Il bazolismo
I duellanti - terza puntata
Il bazolismo è una mentalità, la banca per il paese, più un progetto concreto di potere, culturalizzati in una specifica sensibilità egemonica dai connotati letterari, un misto di valorialità e ruolo sociale. Innanzitutto c'è il rapporto con la politica. Ovvio che una banca con 500 miliardi di euro di attivi e 300 di raccolta è un soggetto di mercato. Ma Bazoli è un banchiere con una sua personale storia politica.
La bazolitudine
Tra la fine del 2006 e il principio del 2007, dopo la fusione tra Intesa e Sanpaolo Imi, il Foglio provò a ragionare sul ruolo assunto da Bazoli e sulla filosofia che ne emergeva, il bazolismo. Massimo Mucchetti in un articolo sul Corriere del 25 febbraio del 2007, obiettando sul confronto tra Féraud e d'Hubert, si chiese perché esista il bazolismo e non il geronzismo o il profumismo? Perché – è la risposta – il bazolismo è una mentalità, la banca per il paese, più un progetto concreto di potere, culturalizzati in una specifica sensibilità egemonica dai connotati letterari – un misto di valorialità e ruolo sociale.
Proviamo a dare un'occhiata alla struttura del bazolismo.
Innanzitutto c'è il rapporto con la politica. Ovvio che una banca con 500 miliardi di euro di attivi e 300 di raccolta è un soggetto di mercato. Ma Bazoli è un banchiere con una sua personale storia politica. E' stato uno dei fondatori dell'Ulivo, gli fu chiesto di prenderne la guida, ha vissuto in una famiglia appartenente alla lunga tradizione di cattolicesimo lombardo manzoniano, che a Brescia è quello dei Tovini, Montini, Camadini, Bazoli, un tempo contrapposto alla tradizione zanardelliana laica dei Soncini, Rampinelli, Whurer. Lui è nipote di uno dei fondatori del partito popolare; suo padre Stefano è stato deputato costituente, amico di don Primo Mazzolari (figura rilevante del clero italiano dell'epoca, prete intellettuale e sociale), e socio di studio del fratello di Paolo VI; suo fratello Luigi faceva politica, suo cognato – marito di un'altra delle sorelle Whurer – è Sandro Fontana, a lungo senatore, direttore del Popolo e vicesegretario della Dc; suo genero viene da un'altra storica famiglia politica bresciana, i Gitti. La storia lo ha lambito nella tragedia, quando Giulietta Banzi, sua cognata, muore a piazza della Loggia. Ha svolto un apprendistato politico in quella anticipazione culturale del futuro partito democratico che era stato il magistero di Beniamino Andreatta, di cui Bazoli fu insieme con Prodi un'astrazione, ma fortunata. Bazoli è politico, ulivista e profondamente antiberlusconiano. Nel 2004 disse che la concentrazione di potere di alcuni gruppi d'informazione “può inquinare lo stesso gioco democratico, dimostrando l'insufficienza delle regole procedurali classiche delle democrazie rappresentative, come il rispetto della trasparenza e della par condicio nelle gare elettorali, l'equilibrio dei poteri, la tutela delle minoranze”. Poco prima delle elezioni del 2006, aveva espresso le sue preoccupazioni sullo stato della democrazia in Italia: “Avverto un diffuso senso di incertezza e preoccupazione sulle sorti dell'economia e della democrazia”.
Per simmetria, Bazoli è stato naturalmente politico nel rapporto di cuginanza con Romano Prodi. E qui emerge un secondo elemento interessante. Non che Bazoli ne sia stato il braccio economico o che Intesa Sanpaolo sia nata su impulso del governo Prodi o che siano stati d'accordo su singole scelte operative. Più semplicemente, sono stati alleati naturali. Gli avversari dell'uno o dell'altro hanno cercato di separarli. Per esempio, nel 2006, Massimo D'Alema, ancora reduce dalla sconfitta del 2005 (caso Unipol-Bnl), dunque privo di una banca, essendo sospettoso delle manovre bazolian-prodiane, provò a fare un po' di gioco di interdizione sulla partita Generali. E la mossa fu un messaggio a Bazoli: conoscendolo un po' – disse D'Alema in una intervista al Sole 24 Ore – non credo proprio che sia la longa manus di Prodi.
Lui stesso, Bazoli, ha sempre tenuto a sottolineare il senso del suo rapporto con Prodi. In un'intervista concessa ad Aldo Cazzullo nell'aprile 2007, Bazoli rievoca l'ultimo incontro con Nino Andreatta, quando il suo mentore gli propone la guida dell'Ulivo, è l'otto dicembre del 1999. “Nino – ricorda Bazoli – mi parlò a lungo, per due ore della possibilità che io prendessi il posto di Prodi partito per Bruxelles (…) Intesa nel senso alto di una missione, l'attività politica è uno dei più appassionanti e nobili sentimenti umani. E non posso certo dire che la politica sia estranea ai miei interessi e alla tradizione della mia famiglia. Ma obiettai ad Andretta che mi trovavo in un grande impegno e responsabilità, perché la banca stava attraversando la difficile integrazione tra Comit e Cariplo. Aggiunsi che non mi sentivo tagliato per sostenere campagne elettorali giocate prevalentemente sul piano mediatico, dove sarebbero servite attitudini diverse dalle mie. Ma lui nei giorni successivi si mosse come se avesse registrato una mia disponibilità. Forse perché già una volta, come ho detto, le mie resistenze a un suo invito erano poi state superate…”. Cazzullo aggiunge per chiudere il racconto: “Tre giorni dopo, Andreatta riunì i parlamentari del Ppi e tracciò un profilo del ‘federatore' in cui tutti riconobbero la figura di Bazoli. Ma a chiedergli se Andreatta sarebbe riuscito a convincerlo se due giorni dopo non si fosse accasciato sui banchi della Camera, Bazoli non risponde”. Ammissione implicita – questo silenzio – del fatto che Bazoli si è sempre considerato in una condizione del tutto paritetica a quella di Prodi, anzi: sei lì, anche perché non ci sono io (ma questo il capo di Intesa non lo direbbe mai in questi termini).
