Mauro e i suoi assassini
Vi ricordate di Mauro Rostagno? Ve lo ricordate vivo? Vi ricordate che morì ammazzato? Successe vent'anni fa, il 26 settembre del 1988. Per ricordarvene dovete avere già una certa età, dunque. Se no, bisogna ricominciare tutto da capo.
Vi ricordate di Mauro Rostagno? Ve lo ricordate vivo? Vi ricordate che morì ammazzato? Successe vent'anni fa, il 26 settembre del 1988. Per ricordarvene dovete avere già una certa età, dunque. Se no, bisogna ricominciare tutto da capo.
Pensa il pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia che l'indagine sull'assassinio di Mauro Rostagno è completata. Che l'ordine venne dai capi della mafia, e fu eseguito da killer mafiosi. Che la sofisticata perizia balistica affidata al capo della Mobile, Giuseppe Linares, prova che non sparò un fucilaccio maneggiato da balordi, ma armi efficienti; e il confronto, finalmente eseguito, con l'archivio dei proiettili custoditi dai carabinieri, mostra che quelle armi furono impiegate, prima e dopo, in altri attentati di mafia. Che un uomo di Vincenzo Virga interruppe la rete elettrica la sera dell'agguato: era un operaio dell'Enel, e anche l'autista di fiducia del boss mafioso fu trovato ammazzato otto mesi dopo, poco distante da lì. Che l'auto degli assassini fosse stata rubata a Palermo, addirittura sei mesi prima, e piazzata in un “autoparco della mafia”. Dunque che la decisione dell'omicidio non fosse estemporanea, e tanto meno legata al caso Calabresi esploso neanche un mese prima, si sapeva da sempre. Si era detto che non poteva trattarsi di un ammazzamento mafioso, dal momento che nessun pentito mafioso ne aveva parlato: bell'argomento, col quale gli assassini “pentiti” di mafia diventavano decisivi non solo parlando, ma addirittura tacendo, “e silentio”. Argomento tuttavia falsissimo, perché a segnalare la matrice mafiosa arrivò un plotone di “pentiti”, e del calibro di Marino Mannoia e di Giovanni Brusca o di Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra. Il boss mandante è, pensa la pubblica accusa, il trapanese Vincenzo Virga, l'autorizzazione finale venne da Totò Riina, gli esecutori sono mafiosi noti. Sarà questa, nel prossimo autunno, la sostanza del processo per l'assassinio di Mauro. Leggetene il resoconto dettagliato di Enrico Deaglio sul numero in edicola di Diario.
Mauro ha una figlia maggiore, Monica, una figlia minore, Maddalena, e un nipotino. Maddalena aveva quindici anni allora, ha trascorso ogni notte di questi vent'anni parlando con quel suo padre seduttore cui assomiglia come un ramo sottile al tronco. Ha scritto un libro, Maddalena, aggiungendoci ogni giorno qualcosa, e rinviandone sempre la fine, anche ora che incombono i vent'anni e i figli dei morti ammazzati riscopron le tombe. Ha appena rinviato, ancora, aspettando di leggere le carte finali di una proroga dell'inchiesta per la quale si era tanto battuta. Sono successe tante cose, nella seconda vita di Maddalena. E' successo, per esempio, che in un'alba del 1996 uno spiegamento di forze dell'ordine andò a catturare sua madre, Chicca, e la portò in galera con l'accusa di complicità nell'assassinio di Mauro. Chicca era la donna della vita di Mauro. Non l'unica: l'unica non è un vanto possibile per i più di noi. La più importante. Il magistrato che ne ordinò la plateale cattura non aveva altro appiglio che la propria stolida vanità. Arrivò al punto di deplorare i sospetti sollevati sulla mafia, e quasi scusarsene… Per non farsi mancare niente, quel magistrato mandò un manipolo di armati a cercare Chicca anche a casa mia, la mattina dell'arresto: trovata imbecille e lusinghiera.
