Il magnifico Buffon
Gigi è la sua mano destra. La stessa che ha sbagliato contro l'Olanda. Sbagliato: lo sa lui, lo sappiamo noi. Solo che non si dice perché fa paura, angoscia, spavento. Buffon non può fallire anche quando fallisce, quindi è impossibile che quella respinta sia stata un errore. Dev'esserci qualcosa che non va, magari un effetto ottico, un dettaglio che non si vede ma c'è. E' il pudore nei confronti del più forte, il terrore dell'ultima certezza che crolla.
Gigi è la sua mano destra. La stessa che ha sbagliato contro l'Olanda. Sbagliato: lo sa lui, lo sappiamo noi. Solo che non si dice perché fa paura, angoscia, spavento. Buffon non può fallire anche quando fallisce, quindi è impossibile che quella respinta sia stata un errore. Dev'esserci qualcosa che non va, magari un effetto ottico, un dettaglio che non si vede ma c'è. E' il pudore nei confronti del più forte, il terrore dell'ultima certezza che crolla. Meglio aggirare, scavalcare, non vedere. Nessuno ha alzato il dito per dirlo forte. Non ce l'ha fatta anche lui: “Chiediamo scusa a tutta Italia”. Chi? Tutti. Parlava da capitano e però, se poco poco lo si conosce, anche un po' per se stesso. Dietro noi c'è io, perché gli è venuto in mente che in ogni scuola calcio certe cose sono l'inizio di una carriera da portiere: “Quelle palle si mettono in calcio d'angolo”. Un tocco, il polpastrello che spinge, il pallone che esce. Corner, un uomo sul primo palo e un avversario a testa per tutti gli altri: si ricomincia e siamo ancora zero a zero. Quella voce c'è nella testa di Gigi, oltre le parate successive, oltre l'uscita su Van Nistelrooy. E' un picchio che gli batte sul cervello: perché? Perché? Perché? Non glielo chiederà nessuno se non la sua coscienza. Non si può criticare un monumento. Buffon non è più solo un portiere, anzi forse non lo è mai stato. I portieri sono gli altri: Zenga, Tacconi, Pagliuca, Dida. Quelli alla Eduardo Galeano: “La folla non perdona. E' uscito a vuoto? Ha fatto una papera? Gli è sfuggito il pallone? Le mani d'acciaio sono diventate di seta? Con una sola papera il portiere rovina una partita o perde un campionato e allora il pubblico dimentica immediatamente tutte le prodezze e lo condanna alla disgrazia eterna. La maledizione lo perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni”.
Se sbaglia Gigi è solo il destino, è il più semplice dei “è così che doveva andare”. E' bello essere il più forte del mondo e sapere di poter mancare senza che gli altri lo rinfoto. Gigi torna in porta ed è tutto come prima, se vuole. Meglio. Deve decidere lui e la sua mano gigante che tiene il pallone, che lo ferma, che lo respinge, che lo devia. In alto, centrale, poi sul piede. Con la Romania, gli altri avrebbero parato, Gigi ha preso per sé e per i compagni. “Siamo ancora vivi”. La faccia più della tecnica, il risultato oltre l'estetica: qui non importa mai come, ma solo sì o no. L'urlo successivo è la spiegazione, il risarcimento: l'azione che cancella le parole, le scuse, la vergogna. Buffon non è al massimo, ma è il massimo comunque, quello che ti tiene sveglio quando ti stai addormentando. Non ama i rigori, non li para quasi mai. In Germania, contro la Francia fu spiazzato sei volte, da Zidane in partita, da tutti gli altri alla fine, compreso Trezeguet. “Da bambino sognavo di vincere le finali ai rigori. Ora no”. Grande per questo, perché con l'Olanda