Mandela andato a male
"Il Mandela andato a male”: così si può definire il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe. Una definizione, che si ispira a quegli altri personaggi che Jorge Luis Borges aveva raccontato, in bilico tra ironia e metafisica, nella sua “Storia universale dell’infamia”.
"Il Mandela andato a male”: così si può definire il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe. Una definizione, che si ispira a quegli altri personaggi che Jorge Luis Borges aveva raccontato, in bilico tra ironia e metafisica, nella sua “Storia universale dell’infamia”. Continuando nei maneggi in cui è maestro, il leader centroafricano è vero, sembra essere riuscito ormai a far passare per lo meno il principio che ci sarà un secondo turno presidenziale. Ma in Parlamento è già ufficiale che il suo partito non avrà più la maggioranza. È già ciò suona un po’ come primi titoli di coda, per il film iniziato il 21 febbraio 1924, con la nascita di Robert Matibili alla missione Kutama.
Sì: Matibili, non Mugabe. “L’Africa agli africani, lo Zimbabwe agli zimbabweani” è lo slogan con cui non solo ha tolto le aziende ai proprietari terrieri di origine europea, ma dal 2000 ha anche iniziato a privare della cittadinanza almeno due milioni di neri, un abitante su quattro. Oriundi dei paesi vicini, “totemless” come li definisce con disprezzo nei suoi discorsi. Privi cioè di uno dei venticinque “mitupo”, o come direbbero appunto i nativi d’America “totem”, che definiscono il lignaggio dei clan dell’etnia maggioritaria shona. Secondo l’opposizione, il passaporto lo tolgono solo a chi sta contro il potere. Altrimenti, il primo a essere privato della cittadinanza avrebbe dovuto essere lui stesso. Suo padre, è saltato fuori di recente, si chiamava in realtà Masuzyo Matibili, era nato nel Malawi, ed era di etnia tumbuka. Quanto alla missione Kutama, si tratta di un’istituzione gesuita a un’ottantina di chilometri a sud-ovest di Salisbury, oggi Harare, capitale dell’allora colonia britannica della Rhodesia del Sud. Presso i gesuiti il signor Matibili fa il falegname. Ma quando il secondogenito Robert ha sei anni lui lascia la moglie e i cinque figli, per mettersi con un’altra donna. I bambini abbandonati verranno dunque allevati da un altro lavoratore della missione, che ha il cognome shona di Mugabe.
Pur abbandonato dal padre, Robert è un privilegiato nel poter crescere in una missione cattolica. Iniziato agli studi da un padre O’Hea dalle evidenti origini irlandesi, con una bulimia di titoli che forse cela un bisogno di certezze, questo ragazzo dal cognome cambiato farà una curiosa collezione di lauree. La prima, in Inglese e Storia, nel 1951 all’Università sudafricana di Fort Hare. La seconda, in Educazione, arriva nel 1953 per corrispondenza. Della terza, in Economia, inizia a fare gli esami pure per corrispondenza presso l’Università di Londra mentre insegna in un college nell’attuale Zambia. Ma il titolo lo prende nel 1958 in Ghana, dove è andato a insegnare in un istituto magistrale. L’anno prima la Costa d’Oro è diventato il primo paese dell’Africa subsahariana a conquistare l’indipendenza. Per affermare ancora di più la propria volontà di rottura con il retaggio coloniale ha dunque cambiato il suo nome per quello di un’impero africano medievale. E al potere c’è Kwame Nkrumah, il cui radicalismo fonde un’originale interpretazione del marxismo al sogno panafricano di un continente unito.
