L'analisi politica di Lanfranco Pace
Premier e imputato
Cosa avrebbero fatto Veltroni o D'Alema o Piero se avessero vinto le elezioni in modo netto, inconfutabile, confortati da un larghissimo consenso popolare, riportando per giunta un grande successo personale e appena un mese dopo fossero dovuti comparire di fronte a un tribunale presieduto da un magistrato “nero anzi nerissimo”?
Mettiamola così. Cosa avrebbero fatto Veltroni o D'Alema o Piero se avessero vinto le elezioni in modo netto, inconfutabile, confortati da un larghissimo consenso popolare, riportando per giunta un grande successo personale e appena un mese dopo fossero dovuti comparire di fronte a un tribunale presieduto da un magistrato “nero anzi nerissimo”, dal curriculum senza ripensamenti né tentennamenti, passato alle cronache per pubbliche dichiarazioni mettiamo contro il sindacato, l'aborto e l'immigrazione? Correrebbero il rischio di una condanna pesante per un reato che certo non è una quisquilia ma comunque è stato commesso anni e anni prima e di andare per il mondo con un macigno sulle spalle? Andrebbero serenamente al massacro, a mettere la testa sul ceppo, fidando nell'imparzialità della magistratura, perché la legalità innanzitutto e magari cantando “siam tre piccoli porcellin”? Conosco i miei polli, c'è del Lenin nel loro Dna anche quando sorridono e dicono che il più grande fu JFK. Avrebbero chiamato a raccolta vaste masse e progressiste, editorialisti di complemento e sempre pronti all'uso, per stroncare il bieco tentativo di stravolgere per via giudiziaria il responso delle urne. Si obietterà però che non c'è alcuna prova materiale di questo, che la storia non è fatta di ucronie, che né Veltroni né D'Alema né Fassino sono sotto processo e nessuno intellettualmente onesto può dubitare della loro buona fede, della loro disponibilità a chiamarsi fuori dalla politica, per eleganza e senso della pubblica morale, in fondo non è stato proprio D'Alema il solo presidente del Consiglio a dimettersi dopo una sconfitta che nemmeno gli competeva?
Prendiamolo per buono. Pretendere però che anche Silvio Berlusconi rispetti sempre e comunque la magistratura sarebbe come cancellare di colpo gli ultimi quindici anni di storia. Operazione ardua anche per maestri nell'arte della rimozione come i post comunisti. Se il processo in corso alla decima sezione del tribunale di Milano presieduto dalla dottoressa Nicoletta Gandus fosse il primo a suo carico, certamente anche il presidente del Consiglio si sarebbe difeso e battuto come qualunque altro imputato. Si da il caso invece che quindici anni fa una certa magistratura dette l'assalto alla fortezza con ogni mezzo perché “è il fine che giustifica i mezzi”, slogan che non ha nulla di legale né giuridico. Rovesciarono l'ancien régime senza costruirne di nuovi, come era ovvio e prevedibile, e da allora c'è scontro frontale e feroce. Il premier è diventato l'uomo politico più perseguito al mondo per reati commessi in una precedente attività e che la maggior parte degli imprenditori italiani ha allegramente e impunemente commesso e quando si è molto perseguiti non ci vuole molto a sentirsi molto perseguitati. Non bastasse questo, la magistratura, meglio alcuni esponenti particolarmente pittoreschi e impresentabili della corporazione, sono riusciti a far deragliare anche il governo Prodi. Può anche essere che la politica sia screditata e da riformare, che Berlusconi avrebbe fatto meglio a non rifare gli stessi errori del 2001, a limitarsi all'inizio a provvedimenti puntuali, a prendere quindi d'acchito il toro non per la coda ma per le corna. Comunque anche alla volontà di farsi del male ci deve essere un limite e il premier l'ha posto. Per ovvie ragioni. Vuole governare cinque anni, sa che questa è l'ultima tornata. Ha avuto elettoralmente e politicamente ragione, quindi gli altri, tutti gli altri hanno giuridicamente torto. Una scorciatoia arrogante, brutale ma altro non può essere dato in un paese che non ha regole e quelle poche che ha sono desuete. Il Pd prima di ritrarsi come vergine offesa, di dire che così non va e di piangere su un dialogo morto prima ancora di nascere, di consegnarsi mani e piedi legati ai fautori della legalità a tutti i costi che è poi il grado zero della politica rifletta sui suoi arcaismi, sui suoi opportunismi e sulle tante occasioni mancate.
Berlusconi costretto a strafare
Berlusconi è costretto a riaprire uno scontro frontale e a strafare, perché pare che di fronte non siano affatto intenzionati a farsi carico del problema cruciale della giustizia e del rapporto perverso in Italia fra i poteri legislativo esecutivo e giudiziario. Se no ne avrebbe parlato negli incontri con Veltroni e sarebbe stata trovata una soluzione comune per proteggere le massime cariche dello stato per tutta la durata del mandato da iniziative giudiziarie. Se ciò non è accaduto è anche perché il Pd su questo lascia a desiderare, manca di coraggio, è conformista, piatto, parla di snellire il funzionamento della giustizia, dargli più mezzi soldi e uomini, e ritrovare la certezza della pena, sai che fantasia. Non si conosce l'opinione del leader, si sa invece cosa pensano alcuni suoi principali collaboratori. Lanfranco Tenaglia, ex magistrato e ministro della Giustizia ombra, pensa ad esempio che l'immunità parlamentare sia un privilegio insopportabile, dimenticando che fu istituita secoli fa proprio per impedire che i vari altri poteri potessero limitare la sovranità popolare: per dirla con i padri fondatori che rovesciarono davvero vecchi regimi solo il Parlamento può giudicare un parlamentare. Ritrovare questo orgoglio è la condizione minima perché la politica riprenda la supremazia che le spetta. In nome della superiorità per così dire ontologica tra chi è stato eletto dal popolo sovrano e chi invece ha vinto un semplice concorso statale.
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