Il geronzismo
I duellanti - terza puntata / 2
Perché non era stata mai usata la parola geronzismo? Probabilmente perché il geronzismo viene interpretato innanzitutto come prassi. Il che è vero, ma non è tutto.
Il geronzismo
Perché non era stata mai usata la parola geronzismo? Probabilmente perché il geronzismo viene interpretato innanzitutto come prassi. Il che è vero, ma non è tutto.
Il 30 novembre del 2007 sul Sole 24 Ore viene pubblicato un documento piuttosto interessante per chi ama questo genere di analisi: intervista di Ferruccio de Bortoli, direttore del quotidiano, a Cesare Geronzi. E' una testimonianza diretta. Geronzi che spiega il geronzismo. Idee franche, nessuna fumosità, quello che si può dire si dice, quello che non si vuol dire non si dice. L'obiettivo non è un'idea generale del mondo – il progetto – ma sistemare il quadro dei rapporti perché le cose possano andare avanti. Giudizi chiari sulle persone, sulle condizioni del risiko finanziario, sui programmi. Sui fondi per esempio: “Il fondo del Dubai (il più importante sovereign fund del mondo, ndr) sarebbe benvenuto nell'azionariato di Mediobanca e Generali, magari con una quota modesta non superiore al due o tre per cento. Una quota così l'ha avuta persino Danilo Coppola, figuriamoci se dovremmo dire di no a questi investitori”. Accoglie la sfida con i suoi detrattori, riguardo ai suoi rapporti con Vincenzo Maranghi, che erano stati oggetto di un piccolo giallo e di una polemica famigliare. Poco dopo la morte dell'ex ad di Mediobanca, la famiglia di Maranghi aveva negato che ci fosse stato un riavvicinamento tra i due, che erano stati avversari feroci: “Quando andavo a trovarlo, su suo invito, non ero un fantasma”.
La prassi geronziana si esprime molto francamente, anche nella mediazione dell'intervista. Fino quasi a essere brusco, se si riflette sul tono estremamente cauto con cui si esprimono di solito gli uomini di potere italiani. Dice di Profumo che vorrebbe uscire da Rcs, ma in realtà non vorrebbe (e comunque ne esce sapendo che Mediobanca, da lui partecipata, resta il primo azionista del Corriere della Sera): “Coerenza è una parola complessa, caro direttore”. E quanto al suo Féraud o d'Hubert – a seconda dei punti di vista – de Bortoli riferisce: “Geronzi ci tiene a sottolineare la sincerità del suo rapporto amichevole con il banchiere rivale: ‘Non mi era piaciuta l'intervista che le aveva dato (22 maggio 2007, ndr) nella quale esprimeva delle preoccupazioni sull'indipendenza di Mediobanca. Se avesse avuto la pazienza di ascoltarmi, prima di parlare pubblicamente, ogni dubbio sarebbe stato fugato. Ed è quello che poi è avvenuto”.
Dall'intervista esce perfettamente chiaro il quadro dei suoi rapporti, a parte un ragionevole spazio per le interpretazioni. Per esempio di Antoine Bernheim, il presidente delle Generali, dice che può restare a Trieste, ma i fondi devono fare il loro mestiere: il che significa in realtà che senza l'intervento di Algebris e di Davide Serra, l'operazione di avvicendamento di Bernheim sarebbe stata molto più semplice. E infatti l'attivismo di Serra ha contribuito a lasciare Bernheim a Trieste almeno per un altro anno.
Il geronzismo è innanzitutto analisi sul campo dei rapporti di forza e capacità di misurare le persone. Applica una visione di gioco alla Platini o alla Kempes (per chi ricorda Kempes). Estrema semplicità e immediatezza. Quando da presidente di Capitalia deve procedere alla fusione con Unicredit affida un incarico di consulenza a Claudio Costamagna, già banchiere presso Goldman Sachs, in buoni rapporti con Romano Prodi attraverso Angelo Rovati, grande amico di entrambi (Costamagna ne è stato testimone di nozze). Quando si raffredda con Fazio all'irrompere di Fiorani, poco prima dell'avvio delle scalate bancarie del 2005, passa a organizzare la difesa del sistema dell'establishment minacciato dai cosiddetti newcomer, raccolti attorno al disegno di potere del governatore. La duttilità e il fattore a-ideologico non sono una forma di andreottismo. Geronzi riempie il vuoto incorporando subito l'esigenza di cambiamento, la necessità del sistema bancario di giocare d'anticipo.