Mugabe ha in realtà già iniziato a interessarsi alla politica dal tempo dell’università in Sudafrica. Profondamente infervorato, il giovane insegnante cattolico conosce anche Sally Hayfron, che diventa la sua prima moglie. Imbevuto di fede rivoluzionaria, nel 1960 dà le dimissioni per tornare in patria a fare il segretario alla Propaganda all’anticolonialista National Democratic Party (Ndp), che è messo al bando nel 1961, e ricostruito con l’altro nome di Zimbabwe African People’s Union (Zapu), di cui lui è ancora segretario alla propaganda. Ma nel 1962 arriva un altro provvedimento di scioglimento. Stavolta Mugabe è condannato a tre mesi di soggiorno obbligato, ma riesce a scappare in Tanganica, indipendente dall’anno prima, dove nel frattempo lo Zapu ha stabilito un quartier generale in esilio. Per solidarietà panafricanista il governo mette la radio nazionale a disposizione dello Zapu, e le trasmissioni di propaganda sono affidate appunto a Mugabe.
Ma quasi subito il partito è travagliato da una dura polemica interna. Nel 1963 l’ex compagno di università di Mugabe Herbert Chitepo e il pastore metodista Ndabaningi Sithole se ne vanno sbattendo la porta in polemica con il leader Joshua Nkomo: già dirigente del sindacato ferrovieri e anche lui studente a Fort Hare, anche se di qualche anno più anziano di Mugabe. Nell’agosto del 1963 nasce dunque lo Zimbabwe African National Union (Zanu): Sithole presidente onorario; Mugabe segretario generale; Chitepo presidente. Le ragioni del dissenso non sono del tutto decifrabili. Un’interpretazione è che lo Zanu contestasse la lotta armata iniziata dallo Zapu in favore di un approccio più moderato, ma in futuro lo Zanu avrà un’immagine più estremista dello Zapu. Nemmeno è soddisfacente quella contrapposizione etnica tra gli shona dello Zanu e gli ndebele dello Zapu che pure si affermerà in seguito, visto che Sithole è un ndebele come Nkomo. Tutto sommato, la spiegazione più convincente resta quella delle rivalità personali.
Mentre Zanu e Zapu iniziano a scontrarsi anche dal punto di vista fisico, nell’aprile 1964 diventa primo ministro Ian Smith, leader di un estremista Rhodesian Front che è pronto a proclamare un’indipendenza anche unilaterale pur di non cedere il potere alla maggioranza nera. Sia lo Zanu sia lo Zapu sono messi fuori legge, i principali leader neri finiscono in carcere, e l’11 novembre 1965 Smith dichiara infine l’indipendenza, sotto un regime di apartheid ispirato a quello sudafricano. Lo stesso anno inizia la guerriglia su larga scala. Lo Zimbabwe African National Liberation Army (Zanla), ala armata dello Zanu, recluta soprattutto shona. Equipaggiato da Cina e Corea del Nord, agisce dalla Tanzania, e utilizza la tattica maoista della guerra popolare prolungata, con la politicizzazione dei contadini. Lo Zimbabwe People’s Revolutionary Army (Zipra), ala armata dello Zapu, è reclutato invece soprattutto tra gli ndebele. Equipaggiato da Urss e Germania orientale, agisce dallo Zambia, affiancando alla guerriglia la guerra convenzionale e il terrorismo.
Dopo il 1974 lo Zanla acquisisce basi anche in Mozambico, mentre ufficiali di entrambi i gruppi sono addestrati nell’Etiopia di Haile Marian Menghistu, che, infatti, dopo aver perso il potere sarà proprio nello Zimbabwe di Mugabe che troverà asilo. Mentre il conflitto divampa Mugabe in carcere approfitta del tempo libero per arricchire la sua collezione di lauree per corrispondenza con altre due: in Diritto e in Amministrazione, entrambe all’Università di Londra. Sta per prendere anche un master in Diritto, ma lo interrompe quando ha l’occasione per scappare in Mozambico, dove prende direttamente in mano la conduzione della lotta armata e del partito. Sithole è stato intanto epurato, mentre Chitepo salta in aria nel marzo 1975 in un attentato allora attribuito ai servizi rhodesiani, ma di cui oggi c’è il forte sospetto fosse farina del sacco di Mugabe. Anche Nkomo viene a sua volta rilasciato, e si rifugia nello Zambia. Nel 1976 i due movimenti si alleano nel Fronte patriottico, fondendo anche i loro eserciti nello Zimbabwe People’s Army (Zipa).