non ha ammesso, ma ha chiesto scusa, perché con la Romania ha salvato, ma non s'è preso i meriti. Mano-piede: è il coraggio che vince, banalmente è la differenza che c'è tra uno normale e uno straordinario, è il culo che ti premia perché l'hai guardato negli occhi l'avversario, perché non ti ha fatto paura, perché gli hai detto “lì ci sei tu, e qui ci sono io”. Ha smesso di essere protagonista a ogni costo: non è più quello che a Parma andò in porta con la scritta “Boia chi molla” e scatenò un caso politico finito con un sorriso e con una battuta. A trent'anni Gigi è un giovane vecchio, cresciuto per forza più che per volontà. Non ci si ricorda neanche più quando era un ragazzino e si presentò per la prima volta in campo contro il Milan: 29 gennaio 1995. Fa il maturo, il saggio, l'esperto. Cioè tutto quello che è senza desiderare fino in fondo di esserlo, perché l'indole e il carattere sarebbero altri più vicini al fancazzismo alla Zenga che alla serietà di Zoff. Non ha amato nessuno dei due: non Dino che quando Gigi aveva neanche sei mesi fu accusato di avere difetti di vista, di stropicciarsi perché miope: “Non vede da lontano”. Maledetta Olanda anche allora, trent'anni fa, mondiale argentino, la retorica perenne della “migliore Italia vista giocare in una Coppa del mondo”: diedero la colpa a Zoff per quei gol improponibili da fuori area. Non ha amato neanche Walter, che resterà sempre quello del gol di Caniggia più che dello scudetto dell'Inter di Trapattoni. Buffon sa che a lui non succederà, perché il pallone è diventato un altro, perché i portieri come lui non sono più quelli con una maglia diversa che possono giocare con le mani. Su Gigi si sono fatti i conti: “Io e lui insieme valiamo venti punti a campionato”, ha detto una volta Trezeguet parlando della Juventus. Quando gliel'hanno riferito Buffon s'è fatto una risatina, ma lo sapeva: gliel'avevano detto anche a lui e allora aveva cominciato a pensarci. Senza dirlo sa che è vero e sa anche che con lui forse è cambiato tutto: il primo a ridare dignità definitiva alla categoria, il primo portiere che arriva a un passo dal Pallone d'oro, che vince il premio come miglior giocatore della Champions 2003, il primo che non si rifugia nelle classifiche dedicate solo a quelli coi guanti, va oltre, partecipa, non dieci più uno, ma undici davvero. Giocatore, senza indicare per forza il ruolo. Forse è per questo che sognando di fare il portiere amava un centrocampista: “Quando ero piccolo, il mio giocatore preferito, quello che amavo di più, che mi faceva divertire era Lothar Matthaeus”. Poi Thomas N'Kono, il folle portiere del Camerun di Italia 90. Non c'è mai stata una regola vera per Buffon, una di quelle ossessioni che ti spingono a fissarti su un personaggio, su una situazione. Ha scelto tardi che sarebbe diventato un calciatore, a dodici anni, quando molti già devono arrendersi all'idea che non potranno mai esserlo oppure quando è il corpo che ti spinge a sceglierti il ruolo. Gigi ha scelto senza influenze anche se la storia del cugino del padre una molla deve essere stata: centrocampista non sarebbe stato nessuno, dice qualcuno. Oppure no, perché quelli che l'hanno visto crescere e hanno visto gli altri ragazzi, hanno detto il contrario. Tipo Sergio Vatta, che s'è trascinato i sogni di tre generazioni di baby nazionali: “Il ragazzo più forte che abbia visto negli ultimi trenta anni”.
