Dal Foglio del 17 novembre 2007
L'esterno ritorno
Sta sempre in ginocchio: il gomito sulla coscia e il mento sulla mano. Mordicchia il mignolo. Dice che così pensa meglio: 4-4-2, 4-3-3, 3-4-3, 3-5-2, 4-3-2-1. Di Natale, Camoranesi, Toni. Non sorride spesso, Roberto Donadoni. E' difficile che s'incazzi, però: resta fermo in quella posizione da cavaliere in attesa della consacrazione. Una spada per lui, per fargli chinare il capo e ammetterlo nel mondo dei grandi. Spalla destra, spalla sinistra e testa.
Dal Foglio del 17 novembre 2007
Sta sempre in ginocchio: il gomito sulla coscia e il mento sulla mano. Mordicchia il mignolo. Dice che così pensa meglio: 4-4-2, 4-3-3, 3-4-3, 3-5-2, 4-3-2-1. Di Natale, Camoranesi, Toni. Non sorride spesso, Roberto Donadoni. E' difficile che s'incazzi, però: resta fermo in quella posizione da cavaliere in attesa della consacrazione. Una spada per lui, per fargli chinare il capo e ammetterlo nel mondo dei grandi. Spalla destra, spalla sinistra e testa. Glasgow è perfetta, oggi. Non deve vincere per forza, non deve strafare, non deve mostrare. Zero a zero e palla in tribuna. Ci vediamo alla prossima. Non andrà così, lui non vuole. Meglio rischiare e giocarsela, perché la metà di cervello sacchiana adesso è più forte della metà capelliana. A un metro dal traguardo puntare tutto sul pareggio è da vigliacchi. Roberto è cresciuto a Milanello, non al Granillo, né al Bentegodi, né al Tardini. Provinciale, ma grande, uno con la cultura della vittoria, del bel gioco, dell'estetica pallonara. Efficace e pure gradevole, com'era lui quando giocava e piaceva tanto a Berlusconi che se lo andò a prendere a Bergamo per fregarlo ad Agnelli. A Glasgow va per vincere sapendo che un pareggio non gli farebbe schifo comunque. Qualificato e poi si pensa: all'Europeo 2008, a Totti che l'ha abbandonato perché aveva paura di finire in panchina, a Nesta che pure lui ha mollato perché stava perdendo il confronto con Materazzi, a Lippi che è un fantasma enorme e difficile da cancellare, ad Abete e a Matarrese che non s'è mai capito se lo vogliono oppure no. Berna-Vienna 2008, l'Europeo non è il Mondiale, però a 43 anni da allenatore fa un bell'effetto. Critiche? Le facciano pure, uno che ha lavorato con Aldo Spinelli non può preoccuparsi: quello è uno che chiama di notte alle due perché gli è venuta un'idea, che ti tiene due ore dopo la partita, quando sei pronto per metterti in macchina per tornare dalla famiglia.