Nel 1978 l’usura militare e le pressioni di America e inglesi convincono Smith a elezioni multirazziali, in cambio di una quote riservate ai bianchi al Parlamwnto e al governo. Sconfiggendo Sithole, vince il vescovo metodista Abel Muzorewa, che diventa primo ministro e dà al paese il nuovo nome di Zimbabwe Rhodesia: mettendo così assieme la denominazione nazionalista, da un antico sito archeologico, e quella europea, dal colonizzatore Cecil Rhodes.
Ma Zanu e Zapu continuano la lotta armata anche contro di lui, fino al nuovo accordo di Lancaster House del 21 dicembre 1979, pure combinato da Washington e Londra, e di cui stavolta sono contraenti anche Mugabe e Nkomo. L’intesa prevede una riforma agraria per 60 mila ettari, l’abolizione dei seggi riservati ai bianchi e dell’incarico di primo ministro entro il 1987, e soprattutto un momentaneo ripristino del dominio coloniale britannico, con l’invio di un governatore incaricato di organizzare le elezioni del marzo 1980. Il risultato ha connotati etnici marcati: tutti i 20 seggi dei bianchi vanno al Fronte rhodesiano di Smith; tutti i 27 seggi della regione ndebele del Matabeleland vanno allo Zapu; e lo Zanu fa man bassa di 53 sui 56 seggi restanti, lasciandone solo tre al partito di Muzorewa. Il 18 aprile 1980 è proclamata ufficialmente la Repubblica dello Zimbabwe. Divenuto premier, Robert Mugabe offre subito un posto di ministro a Ian Smith e la presidenza della Repubblica a Nkomo, ma entrambi rifiutano. Alla testa dello stato va il pastore metodista Canaan Banana.
“Hai tra le mani il gioiello dell’Africa” dicono a Mugabe nel giorno dell’insediamento il presidente mozambicano Samora Machel e il tanzaniano Julius Nyerere. “Adesso, trattalo con cura...”. Infrastrutture, produzione agricola, risorse minerarie e elettriche ne fanno il paese potenzialmente più ricco del Continente, dopo il Sudafrica. E in questo momento anche il carisma di Mugabe è altissimo, simile a quello che avrà Nelson Mandela. In effetti il Sudafrica dell’apartheid ha a sua volta fatto pressione sul governo rhodesiano assieme a inglesi e americani, per vedere se può funzionare una transizione che dia il potere alla maggioranza nera senza costringere i bianchi ad andarsene. Invece, come riconosceranno in seguito molti analisti, è per colpa del modo in cui gestisce il “gioiello” capitatogli in mano se il razzismo in Sudafrica dura dieci anni di più, spaventando i bianchi e irrigidendoli nella difesa dell’apartheid. Le cose si guastano già dal 1982, con la cacciata dal governo di Nkomo che accende la rivolta nel Matabeleland. Mugabe invia nella regione la Quinta brigata, unità d’élite addestrata dai nordcoreani, che amazza 20 mila persone. Entro il 1990 almeno i due terzi dei bianchi saranno partiti per il Sudafrica, gli Stati Uniti o il Regno Unito. E anche Nkomo nel 1983 scappa, travestito da donna. Gli verrà concesso di tornare nel 1987, in cambio dell’accordo con cui lo Zapu viene dissolto nello Zanu, ora ribattezzato Zanu-Pf (Fronte patriottico). E un’amnistia perdona sia gli ultimi 122 ribelli ndebele alla macchia, sia soprattutto le massicce violazioni dei diritti umani compiute dal regime. Lo stanco Nkomo si convertirà al cattolicesimo nel 1999, poco prima di morire per un cancro alla prostata.