Senza ruolo, anche qui, senza divisioni, senza specificare che però lui giocava e gioca da numero uno. Non importa. Si gira e si torna sempre lì, alla diversità che non c'è più, alla fine del ruolo. Calciatore e basta. Piedi, mani, petto, testa. Gigi giocherebbe con la maglia identica a quella degli altri compagni, specie in Nazionale. Alla fine del Mondiale di Germania lo raccontò bene: “Ho giocato soprattutto per l'Italia, perché l'orgoglio di essere italiano lo sento sul serio. Non li sopporto quelli che dicono di non tifare per la Nazionale perché c'è questo o c'è quello. Mi stanno sulle scatole e mi fanno anche un po' paura. Se fossimo in guerra, darei l'anima per salvare un italiano ferito, anche se fosse la persona che più mi sta antipatica al mondo”. Nazionalista, Gigi. Quello con la bandiera sulla fronte per tutto il viaggio Berlino-Roma e poi sull'autobus scoperto che portò i campioni del mondo al Circo Massimo. Applausi a lui, all'orgoglio, all'attaccamento. Perché questo era sano, mica qualche settimana prima quando l'Italia aveva già deciso che era un venduto. Due milioni di euro volati, cinquecentomila pare in una botta sola. Cioè la storia delle scommesse, nata, gonfiata e poi immediatamente sparita. Però c'è. Dentro Buffon e anche dentro chi probabilmente apposta non ha mai fatto differenza tra scommesse e calcio-scommesse. Non c'è? Dipende, perché se a 28 anni giochi diecimila euro su Arsenal-Chelsea è un conto, se le giochi su Juventus-Real Madrid e tu sei il portiere della Juve, qualcosa cambia. “Io con tutta questa faccenda ho fatto una brutta figura, lo so. Però qualcuno s'è divertito su di me”. Gigi fu convocato in Nazionale con riserva, non sicuro di giocare, non certo neanche di poter andare in Germania, con una buona parte del paese pronto a prenderlo per il nuovo Albertosi, senza pensare che alla fine di Buffon non ti ricordi un solo errore, né una papera, né un rigore procurato. La coppa ha cancellato i sospetti e le accuse, ha trasformato un'inchiesta che pareva l'inizio di un nuovo scandalo in una ragazzata. Magistrati compresi: “Quando mi sono presentato in procura, un pm mi ha detto: ‘Ma lei che ci fa qui?'”. In quei giorni strani tutti pronti a tirare fuori il ritratto del giovane a metà: “Uno tra pasticci e miracoli”, scrissero. Uno a uno gli episodi guasconi della vita di Gigi presi e documentati: quando scese in campo contro il Valencia con la maglia numero 88. La comunità ebraica protestò contro quel numero usato dai neonazisti come “versione aritmetica di Heil Hitler”. Buffon se ne uscì così: “Siccome in Italia il simbolo del carattere, piaccia o no, sono le palle, io con quel numero volevo mostrare d'averne quattro”.
Oppure la storia del mancato diploma: iscritto a ragioneria, era già un calciatore professionista. Una troupe tv andò a documentare un suo esame in terza. Bocciato. Fece la quarta da privatista, non si presentò agli esami di maturità, però puntuale alla segreteria dell'università di Parma alla facoltà di Giurisprudenza. Presentò un diploma rilasciato da una scuola romana che, interpellata per il controllo, negò: “Mai avuto il signor Buffon come studente”. La faccenda finì alla procura della Repubblica di Parma, che all'epoca non aveva il caso Parmalat, non aveva bimbi rapiti e uccisi, insomma non aveva molto da fare. Gigi ci rimase male: “Le polemiche sul numero di maglia e sul diploma sono stati due avvenimenti terribili. Il fatto poi che si siano succeduti uno dietro l'altro mi ha fatto pensare a una sorta di accanimento. Da parte mia, però, c'è sempre stata buona fede. Se poi c'è stato un errore si è trattato di un classico sbaglio di gioventù che si perdona a tutti. Perché non a me?”. Paralleli e ricordi. Qualcuno ha tirato fuori Lorenzo, il cugino del padre, il portiere del Milan anni Sessanta, uno dei primi calciatori a dominare i giornali di gossip abbracciato a splendide accompagnatrici provvisorie, che poi sì innamorò della sventola più famosa e desiderata dei suoi tempi: Edy Campagnoli, la leggendaria valletta di Mike Bongiorno in “Lascia o raddoppia?”. A Gigi gli hanno riconosciuto le analogie, tipo la storia con Alena Seredova, che oggi è madre di suo figlio e compagna ufficiale da diversi anni, quella con la quale ha posato praticamente nudo su una rivista scatenando una delle frasi più divertenti della tv sportiva recente. La disse Marcello Lippi: “L'ho incontrato solo in spiaggia a Viareggio, oh, è la prima volta che lo vedo vestito”. E però con Lorenzo tutti hanno sempre ostentato le differenze. Un po' per sfida, un po' per gioco, un po' per invidia, Gigi viene considerato lo zuccone, il viziatello, e sotto sotto anche un po' ignorante, perché non s'è preso neanche la maturità mentre quell'altro era un cazzeggione e però aveva l'aria da intellettuale: leggeva Anna Karenina, diceva di avere divorato tutto Tolstoj e che il suo libro preferito era “Radiosa aurora” di Jack London.