Donadoni è arrivato presto, per qualcuno troppo. E' arrivato dopo un sondaggio volante fatto nel post Berlino, quando la coppa era ancora calda: i senatori del gruppo azzurro votarono a favore, bocciando invece le candidature di Alberto Zaccheroni e Gianluca Vialli. Sì a Roberto: uno come loro, ancora vicino all'età di un calciatore, che senza i capelli sale e pepe sarebbe ancora pronto per stare in mezzo a prendere botte e a mettere qualche pallone buono dentro l'area. E' panchina, invece. Mai l'Italia aveva avuto un commissario tecnico così giovane. Qui è come se la patente arrivasse solo dopo i cinquant'anni. Marcello Lippi era quasi giovane, visti i precedenti. Quella degli allenatori ragazzini è l'Olanda, che non ha paura di giocarsi i suoi ex grandi calciatori: presero Frank Rijkaard e poi Van Basten senza valutare il curriculum in panchina. Faceva fede la qualità degli uomini e la bravura dei calciatori. In Germania pure, per l'ultimo Mondiale, quello in casa, il più importante: la Nazionale a Jurgen Klinsmann che mai aveva fatto l'allenatore, neanche per prova. Sono riusciti loro che in campo avevano la squadra con l'età media più alta del torneo. L'Italia no. Bisognava essere uno d'esperienza, come se per far giocare bene una squadra contasse solo l'anagrafe. Donadoni è stato guardato storto: i tromboni della panchina gli hanno dato del raccomandato perché l'aveva scelto Albertini, suo compagno al Milan. Invidia e antipatie. Demetrio, l'altro troppo ragazzo per fare il vicepresidente della Figc. Poi lui, Roberto, che fu presentato così: “Può diventare un grandissimo”. C'era il plotone fuori. Difficile essere Donadoni: un ex campione, un grande, uno intelligente, tecnico, bravo e pure gentile, umano, corretto. Difficile essere il numero uno della Nazionale che aveva appena vinto un Mondiale. Roby s'è trovato la squadra campione del mondo senza più palle e senza più voglia. Coi transfughi, con i demotivati, con quelli che “è meglio lasciare adesso che rischiare”. Ha cominciato male e allora s'è visto qualcuno bussare alla porta. E non la generazione geriatrica: i detrattori sono stati quelli come lui, col capello appena brizzolato e con qualche muscolo ancora pronto, o quasi. Divertente sparare sul ct della Nazionale. Divertente perché poi lui è uno che non ama lo scontro: non è Lippi che t'accartocciava con un'occhiata. Donadoni fa il buono, garbato, educato, gentile. “Una faccia da retrocessione”, gli hanno detto. Cioè uno che dà l'impressione d'arrendersi di fronte all'impallinamento degli opinionisti tv. Gente alla Collovati, alla Dossena, alla Tardelli. Il trio ha cominciato a fare le pulci, fino a quando Roberto non ha deciso di alzare la capoccia e rimbalzare gli attacchi. Non ce l'ha fatta più non appena qualcuno ha fatto capire che la colpa dell'addio alla Nazionale di Totti era colpa sua: “Che cosa vi siete detti con Francesco? Ah non gli hai assicurato il posto…”. Come se Donadoni per il solo fatto di essere inesperto avrebbe dovuto farsi mettere i piedi in testa da Totti.
Sono spariti i nemici, adesso. Fratelli d'Italia ora che la qualificazione è quasi arrivata. Sorrideranno tutti: bravo Dona. E certo. Facile. Si tira fuori il passato, quello più semplice e ottimista. Perché prima che arrivasse all'Italia, di Donadoni ne parlavano tutti bene. Persino Fabio Capello: lo mise nel ristretto elenco dei suoi possibili successori alla Juventus. E Arrigo Sacchi che lo aveva indicato una, due, tre volte come l'erede del suo concetto calcistico. Piace ai calciatori, da Buffon a Toni, a Cristiano Lucarelli che qualche tempo fa quasi si commuoveva pensando al suo ex allenatore a Livorno. Roberto ha fatto la sua strada: ha cominciato dal Lecco, non dall'Inter. Ha fatto la C, la B, la A. Sì, la Nazionale è arrivata inaspettata. E' il calcio che non s'arrende alla rivoluzione generazionale: un mondo che idolatra ancora oggi Enzo Bearzot farà sempre fatica a innamorarsi di Donadoni. Neanche