Terzo elemento specifico della bazolité. La letteratura corrente ha visto in Bazoli un nuovo Cuccia, un regista del sistema economico e finanziario. In realtà Bazoli non è tanto uno stabilizzatore del sistema, ma il portatore di una strategia, di un'idea, di un progetto maturato in 25 anni: mettere insieme una grande banca, possibilmente una grande assicurazione, una certa influenza sul sistema dell'informazione, per svolgere una politica economica. Come molti altri protagonisti del risiko, ha in mente un paese che partecipi al gioco economico delle potenze mettendo al riparo alcuni gioielli. Ancora nel 2004, regnante Antonio Fazio, la sensibilità bazoliana era vicina a quella del governatore: “E' nei fatti – spiegava – che la presenza di banche straniere in Italia sotto forma di partecipazione nell'azionariato di istituti di credito, anche dei maggiori, è una realtà che in altri paesi non trova corrispettivo”. Coltiva una visione di moderato protezionismo, non dissimile da posizioni analoghe che osserviamo in protagonisti dell'economia nel resto d'Europa. Ha rovesciato il rapporto con i francesi di Crédit Agricole e li ha fatti fuori puntando alla fusione con Torino, quando si è accorto che cominciava a essere difficile arginarli.
Bazoli ha creato la cultura della sua banca, la banca al servizio del paese. E questa culturalizzazione è la differenza rispetto a Profumo o a Geronzi. Ovvio che questa visione deve combinarsi con il potere e con gli affari. Nel bazolismo esiste la prassi del potere. Dice Gallo sulla genesi di Intesa e sul ruolo del presidente: “Tra le banche socie che si sono avvicendate nella compagine sociale possiamo annoverare una buona parte del sistema bancario italiano e qualche istituto estero, ma una sola banca è rimasta socia dall'inizio fino a oggi: la sua, la San Paolo di Brescia. Che tra le sette fondatrici (del Nuovo Banco Ambrosiano, ndr), era la più piccola (e, allora, aggiungo per conoscenza diretta, anche la più fragile)”. La difesa appassionata degli interessi è valsa in questi anni per la vicenda Rizzoli (con un fortino costruito a partire dalla quota Mittel) o nell'interazione con il mondo cattolico. Bazoli ha sempre coltivato il suo cattolicesimo. Considera fondante della sua personalità l'amicizia con il cardinal Martini. Ha fatto parte del gruppo cultura etica finanza con Angelo Caloia, Roberto Mazzotta, Tancredi Bianchi, Lorenzo Ornaghi, Alberto Quadrio Curzio, Luigi Roth, Gianmario Roveraro, il gotha della cosiddetta finanza bianca. Un tempo questa era una bandiera. Oggi è un tratto costitutivo messo in discussione proprio dai cattolici. Mino Martinazzoli, amico personale di Bazoli, dice a Walter Riolfi in un'inchiesta pubblicata dal Sole 24 Ore, il 20 gennaio 2007: “La presenza, se si vuole ingombrante, di Bazoli, è solo il segno di un nuovo capitalismo finanziario, quello delle grandi banche e non ha più nulla a che fare con le tradizionali radici cattoliche”. Nel ragionamento sul bazolismo interviene una variante sul legame tra la cultura cattolica e l'esercizio del potere bancario. Sono gli stessi cattolici che dicono: possono essere cattolici gli uomini, non le banche, le banche fanno le banche.
Quanto al rapporto tra visione e affari, è vero che nel fondo infrastrutturale F2I, derivazione – finora quasi non operativa – della politica interventista della Cassa depositi e prestiti non c'è solo Intesa, c'è anche Unicredit. Ma soltanto un anno fa Intesa si presentava come il polo bancario di un fronte di cultura politica intorno al quale cementare l'alleanza con il Tesoro e con le fondazioni che partecipavano al fondo.
Gli appassionati di questo tema, credono in un quarto elemento che esprime pienamente il bazolismo, e senza il quale l'espressione non avrebbe senso: nel bazolismo c'è una specie di ricerca continua, seduttiva e avvolgente dell'egemonia, generata da un mandato. Nella rappresentazione del sé, questo mandato arriva in forma pattizia dall'élite. Bazoli la rivendica nel caso di Agnelli (la potestà sul Corriere affidatagli in un incontro a Torino con lui già molto malato, nel dicembre del 2002), di Andreatta (l'Ulivo), di Cuccia (la Comit). Il mandato si esercita in una forma di dittatura dei buoni identificati volta per volta in un bravo manager da lodare, in uno scrittore da leggere, nell'apprezzamento di un editoriale di Claudio Magris (un uomo che piace molto al professore), nell'amicizia con Martini, o nella nomina di Virginio Rognoni, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura nel consiglio di amministrazione di Rcs. I buoni appartengono al campo dei valori che sono per esempio coesione, giustizia, costituzione, politica e/o attività pubblica come servizio, mentre nel campo avverso militano l'ostentazione, l'ipocrisia, le stock option.
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