Bossi di inizio estate

Pur di ottenere il federalismo, la Lega è disposta perfino a votare sì all'Europa

Salvatore Merlo

E' la Lega il punto debole della maggioranza più forte della Seconda Repubblica? Forse no, bastino le parole dell'antieuropeo Umberto Bossi: “Voteremo ‘sì' alla ratifica del trattato di Lisbona”.

    E' la Lega il punto debole della maggioranza più forte della Seconda Repubblica? Forse no, bastino le parole dell'antieuropeo Umberto Bossi: “Voteremo ‘sì' alla ratifica del trattato di Lisbona”. Prima i fatti. Oggi alla Camera il gruppo leghista ha votato per due volte con l'opposizione, determinando la sconfitta della maggioranza su due emendamenti che il governo aveva bocciato. I deputati del Carroccio hanno prima appoggiato un emendamento dell'Udc – cassato dal comitato dei nove per “un errore materiale” in fase di stesura – poi hanno votato (assieme ad alcuni deputati dell'Mpa) un testo dell'Italia dei valori. Governo battuto e maggioranza divisa. L'opposizione ha gioito, “avete visto? – commenta il capogruppo democratico Antonello Soro – sono meno compatti di quanto vogliano farci credere”. Medesimo il commento dell'ecodem Ermete Realacci: “Sono segnali politici che la Lega manda al Pdl”.

    Alla Camera i leghisti negano tutto, il capogruppo Roberto Cota spiega che si è trattato soltanto di un mancato “coordinamento”. Purtroppo non gli crede nessuno, anche perché la giornata d'irrequietezza leghista non finisce qui. Il ministro padano Roberto Calderoli – smentito anche lui nel giro di mezz'ora da Bossi – ha smorzato l'entusiasmo europeista del Cav. Nel giorno in cui Berlusconi annuncia la marcia italiana verso la ratifica del trattato di Lisbona, Calderoli manda a dire che “il trattato è morto e noi vogliamo un referendum”. E' solo folclore leghista? Mancanza di coordinamento? Forse no. Agli osservatori sembrano piccole avvisaglie, spie di magmatici malumori che si aggiungono alle voci di irritazione padana per l'ipotesi di un riedito Lodo Schifani, il testo sulle immunità per le più alte cariche dello stato. Ieri Repubblica raccontava la rabbia degli ascoltatori di radio padania, per esempio. Rumori che seguono i più palesi contrasti intorno al decreto sulle intercettazioni (ricordate Roberto Maroni? Il ministro si è battuto con successo per estendere le fattispecie di reato intercettabili alla corruzione e alla concussione). Così alla fine ieri Umberto Bossi è intervenuto di persona.

    Proprio mentre i suoi votavano per la seconda volta con l'opposizione, il leader della Lega rassicurava: “Voteremo il trattato di Lisbona e non faremo problemi per la norma che gli antipatizzanti definiscono ‘salva premier'”. Difficile districarsi nel doppio linguaggio leghista: da una parte Calderoli e i deputati, dall'altra il capo che smentisce e placa. Il Carroccio ha a portata di mano l'obiettivo storico del federalismo fiscale (nonché quello dello statuto lombardo, frenato dal berlusconiano Raffaele Fitto). Bossi quello vuole, e pur di ottenerlo è disposto a molto.

    Ma forse i colonnelli e la base non sono disposti a tutto. Questo il messaggio che la Lega ha inviato oggi, attraverso l'apparente contrasto tra Calderoli e Bossi, al presidente Berlusconi. Mentre il partito vota in Aula con l'opposizione, il capo indiscusso ammaina la bandiera antieuropea e quella dell'antipolitica. Finché il Cav. li farà contenti, di fronte al grande risultato del federalismo fiscale, i leghisti mugugneranno ma staranno in riga, a questo penserà Bossi. Il senatore lo ha detto esplicitamente: “Con il Pdl ci sono solo piccolissime incompresioni. La base? Il popolo padano si fida di me e sa che non li porto nei pasticci”. Come dire: li tengo buoni io, ma il Cav. non tiri troppo la corda. A gennaio si voterà la Finanziaria e l'atteso federalismo fiscale: Berlusconi dovrà accontentare la Lega e impedire un rigurgito d'opposizione dura del Pd. D'altra parte i padani desiderano fortemente una riforma condivisa che non esponga il federalismo a un altro referendum come quello sulla devolution, non sia mai che per una norma maliziosamente definita “salva premier” il Pd si impunti e bocci il federalismo. Cavaliere avvisato, mezzo salvato.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.