i capelli bianchi lo aiutano: gli hanno spolverato completamente la testa, quel boccolo che quando giocava saltellava simmetricamente alla finta: a destra quando andava a destra, a sinistra quando cambiava direzione. Bell'ala, Roberto: fu il primo vero acquisto importante dell'era berlusconiana. Prima il Cav. s'era preso Massaro e Galli dalla Fiorentina e Bonetti dalla Roma. Donadoni arrivava dall'Atalanta: per mollarlo e farlo andare in direzione di Milano, il presidente Bortolotti si fece pregare per una stagione intera. Fu un affare indimenticato. Berlusconi s'è sempre sentito legato da un affetto strano, quasi speciale, anche se quello era un pulcino della bassa bergamasca e lui sognava già i fenomeni stranieri. Quando è stato scelto come successore di Lippi per caso il Cav. è stato il primo a fargli gli auguri pubblici, complice un'intervista sulla Gazzetta dello Sport: “Donadoni è stato un grande giocatore del nostro Milan. E' una persona seria e gli mando il mio in bocca al lupo”. Tenero come uno zio e forse solo il tempo l'ha un po' indurito, che quando Roberto saltava gli avversari sulla fascia, prima di crossare per un compagno, il presidente gli trovò un soprannome rubato a Vecchioni: “Luci a San Siro”. L'affetto è ricambiato, nonostante la politica secondo qualcuno li abbia separati. Dicono che il Dona simpatizzi per il Pd: prima delle primarie gli hanno chiesto: “Andrebbe a votare?”. Lui ha risposto così: “Il problema non si pone, perché sono impegnato”. C'hanno visto un sottinteso se-fossi-in-Italia-ci-andrei. Berlusconi ha corretto i profeti: “Credo che non volesse dire quello che avete dedotto”. Si vogliono bene al di là della politica e per il Cav., Donadoni ha rischiato pure di finire la sua avventura a Livorno prima di cominciarla. Era appena sbarcato, incrociò quelli della curva comunistoide e anti-berlusconiana: “Sono cori ingenerosi e ingiusti, io lo conosco bene Berlusconi”. Lo disse come fa lui sempre, con gli occhi bassi e timidi, ma convinti; con lo sguardo di uno che sta lì e non vuole dare fastidio. Lo disse chiaro, però, senza lisciare il pelo agli ultrà, come fa la gran parte dei suoi colleghi.
A Livorno, Donadoni è cresciuto. Se ne andò quando la squadra era sesta. “D'ora in poi sarò più cattivo”. Ce l'aveva con Spinelli che al processo di Biscardi lo sfiduciò con una delle sue mezze frasi. Roberto si dimise e mollò tutto, senza inviti, senza problemi. E' così, di carattere. Se non ce la fa più si rimette la giacca e se ne va. Se lo rimprovera, spesso. Dice che pure a casa fa così e per fortuna che c'è Cristina che lo conosce e accetta: “Devo scusarmi con lei, perché spesso mi dice sì anche quando dobbiamo scegliere i film da guardare”. Fa il despota silenzioso in famiglia, salvo poi scusarsi ogni volta. Con Cristina il rapporto dura da una vita: “Lei è quella che più di tutti sopporta il mio carattere, fa le spese delle mie tensioni benché sia la persona che meno si meriterebbe questo trattamento. Non smetterò mai di chiederle scusa perché a volte anche quando discutiamo per ore su che film andare a vedere è sempre lei che accontenta me”. Impedito nell'uso della tecnologia, Donadoni si fa aiutare dal figlio Andrea che ha già diciotto anni. E' timido Roberto. Timido tanto che i compagni al Milan quando volevano rompergli l'anima lo mettevano al centro dell'attenzione. Timido e però riservato non sempre. Lo chiamavano quello del silenzio stampa chiacchierato, perché non ce la faceva a stare completamente zitto. Questione di educazione e di rispetto del lavoro: non è che non volesse lasciare i cronisti senza nulla da scrivere, era una forma di autodifesa. Negli anni l'ha tradotta così: “Mi piace il rapporto schietto con le persone, e molto spesso, nel calcio, questo non può esserci. Sarebbe bello poter essere sempre sinceri e onesti, ma non è fattibile, per cui io tendo a comunicare in modo da proteggermi, cosa della quale sinceramente farei volentieri a meno”.