L'infamia si sgonfiò presto – non così presto. Lasciò ferite irrimarginabili. Un maestro di giornalismo, uno che mi è caro, commise l'errore di dubitare, e la chiamò Clitennestra. Altri vollero crederci, più compiaciuti. Preferirono, per meschinità liceale o per rancore, immaginare un'orestiade nella campagna di Trapani a un agguato di mafia contro un denunciatore intrepido della mafia. Qualcuno – pochissimi – si accorse subito del disastro, si morse le labbra, se ne scusò. Altri non lo fecero mai. Uscita da San Vittore, Chicca disse: “E' stato terribile. Non auguro a nessuna di essere accusata dell'omicidio del proprio uomo”. Nessuno ha telefonato a Chicca o a Maddalena in questi giorni. Un rubrichista influente del Venerdì di Repubblica scrisse così, intitolando alla “cosca di Lotta Continua” che aveva deciso l'omicidio di Mauro: “Se pure avevano una coscienza, più o meno rivoluzionaria, Sofri e compagni devono averla messa a tacere dai tempi, già sospetti, in cui accettarono di fare i consiglieri della banda Craxi. Dà una vaga nausea assistere allo spettacolo di questi cinquantenni malvissuti, sparsi fra le corti dei potentati italiani, che si ricompattano nell'omertà mafiosa ogni volta che la magistratura riesuma un cadavere scomodo, si tratti di Alceste Campanile, il commissario Calabresi o il povero Rostagno”. Un disgraziato che, stato nel novero variatissimo di amici di Mauro, assicurò di averlo sentito dire che prima o poi avrebbe fatto i nomi degli assassini di Calabresi, ci scrisse su un libro, proclamò che le grandi case editrici ne disdicevano la pubblicazione per le pressioni censorie della lobby di Lotta Continua, e alla fine lo pubblicò con una partecipe prefazione di Marco Travaglio, anche lui entusiasta, in odio a me, che lo disprezzo, di preferire l'idea che Mauro fosse stato assassinato dalla mafia di L.C. piuttosto che da quella di Cosa Nostra.
Prima che alla sua compagna e alla madre di sua figlia, l'assassinio di Mauro era stato attribuito direttamente a noi, allora imputati nel processo Calabresi, e a me: in aula di tribunale, dal difensore della parte civile, Luigi Ligotti, il 24 novembre del 1993.
Avv. Ligotti: “… C'è la morte, ci sono le strane morti di cui parla anche Sofri nei suoi articoli, Andrea Pardo, la Rinaldi. Queste morti misteriose… Anche Mauro Rostagno non è morto per lupara. Non è morto per lupara: è stato fatto tacere! Sicuramente. Ma alla vigilia di un interrogatorio per questi fatti, convocato dal Giudice… Non è morto per lupara. Questa è una storia macabra, ancora da scrivere! Ma questi erano gli uomini: loro mafiosi, perché il loro linguaggio è mafioso (…). Io dico che la causa della morte di Rostagno – è una mia supposizione – è nei fatti di questo processo, non nella comunicazione giudiziaria: perché non è morto per lupara”.
Avv. Gentili: “Signor Presidente, metto a verbale che abbandono l'aula dell'udienza: il difensore di Sofri abbandona l'udienza perché l'accusa di assassinio a una presunta mafia di Lotta Continua e quindi, indirettamente, allo stesso Adriano Sofri, l'accusa di assassinio di Mauro Rostagno eccede i limiti della difesa di Parte Civile e rende insopportabile ascoltare, criticare una discussione in questi termini…”.
Presidente: “Avvocato Gentili, l'avvocato Ligotti ha fatto un'affermazione e ovviamente se ne assume la sua… se ne assume la responsabilità”.
Nessun avvocato avrebbe potuto per mio conto dire, per qualunque fine di difesa, cose così infami.
Andai a Trapani il giorno dopo. I responsabili di quella procura emisero un comunicato in cui si negava recisamente qualunque fondamento alle insinuazioni di Ligotti. A distanza di tre anni, nel 1996, mentre Chicca era in carcere, l'Espresso e Panorama pubblicarono il rapporto di un capitano dei carabinieri del reparto operativo di Trapani alla procura trapanese, datato 4 novembre 1992, e allegato da allora, sotto segreto istruttorio, all'inchiesta sull'assassinio di Mauro.