Non è mai stato simpatico fino a quando non è retrocesso, Buffon. Juventino in questo e in molte altre cose. La fine dell'era Moggi, la coincidenza con la vittoria del Mondiale, l'obbligo di finire in B, l'hanno ridisegnato agli occhi degli altri, di chi lo aveva raccontato fino ad allora e ne aveva sempre tracciato un ritratto a due facciate: fenomenale in campo e un po' oltraggioso fuori. Il dopo Berlino ha modificato la percezione, ha purificato le anime: sui giornali è venuto fuori il Gigi che si spende per beneficenza, che va in Africa per N'Kono e regalare un pozzo a un villaggio, che faceva il servizio civile in una comunità di recupero per drogati: “C'erano persone più sfortunate che avevano bisogno di aiuto ma anch'io ho cercato il loro aiuto perché mi hanno fatto tornare con i piedi per terra”. Anche quella storia dei cori ultrà che fino ad allora era stata usata per disprezzarlo ora cambia pelle, diventa la faccia pulita del tifo. La raccontava sempre sua sorella Guendalina: “C'è una piccola casa di fianco alla nostra villetta. Lui si chiude lì dentro, nessuno lo può disturbare, e sapete che cosa fa? Si mette a cantare i cori degli ultrà. Una volta l'ho spiato dalla finestra, mi sembrava impazzito. Saltava come un bambino, rideva. Gli ho detto: ‘Guarda che tu sei un giocatore, mica un tifoso'. Mi ha risposto che l'anima non gliela cambierà nessuno, e ha ripreso a cantare come fanno i Boys. Ogni volta che torna a casa, la scena si ripete”. Ora Gigi che passava per l'antipatico è un fenomeno da cabaret: lo imita Fiorello a Viva Radio 2, lo imitano su RadioDeejay a Sciambola. Quel tono di voce un po' indolente, quell'atteggiamento di chi non si preoccupa mai. “Non pensarci; forse anche non pensare. Il dono dello stupore. L'arte della leggerezza”, ha scritto il Corriere della Sera. Va bene e a volte va male, come tutto. Però con Buffon un po' di più, perché è un altro di quelli con cui è abbastanza facile comportarsi a seconda dell'esigenza. Il suo essere leggero fa comodo sempre, quando bisogna raccontare il bamboccione e quando invece si deve alleggerire la pressione con una caduta sull'infanzia, sullo spirito, sul gioco. Gigi funziona adesso che si fatica a trovare un personaggio. Qui sì è identico agli altri portieri, quelli a cui ti aggrappi quando non sai dove andare. Tra i pali c'è sempre quello con la maglia diversa. “Io vedo il bicchiere mezzo pieno”, dice adesso. E' uno stile di vita. E' la speranza, l'errore cancellato. E' la mano destra, quella dello sbaglio e poi del miracolo. Il pallone aiuta sempre: uno contro uno, il rigore, la rincorsa, il tiro. Se è gol questa volta non è colpa sua, se non è gol è l'urlo, lo sfogo, la rabbia. Sono i punti che si possono quantificare: uno è suo. Vale per tutti, però.
Il Foglio sportivo - in corpore sano