L'analisi di Lodovico Festa
Modernizzazione
Il dibattito sulla modernizzazione in Italia è sempre complicato. Lo stato dei piemontesi diede un forte impulso a una società più dinamica e aperta. Ma l'accento era più sulle “origini” che sul futuro. Né il diffondersi del conformismo savoiardo, sia pure in salsa laicista, era il contesto più adatto per organiche modernizzazioni.
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Il dibattito sulla modernizzazione in Italia è sempre complicato. Lo stato dei piemontesi diede un forte impulso a una società più dinamica e aperta. Ma l'accento era più sulle “origini” che sul futuro. Né il diffondersi del conformismo savoiardo, sia pure in salsa laicista, era il contesto più adatto per organiche modernizzazioni. Il fascismo iniziò dandosela da futurista ma divenne sempre più classico e imperiale. Pur procedendo in innovazioni reali: dal risanamento dell'agro pontino al lancio della littorina.
La fase di maggiore modernizzazione dell'Italia è negli anni Cinquanta: dalla Rai alle autostrade, dall'acciaio al petrolio, dalle case popolari alla Comunità economica europea. Ma in quegli anni la musica del governo è molto quella della difesa di costumi e tradizioni.
E' il centrosinistra che lancia la parola d'ordine della modernizzazione (e non mancano scelte di grandissimo valore come la scuola dell'obbligo fino a tredici anni) ma ci si impantana su nodi fondamentali. Uno per tutti: la decisiva riforma dell'università. E si coltivano intanto quelle forze antimodernizzanti, contro il cosiddetto neocapitalismo, che raccolgono persone di valore, come Bruno Trentin, e intellettuali estremizzanti (dal clan che formerà il Manifesto agli ideologisti “operaisti”: Toni Negri, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa). La culla dei grandi movimenti sostanzialmente luddisti, studenteschi e in parte operai, degli anni Settanta. Naturalmente anche negli anni Settanta abbondano le concrete modernizzazioni sostenute da una dinamica società civile: ma il contesto politico e intellettuale è antipatizzante.
Negli anni Ottanta la parola d'ordine della modernizzazione diviene nuovamente centrale: con risultati eccellenti e con diverse sconfitte. Alla fine, sconfitte strategiche. Segue il caos degli anni Novanta (anche se la società italiana, pur con più fatica, continua a modernizzarsi). Ci sono le speranze liberiste (dagli incerti effetti modernizzatori) alternate da periodi old socialdemocracy, burocratici e affannosi che solo persone che hanno perso le traveggole, da Francesco Giavazzi a Luca Cordero di Montezemolo, scambiano per occasioni di modernizzazione. Oggi gli elementi centrali della squadra di governo (Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Renato Brunetta) puntano a riprendere il discorso interrotto negli anni Ottanta, con un impegno di governo che non si concentra solo sul mercato (detassazioni, liberalizzazioni e privatizzazioni) ma anche su riforme istituzionali che rispondano alle esigenze di modernizzazione della società italiana (federalismo fiscale, nuovo sistema di welfare e relazioni industriali, costruzione di un'efficiente amministrazione pubblica).
Se la musica è oggi molto tremontiana, chi deve costruire i soggetti per gestire la modernizzazione sono Sacconi e Brunetta. Le basi sociali della modernizzazione sono fondamentali: gli imprenditori che sfruttarono oltre i limiti il lavoro negli anni Cinquanta sono quelli che preparano le rivolte operaie con tratti antiproduttivistici, e con finale squilibrio del paese. E' la debolezza delle basi sociali che rende difficile a Bettino Craxi spezzare la tenaglia berlinguerian-demitiana. Sono le ondate sociali (oltre le trame in toga) che indeboliscono il Silvio Berlusconi del 1994 e del 2001. Certo oggi alcune condizioni sono più positive: l'Udc è evanescente, l'establishment possibilista, la destra sociale di An sciolta, la Lega più pro rinnovamento che pro difesa corporativa del Nord. In Sicilia, c'è un leader, Raffaele Lombardo, con un nuovo passo.
L'opposizione del fronte giustizialista
Però come sempre la battaglia è alla fine determinata dai soggetti sociali fondamentali. In questo senso il ministro del Welfare e quello della funzione pubblica hanno un compito essenziale: se passa l'idea di legare la produttività a un forte aumento dei salari, se i lavoratori si concentrano sull'obiettivo, se le imprese non approfittano di un momento di bassa forza sindacale per spremere i dipendenti, se si convince una parte decisiva della pubblica amministrazione a puntare sul merito invece che sul tran tran, allora la modernizzazione decollerà saldando obiettivi dell'esecutivo con quelli dei soggetti sociali. Anche in questo caso vi sono condizioni positive: la leadership marcegagliana poggia su industriali che della partecipazione fanno la loro filosofia, da Giorgio Squinzi a Diana Bracco. E soprattutto Sergio Marchionne si è convinto che la vecchia prassi della Fiat (base anche della ultima nefasta presidenza montezemoliana) di scambiare “potere al sindacato” con utilizzo mediocre delle capacità dei lavoratori è al capolinea. Il Lingotto sa di dovere modernizzare anche il rapporto con i lavoratori. E la iperconservatrice e ultraegualitaristica Fiom Cgil in questo scontro è finita sotto sia a Pomigliano sia alla Ferrari. Mentre, d'altro canto, rifulgono i riformisti cigiellini dei chimici e dei tessili.
Nel pubblico impiego la possibilità del miracoloso affermarsi di una cultura del merito nei rapporti di lavoro poggia innanzi tutto sulla leadership di Raffaele Bonanni nella Cisl, espressione di una elaborazione sindacale di lungo periodo, gestita senza le nevrosi pezzottiane. E nella sponda che potrebbe venire da un Carlo Podda, leader della funzione pubblica Cgil, umiliato da Guglielmo Epifani.
E' inutile coltivare ottimismi spropositati, il dinamico fronte giustizialista guidato da un astuto avventuriero come Antonio Di Pietro, rappresenta un fronte della rabbiosa conservazione che unisce parti per ora minoritarie ma significative della società. Ma le possibilità dei modernizzatori di prevalere ci sono.
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