Questo.
“Oggetto: Omicidio in pregiudizio del sociologo Mauro ROSTAGNO.
Sembra necessario segnalare alla S.V. quanto il dott. LOMBARDI (il giudice istruttore dell'inchiesta Calabresi, ndr) ha dichiarato in un colloquio informale avvenuto il 3 c.m. con lo scrivente: è convinto che l'omicidio ROSTAGNO sia nato nel contesto di Lotta Continua; subito dopo aver inviato la comunicazione giudiziaria al ROSTAGNO, era stato avvicinato dall'avvocato PISAPIA (figlio del più noto Giandomenico, difensore di fiducia di SOFRI e BOMPRESSI) che aveva chiesto un colloquio del ROSTAGNO con lo stesso magistrato purché tutto si fosse svolto nella più assoluta riservatezza (…); due o tre giorni dopo questa richiesta, l'On. BOATO aveva convocato la televisione nazionale per dare l'annuncio del c.d. “caso SOFRI” rendendo vana qualsiasi forma di riservatezza; il ROSTAGNO era al corrente di tutte le motivazioni, compresi esecutori e mandanti, concernenti l'omicidio Calabresi; il ROSTAGNO aveva rotto i ponti con i suoi ex compagni di lotta e forse aveva intenzione di dire la verità; la ROVERI e il CARDELLA sanno tutto sull'omicidio CALABRESI e su quanto il ROSTAGNO aveva intenzione di fare; c'è una fonte che, informalmente, ha dichiarato tutto questo; il MARINO ha detto tutto quanto sapeva.
Si consiglia alla S.V. un colloquio con il dott. LOMBARDI per approfondire gli spunti investigativi forniti.
Un cordiale saluto,
Cap. Elio Dell'Anna”.
Sulla fabbricazione di questo madornale falso nessun tribunale ha accettato di indagare. Il giudice Lombardi, istruttore dell'inchiesta Calabresi, smentì tutto con veemenza: peccato che non querelasse anche lui l'ufficiale. Giuliano Pisapia ricordò di aver pubblicamente chiesto che Mauro venisse ascoltato al più presto; e si ripubblicò il testo dell'ultima dichiarazione di Mauro alla sua televisione, il 26 agosto 1988. “Sono stato sbattuto in prima pagina, come si usa dire, a causa di una comunicazione giudiziaria per l'omicidio Calabresi… Ad un mese dalla data della comunicazione, non mi è noto di che cosa sono accusato, in base a che cosa, chi mi accusa… C'è tempo, non c'è fretta: questa la voce che mi arriva dal palazzo. Il giudice Pomarici, pm, è in ferie. Bene. Aspetterò. Ho imparato tante cose nella vita, anche ad aspettare. Ma intanto qualche spiritoso si è fatto strane idee sul mio conto che vorrei subito dissipare. Per esempio, si è fatto l'idea che questa vicenda mi ha messo un bavaglio alla bocca… Insomma, che tutto ciò mi ha dato una calmata. Purtroppo non è così. Non mi sono calmato, perché non ero agitato neanche prima. E non ho sterzato da nessuna parte, perché tendo ad andare dritto per la mia strada, e sono anche cocciuto. Da quasi vent'anni vivo in Sicilia dove ho insegnato nelle università, mi è nata una figlia, ho famiglia, parenti, affetti. Ho messo radici, e non sarà facile a nessuno strapparmele. Non sono ‘di passaggio'… Ho intenzione, se Dio m'assiste, di vedere nascere qui i miei nipotini, e di finire d'imbiancare la mia barba e i miei capelli sotto questo sole, in questa terra… Spero sarà fatta luce anche sull'assassinio di Calabresi, e anche su quello dell'anarchico ferroviere Pinelli, che volò giù dal quarto piano di quella Questura. Visto che ne sono imputato, vorrei anche essere sentito. Ma non ho fretta. Coi comodi del signor Pm Pomarici visto che anche lui ha diritto alle sue ferie. E io alle mie. Qualcuno avrà avuto i suoi motivi per tirarmi dentro a questa sporca faccenda. Ho tutto il diritto di sapere chi e perché, poffarbacco. Ed anche di venirne fuori, con totale restituzione dell'onore mio, e quello di Lotta Continua, che se pur lontana, passata e chiusa, è una fetta della mia vita cui non ho motivo alcuno di rinunciare. Grazie. Spero solo che non mi tocchi il destino del mio amico Adriano Sofri, su cui il giudice ha scritto che non ci sono prove, ma anche che non ci saranno neppure in futuro, né si potranno trovare. Beh, allegria”.