Non è l'unica. Donadoni non sopporta l'idea di stare in mezzo in ogni sua forma: non cerca l'isolamento, gli piace stare con la gente, ma per i fatti suoi. “Magari per riflettere, certe volte mi distacco dalla realtà e dalla gente che mi circonda e così rischio di diventare quasi antipatico”. Qualcuno il magari lo toglie, che Roberto non sta simpatico a tutti. Lo prendono per altezzoso, anche se non lo è. Anche qui è l'autodifesa del timido che per evitare di dare fastidio finisce per darlo davvero. E' una maledizione che arriva in eredità da un'educazione fatta in un certo modo, nella quale il bambino doveva stare al suo posto nel suo mondo. Cresce la sensibilità, così. Quello che sembra un burbero è un signore che pondera ogni parola, ogni pausa, ogni virgola. Lo fa perché ci tiene agli altri. Allora con Del Piero parla, prima di convocarlo. Alex non vuole giocare più dietro le punte, così se Donadoni non ha altri spazi glielo dice e poi si decide. Decide lui, certo. Però deve parlare: da solo, senza telecamere, senza intrusi. Attenzione, allora: “Uno dei miei più sani timori è sempre quello di sbagliare il modo di rapportarmi con gli altri, anche perché ci tengo molto e so quanto anche una sola parola sbagliata possa fare male”. Quando giocava amava gli allenatori così e però s'è trovato bene anche con quelli meno sensibili. Bastava andare sulla fascia, destra o sinistra era uguale. Bastava puntare un avversario, saltarlo e fare una giocata. Era straordinario quel dribbling stretto: una finta sempre molto simile e però efficace. Donadoni non si prendeva , non si teneva, andava. Veloce e rapido, con quelle gambe corte e agili per tenere su i suoi 173 centimetri a baricentro basso che furono la gloria pallonara di Roberto: tre Coppe dei campioni, sei campionati, due Intercontinentali. Poi un secondo posto al Mondiale di Usa '94 e un terzo a Italia '90. Quello era il suo Mondiale: della sua generazione. Aveva 26 anni, l'età giusta. Infame quel Goycochea lì che prese quel rigore di Napoli. Si vede ancora l'immagine di Roberto che alza gli occhi al cielo e poi finisce per terra deluso, sconfitto, sconsolato. Il contratto ora non prevede coppe del Mondo: si arriva in Svizzera e Austria, si gioca e poi si vede. Il Sudafrica è lontano. Non ama perdere, comunque. Non ci pensa neppure, perché è nato alla scuola degli invincibili del Milan anni Ottanta: il tocco di prima, il pressing, la forza, il possesso palla, il gol. La partita peggiore che ricorda in questa sua campagna d'azzurro è stata quella alle isole Fær Øer: un disastro di punteggio, di gioco, di credibilità: Donadoni quel giorno era infuriato, con la squadra e pure un po' con i club che non lasciano spazio e allora bisogna sempre alzare il telefono per far capire come funziona. Era arrabbiato, contro l'impegno scarso e le idee scarsissime. Fece fatica a parlare quella sera: se quegli altri avessero fatto il gol del 2-2 avrebbe scritto a mano una lettera e avrebbe annunciato le dimissioni.
Vede il futuro, Donadoni. La partita di stasera è fondamentale, la più importante della sua carriera da allenatore, però lui non convoca né Del Piero né Inzaghi, prende Palladino, perché ha coraggio, perché vede domani, perché sa che bisogna crescere una generazione di gente giusta per garantire il futuro a questa identità. A Kiev nessuno avrebbe scommesso un centesimo su Totò Di Natale titolare. Lui l'ha messo e quello l'ha salvato. Così come il recupero di Ambrosini, dato per finito da molti commissari tecnici e tornato titolare in Nazionale con Donadoni. Adesso, a Glasgow tutti noteranno: Gattuso, Ambrosini, Pirlo, il centrocampo del Milan traslato in azzurro. Diranno che c'ha l'occhio in più, di riguardo, speciale, perché sono tutti milanisti come lo era lui. S'è abituato a vivere con il difetto rinfacciato. Nel cammino verso la qualificazione è stata una costante: dopo la vittoria di Kaunas con la Lituania, gli chiesero ancora una volta di Totti: “Scusate, ne parliamo più avanti, ho appena vinto una partita importante e lasciatemi godere questo risultato. Vi dico solo che la mia posizione non cambia e non cambierà. Comunque ho imparato a non aspettarmi niente da nessuno, in questo mondo. Conto solo sui miei collaboratori”. Allora Bortolazzi, Buso, Bordon: tutta gente che va d'accordo con lui perché lavora in silenzio. Non se la prendono se lui parla poco. E stanno completamente zitti quando lui è accovacciato sulle ginocchia.
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