Una volta a qualcuno che gli chiedeva se al posto di Profumo avrebbe fatto l'operazione con la tedesca Hvb rispose di no, con la mia storia non avrei potuto farlo, ma lui fa benissimo a farla. Nella sua generazione il capo di Mediobanca è stato il primo a percepire il sopraggiungere delle trasformazioni. Nel suo caso ha accettato l'avvento della mentalità profumiana che non è la sua, non sempre la condivide, ma ritiene che rappresenti il futuro.
Nell'intervista a de Bortoli rievoca un passaggio chiave della sua storia personale, 1999. L'opa da parte di Sanpaolo Imi su Capitalia, mentre Unicredit attaccava la Comit. Lo chiama Cuccia: “Mi telefonò un po' rattristato e mi disse: ‘Io mi occupo della Comit, lei se la cava certamente da solo'”. Disse a Gianni Agnelli che sarebbe stata una guerra senza quartiere. Agnelli, importante azionista del Sanpaolo e uomo non incline al conflitto, soprattutto quando avvertiva la fondata minaccia di una sconfitta, fece cambiare idea ai torinesi.
Lo stesso tipo di schema privo di eccesso di elaborazioni, lo ritroviamo in questa fase, nella costruzione di un asse – reso più visibile da quando sta più di frequente a Milano – con Giuseppe Guzzetti, capo della fondazione Cariplo, leader delle fondazioni bancarie italiane (è presidente dell'Acri), e anche azionista di peso di Intesa Sanpaolo. Nell'intervista a de Bortoli ne parla apertamente. Spiega che Mediobanca vuole aprire alle fondazioni anche perché le fondazioni sono state importanti nella stabilizzazione del sistema bancario italiano, hanno reso possibili le aggregazioni diluendo le loro partecipazioni. “E il merito principalmente va a una sola persona: Guzzetti”.
Geronzi ha incessantemente tessuto alleanze, facendo leva sul suo mestiere di banchiere. Ha assistito la Fininvest in una fase decisiva della sua storia, l'ha quotata in Borsa, ha ristrutturato il debito dei Ds, ha dato una mano al quotidiano Il Manifesto. Dice uno studioso di geronzismo: “E' uno che ha accumulato un enorme vantaggio su tutti gli altri”. Ha rapporti che vanno da Silvio Berlusconi e Gianni Letta a Francesco Cossiga, da Oliviero Diliberto a Pier Ferdinando Casini, a Massimo D'Alema. Ha ricucito le tensioni con Giulio Tremonti, con cui ci fu uno scontro durissimo ai tempi di Parmalat. Il pragmatismo geronziano – calato nel contesto di un paese liquido, frammentato, privo di poteri stabili, fatto di pochissime grandi imprese capitalistiche veramente solide, alle prese con un processo di ricambio della classe dirigente economica, e dei ricchi – è stato oggetto di questioni giudiziarie o di inchieste giornalistiche: Cirio e Parmalat. Geronzi ha resistito alle spallate. Che significa? Che questo genere di pragmatismo, che a suo tempo ha dovuto contemperare le esigenze del sistema economico-finanziario e l'esistenza della bad bank, ha macinato quella fase culturale, l'ha superata e oggi Geronzi – con il suo senso culturale di rappresentazione di un aspetto del carattere nazionale, cioè quel misto di tenacia, adattamento alla transizione, aggiustamenti possibili della realtà – assicura, a una larga parte della classe dirigente italiana, affidabilità. Può essere utile un esempio. La Fiat è sempre stato una specie di test nazionale. All'inizio del 2002, il gruppo torinese era in grandi difficoltà. Non era tecnicamente sull'orlo del fallimento, ma era sottoposta a enormi tensioni finanziarie. Due banche avevano interessi specifici legati a Torino. Intesa, che ereditava l'esposizione di Fiat con Ambroveneta, Cariplo e Comit, e San Paolo preoccupata della situazione del sistema economico in Piemonte. Ma a guidare la complessa operazione di stabilizzazione finanziaria – a cui poi avrebbero partecipato anche Unicredit e altre banche – che portò al debito convertendo da tre miliardi di euro e a un pacchetto di azioni connesse (cessione della partecipazione in Italenergia, vendita di Toro e Fiat Avio, la joint-venture Fiat-banche in Fidis, l'avvicendamento dell'amministratore delegato) fu la Capitalia di Geronzi, cioè la più piccola delle banche italiane influenti, paragonata alle grandi Unicredit e Intesa. (Bazoli intervenne successivamente in quel dossier con la visita a Gianni Agnelli nel dicembre 2002, mediando il contrasto tra Umberto Agnelli e Paolo Fresco).
