lì finì. Tanto che poi in Aula il verde Paolo Cento detto er Piotta riuscì ad entrare – e si trattò di un altro oggetto che diventava particolare nel contesto – con un giubbotto ottimo per seguire le partite della Roma in curva care all'onorevole. E non l'hanno messa alla porta? “Macché, forte del principio: il popolo m'ha eletto, voglio vedere chi non mi fa entrare, sono entrato in Aula...”. Poi, ad aprile il popolo non l'ha rieletto, ma questa è altra faccenda rispetto all'impresentabile giubbotto parlamentare. E almeno un occhio, con l'arrivo della bella stagione, sempre si butta ai piedi del ministro Roberto Calderoli, per anni apertamente ostile al calzino in presenza dell'afa. Quelli di destra se la presero con Di Pietro che, ministro del governo Prodi, andò in Aula in jeans. Del resto – ricordare sempre: oggetto e contesto – decenni fa il presidente Pertini rimandò a casa a cambiarsi d'abito Bettino Craxi che si era presentato, pure lui, al Quirinale con i jeans. Mentre, presidente della Camera, negli anni Settanta, era tollerante con gli innovativi zoccoli in legno della neodeputata Emma Bonino, che rimbombavano sul marmo del Transatlantico – e mettevano di malumore anche alcuni deputati comunisti. C'è chi ha sghignazzato sulla cravatta scelta da Fini il giorno dell'elezione a presidente di Montecitorio (come Roberto Cotroneo sull'Unità), e chi l'ha fatto osservando le sue foto al mare con un “costumino ascellare da Fantozzi”.

    Molti sono i semplici oggetti che scandiscono una fase, o solo sollevano curiosità nel mortorio di certe sedute a metà settimana. Il pettinino è al momento un ritrovato di modernariato quasi irraggiungibile, ma ci fu il tempo in cui tutti copiavano il presidente Casini, che tra i primi indossò quegli occhiali curiosi che si allacciavano davanti, sul naso, con una sorta di calamita. Fortuna che a nessuno è venuto in mente di andare dietro all'ex ministro Giuseppe Fioroni, con i pince-nez appesi al collo: un fiorire di simil cavouriani sarebbe stato devastante. Al contrario, grosso parapiglia sulla croce celtica al collo di Gianni Alemanno fatta esporre da Daria Bignardi, con conseguente dibattito sui giornali e in Rete: “Ma saranno cazzi suoi perché la porta o no? Vogliamo anche vedere se porta le mutande nere con la svastica?” – che certo sarebbero un oggettino di discreta impresentabilità. Una meraviglia, che potrebbe benissimo fare il paio con il pettinino, invece quella del senatore Nino Strano di An: i ventagli da uomo, “monocolori e di colori diversi”. Effetto un po' Carmen? Strano ride divertito: “Il ventaglio è un oggetto raffinato, non dedicato solo alle donne, che serve per rinfrescarsi nei momenti di calore. Nel Settecento, in Francia, gli uomini si sventolavano senza suscitare scandalo”. Ne ha un'intera collezione, Strano, “e poi, scusi, ha presente che razza di aria condizionata c'è in Parlamento? Così, provvedo”. Se in Aula Strano tira fuori il ventaglio, mentre Berlusconi si aggiusta le chiome col pettinino, sarà un momento bellissimo. Come e meglio di quello tra i generali e le ausiliarie, ai Fori Imperiali. Che del resto, stranezza per stranezza, un giorno videro pure il presidente Bertinotti assistere alla parata militare con la spilletta pacifista sul bavero. Un momento indimenticabile: mai messi peggio un oggetto e il suo contesto.