Tre anni dopo, al momento dell'arresto della “mantide” Chicca, Ligotti ci riprova. “Le due piste, quella della faida interna a Saman e quella che porta al processo Calabresi, non si escludono a vicenda. Dietro la morte di Rostagno c'è qualcosa di grosso. E la mafia non c'entra niente… Perché insistere sulla mafia? Secondo me continua il depistaggio”. Ligotti è stato l'avvocato di una moltitudine di mafiosi “pentiti” di rango. Quando i pluriassassini mafiosi pentiti da lui patrocinati cominciarono a parlare di Mauro deve aver cambiato idea. Dopotutto, che cosa c'è di più umano?
Una catena di pentiti. Vincenzo Sinacori ha raccontato di aver partecipato, latitante, a un colloquio a Castelvetrano tra Francesco Messina Denaro e Francesco Messina, che avrebbero assegnato alla cosca trapanese l'incarico di ammazzare Rostagno. Antonio Patti e Enzo Brusca hanno riferito dell'insofferenza di Cosa Nostra per le inchieste di Rostagno contro gli uomini di Riina in provincia di Trapani, e delle felicitazioni di Riina dopo l'omicidio. Francesco Milazzo ha riferito che Francesco Messina gli disse: “Per Rostagno abbiamo sistemato tutto”. Già Francesco Marino Mannoia aveva sentito in carcere “lamentarsi i trapanesi” per quel giornalista che sfotteva i boss. E Giovanni Brusca: “Fu Riina a dirmi che eravamo stati noi… che era stata Cosa Nostra a uccidere Rostagno”. Quanto ad Angelo Siino, aveva addirittura detto ai giudici di essersi “mosso per salvarlo, non volevo che si facesse troppo rumore con quell'omicidio…”.
Dodici giorni prima di Mauro era stato assassinato dalla mafia trapanese un giudice in pensione, Alberto Giacomelli: perché, raccontò il “pentito” Milazzo, “era arrivato l'ordine di uccidere un giudice qualsiasi”. Mandante: Virga. Per l'omicidio dell'agente penitenziario Giuseppe Montalto, è in carcere, all'ergastolo, Vito Mazzara, già campione di tiro a volo: mandante, anche questa volta, Vincenzo Virga.
Nel 1996, con Chicca in galera, Rossana Rossanda impiegò le parole pertinenti. “Non diceva Rostagno di non volere un ghetto d'oro in un mondo di merda? D'oro non ha avuto nulla. Del resto gliene rovesciano addosso, a lui e ai suoi, a palate”.
Morto Mauro, il giudice del caso Calabresi si premurò di dire che non aveva mai dubitato di una sua implicazione, che l'avviso gli era stato spedito a sua tutela, che il bravo Leonardo Marino aveva fatto il suo nome e qualche altro solo perché li credeva membri dell'Esecutivo di LC, e solo finché sostenne che l'attentato a Calabresi fosse stato votato dall'Esecutivo di LC… Un episodio di garantismo, diciamo. Scrissi allora: “Se un nesso c'è fra processo Calabresi e assassinio di Rostagno, esso sta nell'influenza che un addebito infamante quanto infondato può aver avuto sugli assassini nel far ritenere Mauro più isolato e debole”.