Era in gioco il salvataggio di unsoggetto economico la cui forza è compreso tra il 3 e il 4 per cento del pil italiano. Il ruolo di Geronzi dipendeva da una parte dal fatto che era lui a tenere il collegamento con il governatore della Banca d'Italia, che condivideva le preoccupazioni sulla necessità della stabilizzazione finanziaria della Fiat, dall'altra da una specifica abilità personale nella coesione del sistema, che andava dall'amicizia nata con Paolo Fresco alla diplomazia nei rapporti con le altre banche.
Probabilmente la cultura di Geronzi funziona perché – in un paese sempre alle prese con rese dei conti (in sospeso), scontri politici ed economici, vittorie a metà – è una tecnica non divisiva della stabilità.
D'Hubert e Féraud
C'è una forma di lealtà nello scontro. Si vedono, rispettano un cerimonioso galateo, fatto di precedenze, di visite reciproche, di un tu non affettato. Quando Geronzi è stato sospeso, Bazoli gli ha scritto una lunga lettera personale (nessuno a parte i due ne conoscono il contenuto, del resto D'Hubert non dice a nessuno in che cosa consiste l'offesa che avrebbe arrecato a Féraud, e Féraud nemmeno), quando Bazoli si è rotto un piede Geronzi è andato a trovarlo.
Ma non è corretta la domanda su chi vincerà il duello. Già dal 2005 molti osservatori ragionano sul generale riassetto del sistema economico e finanziario. All'epoca c'era la sistemazione della questione Fiat (che finora si è risolta da sola), il completamento del consolidamento bancario, l'avvio di una strategia di irrobustimento di alcune aziende nazionali in grado di giocare nel campionato dei player globali e nell'aggiustamento di tre o quattro partite locali, a partire da Telecom e Rcs. A un certo punto era sembrato che il ruolo di promotore di un generale accordo potesse essere interpretato da Carlo De Benedetti assieme a Berlusconi. Era stato il momento del fondo salva imprese M&C. Idea svelta di De Benedetti, contrastata dal pensiero ortodosso dei tanti vicini e tifosi dell'Ing. e del Cav. che li volevano così, avversari.
Oggi è chiaro che la pacificazione dovrà avvenire sull'asse classico Mediobanca-Generali. Il processo, già avviato nella vicenda Telecom con la nomina di Franco Bernabé, e risolto nell'assetto raggiunto su Rcs con la conferma di Paolo Mieli alla direzione del Corriere e di Piergaetano Marchetti alla presidenza dell'editoriale, è ancora da definire su Generali e sul tono complessivo degli equilibri finanziari e del loro intreccio.
Nei rapporti tra Geronzi e Bazoli ci sono due elementi nuovi da valutare: innanzitutto la conclusione dell'esperienza politica di Prodi che priva Bazoli di un riferimento naturale; il secondo, al primo strettamente collegato, riguarda il modo in cui il mondo che guarda a Berlusconi cercherà di entrare in dialettica con le banche. Otto anni fa, il centrodestra cercò di forzare il sistema finanziario, soprattutto quello milanese. Ma Ermolli non violò la fondazione Cariplo e Giulio Tremonti non indebolì il potere delle fondazioni di Guzzetti. Certo, Tremonti chiede alle banche sacrifici fiscali, ma in generale sembrerebbe che l'interesse prevalente del centrodestra, a cominciare dallo stesso Tremonti, sia quello di stabilire una relazione durevole con l'establishment economico-finanziario.
Un uomo chiave potrebbe essere Passera. Prima delle elezioni ha aperto a Berlusconi, anche perché la natura dei rapporti con Bazoli si è modificata, entrando in una fase strutturalmente dialettica. Dunque Bazoli si è indebolito perché non c'è più Prodi (e non sarà facile sostituirlo con un altro riferimento) e perché Passera è cresciuto anche nel rapporto con gli azionisti di Intesa. Se a questi elementi si aggiunge la stabilizzazione della diarchia tra il sistema Intesa Sanpaolo e il sistema Unicredit-Mediobanca, e una caratteristica personale più aperta alle soluzioni nuove, la posizione di Geronzi risulta più forte di quella di Bazoli; soprattutto nella prospettiva di dare l'impulso per la conclusione del processo di stabilizzazione.
Resta, nella loro storia, un elemento letterario, una sfumatura di psicologia del potere e di radicale italianità. E' una storia di competizione e collaborazione. E' loro dovere essere amici agli occhi del mondo, comunicare prima o poi solennemente, alla presenza morale dei generali Féraud e d'Hubert, che la loro vertenza si è conclusa una volta per tutte. Non una riconciliazione, che non ce n'è bisogno. Qualcosa di più vincolante, l'accordo.
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