La Corea del Nord accetta di smantellare i reattori atomici in cambio di petrolio, energia e aiuti. Ecco il paese descritto in un articolo pubblicato sul Foglio del 4 novembre 2006
Kimasutra politico
Mar del Giappone, stratosfera, una notte qualunque. Un satellite spia guarda verso il basso, con il fare annoiato che hanno i satelliti quando le guerre fredde non tornano mai calde. Vede le luci del Giappone, megawatt su megawatt. Ispeziona le luci della Corea del sud, di Seul.
Mar del Giappone, stratosfera, una notte qualunque. Un satellite spia guarda verso il basso, con il fare annoiato che hanno i satelliti quando le guerre fredde non tornano mai calde. Vede le luci del Giappone, megawatt su megawatt. Ispeziona le luci della Corea del sud, di Seul. Vede una macchia scura, quasi un buco nero, una negazione di modernità, buia come l'Europa medievale. E' questione di secondi, poi nuove fiammelle bianche rallegrano i sensori, si fanno più brillanti di giorno in giorno: è la termoluminescenza delle città della Cina.
La macchia scura è invece la Repubblica socialista di Corea. Il paese più isolato del mondo, l'eterna debuttante al ballo della minaccia atomica, il regno della povertà militarista piantato in mezzo alle tigri dello sviluppo asiatico. Un'oscurità insondabile. L'impatto con il guscio elastico delle bugie di regime, alte trecento metri di cemento armato a forma di piramide, annichilisce e paralizza le capacità di analisi anche del più coriaceo dei reporter, mette in crisi i più fini analisti della Cia. Allora, se si vuole un quadro di che cosa sia la Corea del nord, bisogna mettere assieme un patchwork. Incollare brevi istantanee, immagini colte qua e là. Sovrapporre i piccoli frammenti rubati alle gigantesche scenografie dove il regime si magnifica con la marcia in postura. La chiave è tutta nella frase che un responsabile della cooperazione internazionale teneva attaccata alla porta del suo ufficio a Pyongyang: “Quello che c'è non esiste e cio che è vero non c'è”.
Qualche esempio? A Pyongyang ci sono tre hotel di centinaia di stanze per accogliere migliaia di turisti, ma non ci sono i turisti. A Pyongyang c'è lo stadio Primo maggio, il più grande del mondo, 150 mila posti, ma non ci sono gli spettatori. Quando ci sono gli spettatori non c'è la gara, piuttosto una parata. Se c'è la gara non c'è la corrente elettrica, il che non è difficile perché non c'è quasi mai. A Pyongyang nessuno ha freddo anche se non c'è il riscaldamento, chi ha freddo, chi non partecipa alla marcia del mattino, o cambia strada andando al lavoro, sparisce. Anzi non è mai esistito, perché tutti fanno finta di non ricordarsi di lui. O forse non si ricordano davvero, presi come sono a non cambiare mai strada, a non cambiare mai espressione, a non alzare gli occhi, a non avere mai fame, a non perdere fiducia nel leader che non è mai stanco o malato, men che meno sbagliato. Perché i coreani sanno, e chi non lo sa rischia di sparire, anzi di non essere mai esistito, che tutte le autostrade del sol dell'avvenire, che è già oggi, partono da Pyongyang.
Una, a quattro corsie, va verso nord e una, a quattro corsie, verso sud. Sono gigantesche, con asfalto sopraffino. I visitatori che vengono dal barbarico mondo esterno, poche centinaia l'anno, anche prima che alle associazioni umanitarie fosse dato il ben servito, sono obbligati a percorrerle, in un senso o nell'altro. Il ricordo è uguale per tutti che si tratti dell'unico italiano, Geri Morellini, che abbia scritto un libro sulla Corea del nord (“Dossier Corea, viaggio nel paese più isolato del mondo”) o del disegnatore di fumetti canadese Guy Delisle. Un nastro lunghissimo e senza macchine. Attorno i contadini curvi, intenti sulla zappa per consolidare la vittoria proletaria. Dall'autostrada non si può uscire, semplicemente perché fuori non c'è nessun posto dove andare. Per miglia un deserto di pietre gelate dove persone, ricoperte di stracci, zappano tra il pietrisco, che un tempo era foresta, nel tentativo di cavare un altro magro giorno. Nel farlo cantano e, in ogni canzone, o c'è il nome di Kim Il Sung o quello di Kim Jong Il: anche se il regime incentiva quelle in cui c'è il nome di tutti e due. Soltanto raramente, un fantasma più stanco degli altri, si avvicina alla massicciata, si trascina camminando in mezzo alle quattro corsie. La macchina con l'ospite occidentale gli strombazza, lo supera dribblandolo. A quel punto il poveretto potrebbe anche distendersi lì e dormire, se a farlo non rischiasse qualche decennio di rieducazione, tanto prima di veder passare un'altra scintillante Mercedes del regime potrebbe volerci anche qualche settimana. (1. continua)


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