Naturalmente, tutte le architetture che, in odio a me e a noi, o per amore di torbide perquisizioni dell'intimità altrui, o in antipatia a Claudio Martelli – che, come altre mille persone perbene, aveva denunciato la matrice mafiosa – si entusiasmavano di volta in volta della “mafia di LC” o della “mafia domestica” e della vedova nera, non erano solo infami: erano rotondi depistaggi in favore della mafia propriamente detta. Del resto noi, io stesso, non ci attenemmo ad alcun partito preso. Non escludemmo alcuna possibilità, tranne quelle che sapevamo impossibili: noi stessi colpevoli verso un nostro compagno e amico dei più cari, o la sua compagna. Dovemmo chiederci – dovrebbe farlo chiunque – che cosa sarebbe successo se fosse stato ammazzato uno di noi: quale mucchio di immondezze si sarebbe smosso per saziare i vili e gli invidiosi. A questo odioso compiacimento cedettero purtroppo anche persone acceccate da un amore geloso per Mauro. Diventò penoso muoversi in questo intrico di ferite e sospetti e affetti traditi: Maddalena è riuscita a non ripiegare mai di un passo. Depistaggio era stato, e deliberato, fin dall'inizio. La tesi che oggi viene fatta propria dal rinvio a giudizio di Ingroia era stata dall'inizio perseguita da poliziotti come Rino Germanà, il vicequestore che nel 1992 sfuggì rocambolescamente e arditamente all'agguato di Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano sul lungomare di Mazara. E all'opposto, la tesi sul torbido intreccio intestino di amanti e affari era stata pervicacemente sostenuta, a scapito di indagini serie, e anzi in pro della cancellazione delle prove, da uomini dei carabinieri. (Non dico “dai carabinieri”, e non solo perché le generalizzazioni sono per principio da evitare, ma per la lezione amara di questi anni, sulle rivalità nell'Arma e i loro esiti drammatici per il destino di tanti suoi uomini di punta). Il maggiore dei carabinieri Nazareno Montanti, che per primo si occupò dell'indagine a Trapani, nel 1996, diventato colonnello, all'epoca dell'arresto di Chicca, si vantò coi giornali: “Scartai subito la pista mafiosa… Dietro a molte morti che sono passate per storie di corna c'era Cosa nostra, dietro a tante storie che si diceva di mafia c'erano le corna”.
E ora, per il caso che una ventenne legga queste pagine, ripubblico da un altro anniversario qualche segno particolare di Mauro vivo. Era nato il 6 marzo 1942, aveva quarantasei anni, chissà quante vite avrebbe avuto ancora. Di tutti quelli che ho conosciuto, era il più pronto a prendersele tutte, le vite che abbiamo in offerta. In una era stato un leader del '68, come si dice, ironico, geniale, seducente, spavaldo e musicale.
Fra gli acquisti senz'altro importanti di quella stagione sta l'amicizia. Ogni tanto succede che le persone diventino amiche dentro larghi e trascinanti cambiamenti del loro mondo, sicché un ideale e un sentimento comune, giorni e notti condivisi, suscitino in loro un'intimità di pensieri speranze e gesti capaci di sopravvivere alla fine della consuetudine, al mutamento dei pensieri e dei gesti, e anche al mutamento di sé.
Così ero amico di Mauro, benché dopo la liquidazione di Lotta Continua si scegliesse vite così differenti dalle mie che potevamo riderne allegramente a ogni incontro. Fu inquilino della Macondo milanese e notturna, arancione di Poona, bianco della Comunità di Saman, pedagogo della “scuola del Sud”, denunciatore intrepido della mafia siciliana, e chissà quante cose ancora che non ho saputo. Quando tanti amici venuti da tutte quelle vite seguirono in una Trapani stupefatta il funerale di Mauro io mancavo, perché ero agli arresti, accusato di aver fatto da mandante di un altro omicidio. Andai alla tomba di Mauro a novembre. E' in un camposanto di Valderice, in cima a uno sperone, dirimpetto a Erice. Ci tira vento, e la vista spazia sul mare omerico e le isole. E' strano come sia difficile comprare dei fiori freschi a Trapani: o sarà perché ce ne sono già dovunque. Vanno forte i fiori artificiali. Ma nonostante il novembre, i campi attorno erano pieni di iris selvatici e di calendole arancioni. Andai poi a visitare la sua stanza, a guardare i suoi pochi libri – io avevo, nel frattempo, accumulato migliaia di libri – a guardare le cassette delle sue intrepide denunce televisive contro i mafiosi, ad abbracciare Monica, la sua figlia di quando aveva avuto vent'anni, e Maddalena, che era nata dentro Lotta Continua e ora aveva quindici anni e un cane pastore bianco con la coda dipinta di azzurro. C'era, ospite della comunità, una ragazza autistica di nome Veronica, una specialmente sensibile e intelligente, di cui Mauro si era preso più cura. Veronica comunicava solo attraverso brani di canzoni scelti dentro una sua pila di dischi. Quando seppe della morte di Mauro, Veronica mise su la canzone che dice: “Signore, è stata una svista, abbi un po' di riguardo per il tuo chitarrista”.
