La Duras non baciava con la lingua
Di solito si scrivono autobiografie per raccontare agli altri quanto si è stati fichi fin dall'inizio, cioè almeno dall'infanzia. I pensieri originali, il magnifico talento forse per un attimo incompreso, centinaia di pagine di seria (un po' noiosa) eccezionalità.
Di solito si scrivono autobiografie per raccontare agli altri quanto si è stati fichi fin dall'inizio, cioè almeno dall'infanzia. I pensieri originali, il magnifico talento forse per un attimo incompreso, centinaia di pagine di seria (un po' noiosa) eccezionalità. A leggere le “Memorie di una ragazza perbene”, di Simone de Beauvoir, si scopre soltanto che lei era stata da sempre lì, seduta al Cafè Flore con Sartre, anche mentre imparava a camminare. A cinque anni era già saccente: “Tenuta per mano dalla zia Marguerite, che non sapeva gran che come parlarmi, mi domandai: ‘Come mi vede, lei?' e provai un acuto senso di superiorità (…) mi ripromisi che quando sarei stata grande non avrei dimenticato che a cinque anni si è una persona completa”. Si rivivono i ricordi in chiave eroica e li si offrono al mondo per renderlo migliore, o almeno consapevole del privilegio di avere ospitato una persona così. Forse allora Marguerite Duras (quasi coetanea di Simone de Beauvoir ma con infanzia indocinese invece che parigina), quando teneva i diari su quaderni di scuola con la copertina rigida e poi li chiudeva negli armadi blu, pensava che per la gloria bastavano i romanzi. Così i “Quaderni della guerra e altri testi” (appena pubblicati da Feltrinelli) sono belli, ed è bello soprattutto il Quaderno rosa marmorizzato (pieno anche di scarabocchi infantili del figlio Jean), in cui la Duras racconta di sé bambina e poi ragazzina alle prese con l'innamorato indocinese (“L'amante” l'hanno letto, o almeno visto, tutti, e sembrava un grande amore).
La Duras era povera e si vergognava moltissimo di esserlo, pensava tutto il tempo ai soldi, andava male a scuola e “oltre al fatto di essere priva di fascino e vestita in un modo di cui è difficile rendere il grottesco, non mi distinguevo certo per bellezza”. Racconta nel quaderno, più o meno negli anni in cui la De Beauvoir pubblicava “Il secondo sesso”, le botte col bastone di sua madre, gli insulti del fratello maggiore (“piattola schifosa”, “sacco di merda”, “subdola serpe”, e peggio), non teme di rovinarsi l'immagine (“Ce n'erano altri, di epiteti, e il non ricordarli mi dà una grande tristezza. Non posso sentirli senza che mi salga nell'anima il sapore stesso della mia gioventù, delle collere vive e selvagge dei miei quindici anni”). Stava antipatica a tutti e i professori la mettevano in fondo alla classe per non vederla. Soprattutto, racconta la verità sull'Amante: era un indigeno basso e butterato (Léo), che però possedeva una macchina bellissima, una Morris Léon-Bollée su cui Marguerite si faceva scarrozzare (e in cui la sera si infilava tutta la famiglia della Duras, compresa la madre, per andare nei locali notturni a sbafo). Lei con lui ballava soltanto il tango, perché al tango le lampade si spegnevano e così non doveva vergognarsi di stare stretta a Léo. Il fratello lo chiamava “il feto”, ma grazie ai soldi che Marguerite si faceva dare dal feto sfumò gli insulti (da “piattola” passò a “cagna che se la fa con gli indigeni”). “Ero innamorata di Léo anche quando pagava le cene fredde e lo champagne nei locali”. Per il resto di quel grande amore famoso e immortale, la Duras sputò per un giorno e una notte interi quando Léo in macchina provò a baciarla con la lingua, e gli si concesse una volta sola in due anni, con ripugnanza.
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