Poiché nel 1987 finisce anche la quota di seggi riservata ai bianchi, Mugabe a questo punto potrebbe concludere l’operazione di costruzione di un regime monopartitico da tempo annunciata. In quell’anno assume infatti pure la carica di presidente, dopo l’abolizione del ruolo di primo ministro. Ma proprio in questo momento l’implosione del sistema sovietico avvia un’ondata mondiale di rivolte per ottenere il pluralismo che presto si estende all’Africa, dove un regime autoritario dopo l’altro è costretto all’apertura democratica. Poiché la guerra civile ha anche ridotto l’economia a pezzi, il piano quinquennale del 1989-1994, pur usando ancora terminologie di sapore sovietico, si ispira alla nuova moda liberista. E dal 1994 inizia anche un piccolo boom. Ma nel 1996, cinque anni dopo la morte della moglie Sally, Mugabe decide di sposare Grace Marufu: una segretaria che ha quarant’anni meno di lui, che da tempo è la sua amante e che gli ha già dato due figli. In chiesa, e invitando 20 mila persone, con grande scandalo della popolazione. I 60 mila dipendenti pubblici, che da tempo chiedono aumenti di stipendio, entrano in un clamoroso sciopero, al termine del quale lui acconsente alle loro richieste, ma per togliere poi a Natale le tredicesime.
E' in questo momento che sale al calor bianco la tensione con Morgan Tsvangirai, il sindacalista che ha reso lo Zimbabwe Congress of Trade Unions indipendente dal partito Zanu, e che per tre volte scherani del regime tentano di uccidere. È per recuperare popolarità che a questo punto Mugabe ha la sua trovata più devastante: chiamare i reduci della guerra di liberazione a occupare le fattorie dei bianchi. È Chenjerai Hunzvi a guidare i raid dal 1997, anno della sua elezione alla presidenza della Zimbabwe Liberation War Veterans Association, al 2001, anno della morte non si sa se di malaria o di Aids: è un vecchio guerrigliero che per sé ha scelto il significativo nome di battaglia di Hitler, “Hitler” Hunzvi.
Invece di farsi distrarre, l’opposizione si raduna nel 1999 nel Movement for Democratic Change (Mdc) di Tsvangirai, in cui sindacalisti e reduci della rivolta ndebele stanno fianco a fianco con i resti del partito bianco di Ian Smith, con gli immigrati e con gli abitanti delle immense bidonville di Harare. Alle elezioni del 2000 l’Mdc conquista a sorpresa 57 dei 120 seggi, e secondo tutti gli osservatori sarebbe stato in realtà il vincitore, senza i massicci brogli elettorali. Sempre a colpi di brogli nel 2002 Mugabe riesce a farsi rieleggere presidente con soli 53.000 voti di scarto. Il Commonwealth sospende lo Zimbabwe dall’organizzazione, mentre l’inflazione raggiunge record mondiali, il 70 per cento della popolazione è disoccupato, il 35 per cento ha l’Aids. Per la carestia tre milioni di persone necessitano di aiuto alimentare permanente, ma il governo distribuisce l’aiuto internazionale solo a chi è fedele al potere.
Tsvangirai è arrestato a ripetizione, e in un clima di brogli e intimidazioni massicce al voto del 2005 l’Mdc scende a 41 deputati. Per disperdere le residue roccaforti dell’opposizione arriva poi sulle bidonvilles l’operazione Murambatsvina, in shona, “spazzar via”: un provvedimento ufficialmente motivato da ragioni di igiene e ordine pubblico, ma finalizzato in effetti a ributtare 2,4 milioni di persone nelle campagne, da dove non potranno più votare tanto liberamente per l’Mdc. Definito da Condoleeza Rice il suo regime un “avamposto di tirannia”, Mugabe ha invece tra i suoi estimatori il venezuelano Chávez, che nel 2005 al vertice Fao di Roma lo abbraccia pubblicamente. E la Cina, che gli vende jet e armi. E l’Iran, che gli dà prestiti. Non riesce però a sfondare nel mondo no global allo stesso modo di Chávez e Castro: probabilmente, per la sua feroce omofobia. E neanche ha la possibilità di crearsi consenso interno con le risorse del petrolio come Chávez, Gheddafi o Ahmadinejad, o con quelle del boom dell’export di armi come il bielorusso Lukashenko. Un doppio handicap, che lo poterà probabilmente a essere il primo tra questi nomi del male a essere cancellato.
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