Mauro aveva avuto paura di essere brutto, da bambino. Venuto il momento si era fatto crescere la barba per nascondercisi dietro, e aveva scoperto di essere bello, e somigliante al Che – o piuttosto, mi sembrava, a un moschettiere della regina. Alle elementari, raccontava, “avevo difficoltà a esprimermi, ero balbuziente, ero bravo negli scritti ma non negli orali”. Da grande diventò, a Trento e nelle assemblee di tutta Italia, un leader carismatico e un oratore smagliante. Negli scritti andava meno forte, ma per un'impazienza ai pensieri troppo ordinati e pettinati. Piuttosto, era un magistrale coniatore di slogan – e in qualche angolo scriveva poesie.
Suo padre aveva suonato per diletto la chitarra classica, lui alla fine la ereditò e ci cantava sopra, un giorno la regalò a un giovane della comunità perché gli era simpatico. Quando morì Jimi Hendrix Mauro faceva il giornale di LC e pubblicò una sua foto e la didascalia: “Suonava e cantava da dio. Morto a 24 anni per eccesso di droga. Con lui i padroni hanno vinto”. Del mimetismo, che era il contrassegno della nostra “militanza”, era un vero maestro. Poteva diventare un operaio (lo era stato), uno studente di sociologia, un docente di sociologia, un proletario occupante di casa di Palermo – restava maschio, naturalmente: questo fu il limite insuperato del nostro mimetismo.
“Ci spiegava le cose che facevamo in un modo così bello che noi non avremmo potuto accorgercene”, avrebbero detto gli antichi operai della Philips di Monza, in una serata dedicata al suo ricordo. Era un poliglotta politico, parlava con entusiasmo e applicazione il dialetto di un operaio delle valli trentine, o il brianzolo, o il palermitano. In Sicilia, dove si era trasferito a fare il dirigente di Lotta Continua, guidò una clamorosa occupazione popolare, a partire dallo Zen, nella cattedrale di Palermo, conclusa con una specie di adesione dello stesso cardinale arcivescovo.
Mimetico, Mauro era però inimitabile. Le sue idee erano inservibili senza di lui, fantastiche in lui. Le sue idee erano meno importanti di lui: ci sono persone per le quali è vero il contrario, e non hanno da starne allegri. Più delle idee esplicite, c'era nel trascinante mimetismo di Mauro qualcosa che contava di più, e durò sempre: un lancinante desiderio di essere amato. Conquistava gli altri perché voleva essere amato, e intanto era prodigo di sé. Più tardi fu pronto a deplorare il leaderismo e il maschilismo di allora, e a rimpiangere di non essere stato più amato “per sé”.
Era trionfalista, come noi allora: e anche spaventato e allarmato, come noi. A differenza della maggioranza di noi, illusi che la maturità della lotta di classe tenesse l'Italia al riparo dal flagello della droga, sapeva che cosa sarebbe successo – era già successo. Quando salutammo la rivoluzione che non avevamo fatto, e ci salutammo reciprocamente, se ne andò con una tristezza ma senza risentimenti. (Venne a cercarmi una volta in piena notte, da un'altra città, per dirmi che aveva avuto un pensiero urgente: che io non ero stato un padre in LC, ma una madre. E ripartì). A Trento, aveva festeggiato i vent'anni del Sessantotto con un discorso pubblico in cui spiegava che eravamo stati sconfitti, e aggiungeva: “Per fortuna”. Infatti, l'abbiamo scampata bella.
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